In ricordo di Tatsumi Hijikata e della sua danza
nel 12. anniversario della sua morte

(di Giorgio Salerno)


Non l'ho mai incontrato. Non l'ho mai visto, quando ancora viveva, né in scena né altrove. So che ciò marca una netta e irriducibile differenza tra me e quanti hanno potuto condividere con lui esperienze importanti, durate anni o mesi; e persino con coloro che lo hanno veduto, almeno una volta, dalla platea di un teatro. Tuttavia, sento di conoscerlo almeno un po', come chi osserva nel cielo notturno la luce emessa da una stella che ormai non esiste più.
Quando tradussi dal tedesco l'ultima conferenza pubblica di Tatsumi Hijikata, rimasi affascinato da molte delle cose che aveva detto. Probabilmente la frase più citata di quella conferenza è, giustamente, "Il mio Butô ebbe inizio nel fango primaverile". Ma io voglio ricordare qui due semplici e poetici giochi del piccolo Kunio: il primo, quando porti un mestolo nel campo per fargli vedere la campagna; il secondo, quando si mise a tagliare con un falcetto l'acqua dentro un recipiente, comandandole di star ferma per conservare il taglio, perché voleva in questo modo "soffocare il tempo" (Hijikata, 1985a). Questi lontani ricordi del povero Giappone della prefettura di Akita, negli anni Trenta, concentrano con una densità eccezionale - penso, come paragone, a quella del nucleo dell'atomo dell'uranio - le tante spiegazioni possibili del mistero delle origini del Butô.
Poiché "essere nato una sola volta non mi è mai bastato", per sperimentare la rinascita si tuffava nei vortici dei fiumi, rischiando di annegare: restava aggrappato alle radici di un salice piangente, finché arrivava qualcuno a tirarlo fuori (Hijikata, 1985a).
Altre immagini mi sono rimaste impresse nella memoria: le cose che continuavano a nuotare dentro di lui "come zattere su un fiume", che talvolta si incontravano e spesso "mangiavano l'oscurità", il suo alimento più importante; i gesti, contenuti nel suo corpo, che si muovevano e premevano per uscire, passando infine attraverso le braccia e le mani; i movimenti e le forme che rinascevano e morivano continuamente nella sua danza; la voce della sorella maggiore, che gli diceva: "Ciò che vuoi esprimere con la tua danza, potrai farlo solo se non lo esprimi" (Hijikata, 1985a).
Hijikata si serviva dei suoi ricordi di bambino, di immagini di contadini, dai quali emergeva un dato comune: il legame inscindibile tra uomo e natura. E la consapevolezza dei cicli e del ritmo della natura implica l'accettazione del mutamento come dimensione abituale del corpo. La condizione che più interessava Hijikata era quella del "corpo in pericolo", dei momenti in cui la percezione di sé rischia di dissolversi. Stava cercando non una forma definitiva del Butô, ma di rendere visibile, mediante i corpi dei danzatori, l'azione di quelle forze profonde. Egli sapeva rendere vive queste forme sulla scena, grazie alla sua grande forza spirituale. L'assenza di questa fondamentale qualità, in alcuni danzatori Buto odierni, finisce per snaturarne la danza, che diventa stranezza esotica (Kuniyoshi, 1993). La prima volta che Min Tanaka vide Hijikata in scena riuscì solo a pensare: "Questa è la verità". Ciò che impressionava maggiormente non era la tecnica, non il divertimento provocato, non la felicità di assistere a una performance straordinaria, ma la rivelazione della follia dell'esistenza. Non avrebbe mai più provato una cosa del genere, in seguito. Hijikata - continua Tanaka - non usava il corpo come se fosse un materiale, era una cosa sola con esso, sempre. Lo trasformava in un'arma: un coltello affilato. La gente era stupita, persino impaurita quando lo guardava. E lui attaccava sempre il pubblico (Stein, 1986c).
Fu "l'architetto del Butô": ne deline? infatti limiti, principi, direzioni e creò le tecniche necessarie al suo sviluppo (Viala, 1988, p. 62). Creando il Buto, ha offerto alla danza moderna nuove basi per il suo sviluppo, contribuendo a indirizzarla verso una nuova universalità artistica (Takahashi, 1986). E il Buto deve i suoi fondamenti e la sua espansione - secondo Nario Goda - in massima parte all'arte di lui, all'energia e alla sincerità del suo impegno, all'incredibile sensualità racchiusa nella sua espressione corporea. Lo sviluppo impetuoso del Buto durante gli anni Settanta fu incoraggiato e in gran parte determinato da lui e da Ôno, spingendo i giovani danzatori a costituire propri gruppi, a intraprendere strade proprie. Fu un processo di gemmazione, che ampliò indubbiamente la gamma espressiva di questa danza (Goda, 1986).
Quando iniziò a danzare, il Giappone era occupato dalle truppe statunitensi e la colonizzazione culturale da parte dei vincitori della guerra era stata avviata. L'esplosione dell'entusiasmo per il balletto romantico occidentale era indubbiamente un segnale forte della capacità nordamericana di diffondere ovunque e a livello di massa gusti, estetiche, consumi e modi di vita propri. Il giovane immigrato dalla povera provincia del Nord cercò di contrastare questo processo - non era solo, in questa battaglia - e indirizzò il proprio lavoro artistico alla "costruzione di una nuova identità giapponese" (Slater, 1986). E infatti, all'opposto della danza europea, il suo Butô non cercava di sfuggire la forza di gravit?, non voleva creare la bellezza attraverso un movimento guidato dalla ragione (Takahashi, 1986). Ma non volle neppure riprendere e rinnovare la tradizione classica giapponese, che aveva nel Kabuki la sua massima espressione: l'attacco all'estetica classica, ai principi fondanti del teatro e della danza classici fu portato a fondo, con estrema determinazione e radicalità. Da questa ribellione nacque una nuova forma artistica: il Buto.
Non vagheggiava un nostalgico ritorno al Giappone pre-industriale, ciò che voleva portare a compimento era invece un'opera di svelamento: raschiar via la patina occidentalizzante, indagare le oscure verità celate dietro la rassicurante maschera sociale della moralità, far riemergere la "giapponesità" sepolta. Contrappose perciò una visceralità violenta al raffinato formalismo di una tradizione che voleva ignorare quel mondo, mostrando sulla scena gli esseri ai margini della società, non-persone come vagabondi, prostitute, ubriachi. L'esibizione di tutto ciò che era percepito "volgare" dalla cultura dominante - l'aperta esibizione della sessualità, in primo luogo - fu da lui usato come arma per infrangere un'estetica fondata sulla finezza e la reticenza. Coerente con tale proposito era anche la valorizzazione dei corpi tarchiati, "vicini al suolo" dei suoi connazionali (Sanders, 1988).

Secondo Hijikata:
La camminata dei condannati a morte è la forma base della danza (...) Diventare pazzo è lo standard di base per la creazione (...) Tutti i tipi di danza possono essere danzate nello spazio grande come un tatami (Goda, 1995).

Opponendo al principio della composizione lineare quello dell'esplorazione delle profondità del corpo, trasformò quest'ultimo da mezzo espressivo a oggetto della ricerca. Attraverso le sue continue provocazioni, le improvvisazioni, le metamorfosi, il corpo comunicava la sua verità, distruggendo le abitudini che ne limitavano il movimento e il modo di percepirlo (Viala, 1988, p. 64).
Kazuo Ôno ha detto più volte che il modo di danzare di Hijikata lo affascinava e che, grazie a lui, capì una cosa molto importante: la forza e l'energia dell'erotismo. Hijikata sapeva utilizzarlo con delicatezza e con violenza, sconcertando e provocando il pubblico. Aveva focalizzato la grossa funzione della repressione sessuale nella cultura giapponese e su quella concentrava la sua straordinaria potenza creativa. La danza, per lui, era una "forma di combattimento" da far conoscere e da diffondere, con la forza di una malattia contagiosa (Slater, 1986). Secondo Miyabi Ichikawa, quello che Hijikata mostrava sulla scena, negli anni Sessanta, non aveva alcuna qualità estetica: era invece la negazione e la "distruzione" del corpo, realizzata impiegando un enorme carica di violenza ed erotismo (Ichikawa, 1989).
Ebbe un grande ascendente sui giovani, affascinati dal suo radicalismo artistico, che molti consideravano anarchico. E fu anche un autentico punto di riferimento per pittori, poeti, musicisti, attivisti politici di sinistra. Ma non volle sfruttare il prestigio e la notorietà né per fini politici, né per arricchirsi: continuò a fare il suo lavoro, fino alla fine, in piccoli teatri - da 100 o 150 posti - e nei locali notturni, perché il pubblico potesse vedere da vicino la qualità della sua danza, il battito degli occhi, la bocca, la gola, la tensione proveniente dall'interno del corpo del danzatore (Durland, 1990).
Durante il mio soggiorno di studio in Giappone, nel 1995, vidi al teatro Asbestos-kan un film in b/n degli anni Sessanta, contro la bomba atomica. Era stato girato totalmente in esterni, su una spiaggia di fronte al mare. Ricordo bene le due mani in primo piano (le due persone sono fuori campo) che dialogano, incontrandosi e scontrandosi; una vacca dietro cui spuntano due uomini che eseguono una danza grottesca; due capretti o agnelli portati in braccio dai due; un gruppo di una decina di bambini (tra i 4 e i 10 anni, si direbbe) che giocano nudi e si ammucchiano uno sull'altro; infine, fotogrammi di un'esplosione nucleare. Un film fresco e pieno di vita, giocoso e inventivo, ma anche incisivo nella denuncia dell'assurdità e della crudeltà dell'arma di distruzione totale che minacciava (e minaccia ancora) l'umanità.
Dopo Anma (Il massaggiatore cieco), la sua ricerca si volse a investigare il proprio passato, le proprie radici. Formò poi un gruppo di donne senza alcuna esperienza di danza, con le quali lavorò intensamente, persuaso che "gli uomini giapponesi sono stati castrati dall'Occidente; le donne invece accettano in modo naturale l'irrazionalità della realtà e possono così incarnare l'irrazionalità della danza". Yoko Ashikawa, Saga Kobayashi e Mimoko Mimura divennero così eccellenti danzatrici. Nel 1968, l'anno dello straordinario Nikutai no Hanran, Ashikawa faceva la sua prima performance davanti al pubblico (Adolphe, 1991).
Vidi un gruppo di sue danzatrici in un altro film, del 1976. Hijikata ha l'aspetto di un vecchio, che vaga in un paesaggio notturno nei dintorni di un porto. A tratti si mette a correre, sembra un animale braccato. Compaiono poi sei danzatrici coperte di stracci, i volti contratti in smorfie grottesche: sono streghe o spiriti? Si appostano su un molo, tra cataste di tronchi, come fossero uccelli rapaci. Si muovono strisciando quasi per terra, stanno sedute sui talloni. Ondeggiano, minacciose: sembrano emettere grida non udibili da orecchie umane. Un'ombra persistente di morte accompagna il vagabondo. Se paragonato al film del decennio precedente, però, la sua danza sembra aver perduto forza comunicativa.
La sua forza creativa si stava esaurendo? Nario Goda ritiene di sì, e indica una data precisa: il 1977, l'anno in cui terminò di scrivere Yameru Maihime (La malattia di una danzatrice), tradotto in inglese col titolo The Ailing Dancer. (Goda, 1995) .
Anche se la constatazione fosse esatta, comunque, non potrebbe sminuire la figura e il ruolo di questo grande artista, protagonista della sua epoca.

Ricorda Tanaka:
Hijikata mi disse un giorno: "Tu sei un uomo fatto di carne." (...) La carne non conosce paesaggio né storia. Inizia essendo null'altro che carne. (...) Hijikata pronunciava le parole o le divorava? Hijikata le provocava. Questo è quanto la mia carne ricorda. Quando le parole sono provocate e si mettono dritte, il corpo vibra e determina fantastici movimenti. (...) Iniziava un movimento che non sarebbe mai arrivato a termine, per contrastare le velocità prestabilite. (...) Si può definire Hijikata come la manifestazione di un tipo di emozione che non si può possedere in esclusiva. Fin dal primo momento egli fu un'emozione. E la sua genealogia del corpo non si risolse mai in nostalgia individuale. (...) Hijikata sembrava mangiare i venti. Su questo non c'è alcun dubbio. Le viscere che non sanno fare questo non possono acquietare le parole. Non ho mai visto un paesaggio nella sua danza. Le cose non si fermavano mai (Tanaka, 1986, p. 154).

Dedicò molto del suo tempo al lavoro di laboratorio. Rifiutava profondamente - ricorda Kô Murobushi, che seguì un suo stage di danza nel 1968 - sia la tradizione occidentale che quella giapponese, per cercare invece le sorgenti del desiderio interiore che ci spinge a muoverci. Per lui era fondamentale mantenere sempre il corpo in uno "stato di crisi", in bilico, mai rilassato. Tanti furono suoi allievi o lavorarono con lui. Tutti lo hanno considerato un grande maestro (Stein, 1988).
La danza di Hijikata era - per usare le sue parole - "la lotta delle cose invisibili all'interno del corpo", la quale acquisiva, una volta che si fosse riusciti a portarla all'esterno, una valenza sacrale. Le tecniche avevano appunto questo scopo: rendere manifesto l'invisibile, ciò che si ritiene inesprimibile (Haerdter e Kawai, 1986).
Il Butô non si può insegnare, così come il sapore di una cosa assaggiata non si può spiegare ad un altro. Inoltre, ha la finalità di ricondurre gli spettatori alla reale conoscenza del proprio corpo e di sé (Goda, 1995).
Hijikata disse con molta chiarezza che il Butô non si può imparare con esercizi. Perché "il Butô è ciò di cui il corpo si è impossessato spontaneamente e direttamente, nel corso degli anni" (Hijikata, 1985a). Infine, non ha fissato regole per danzare il Butô. Questo è straordinario, secondo me. Perché egli rimane un grande, pur lasciando ciascuno totalmente libero. Anche se è molto più difficile che seguire delle regole o frequentare una scuola. Le sue teorizzazioni e le sue tecniche furono create per dar volto al suo mondo interiore: copiarle non avrebbe senso, anzi, sarebbe la negazione del Butô alla sua radice. I risultati delle sue scoperte sono importanti, ma è più importante, io credo, la possibilità che ci ha lasciato di svilupparle, lungo nuovi percorsi artistici.

Roma, Febbraio 1998

BIBLIOGRAFIA


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1991 "Tatsumi Hijikata, fondateur du Butô. La tenebre fut inventée par un meteore", Festival International de Nouvelle Danse, p. 76-79.

DURLAND, Steven
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GODA, Nario
1986 "Ankoku Butô", in Haerdter M. e Kawai S. (a cura di), Butoh: Die Rebellion des Körpers, Berlin, Alexander, p. 141-154.
1995 Seminario su T. Hijikata e K. Ôno, 14 Feb. - 10 Apr., Teatro Fonté, Yokohama.

HAERDTER, Michael e KAWAI, Sumie
1986 "Tradition, Moderne und Rebellion", in Haerdter e Kawai (a cura di), Butoh: Die Rebellion des Körpers, Berlin, Alexander, p. 9-34.

HIJIKATA, Tatsumi
1985a "Suijakutai no Saishu" ("La raccolta dei corpi indeboliti", ultima conferenza pubblica di Hijikata, trad. ted. "Mein Tanz ist aus dem Schlamm geboren", in Haerdter M. e Kawai S. [a c. di], Butoh: Die Rebellion des Körpers, Berlin, Alexander), p. 35-48.

ICHIKAWA, Miyabi
1989 "Butoh: Die Erniedrigung des Körpers", Ballett International, n. 9, Set., p. 14-19.

KUNIYOSHI, Kazuko
1993 "Recent Challenge of Butoh", in JADE '93 / Japan Asia Dance Event, Tôkyô, p. 287-291.

SANDERS, Vicki
1988 "Dancing and the Dark Soul of Japan: An Aesthetic Analysis of Butoh", Asian Theatre Journal, v. 5., n. 2, p. 148-163.

SLATER, Lizzie
1986 "The Dead Begin To Run... Kazuo Ohno and Butoh Dance", Dance Theatre Journal, v. 4, n. 4, Winter, p. 6-10.

STEIN, Bonnie Sue
1986c "Farmer/Dancer or Dancer/Farmer" (int. a Min Tanaka), The Drama Review, n. 110, Summer, p. 142-151.
1988 "Celebrating Hijikata: A Bow to the Butoh Master", Dance Magazine, Mag., p. 44-47.

TAKAHASHI, Yasunari
1986 "Butoh und das neue japanischer Theater", in Haerdter M. e Kawai S. (a cura di), Butoh: Die Rebellion des Körpers, Berlin, Alexander, 1986, p. 127-129.

TANAKA, Min
1986 "I Am an Avant-Garde Who Crawls the Earth. Homage to Tatsumi Hijikata", The Drama Review, n. 110, Summer, p. 153-155.

VIALA, Jean e MASSON SEKINE, Nourit
1988 Butoh: Shades of Darkness, Tôkyô, Shufunotomo.




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