BUTÔ, DANZA DELLA VITA
(di Giorgio Salerno)


Del Butô si cominciò a parlare, in Europa, intorno al 1980.
Ma era nato vent'anni prima, a Tôkyô. Il pubblico, sia in Europa occidentale che nel Nord America, scopriva qualcosa di nuovo e sorprendente, di forza dirompente e di intensissima capacità comunicativa. La critica si cimentava, con qualche difficoltà, nella ricerca di definizioni adeguate per quella strana danza, considerandola, altenativamente: antitradizionale o ispirata al teatro popolare giapponese del XIX secolo, antioccidentale o epigona dell'Espressionismo tedesco, post-atomica o primitiva, erotica o intimista, provocatoria o glaciale, corporale o metafisica... Descriverlo non era (e non è) facile, evidentemente.
Qualcuno provò anche a individuare alcuni elementi che sembravano ricorrenti, quali un certo tipo di gestualità, la predominante lentezza dei movimenti, la nudità dei corpi, le atmosfere surreali, e molto altro. Ma si trattava di osservazioni troppo riduttive, probabilmente dettate a volte da una reazione un poco infastidita dalla irriducibilità di quella danza agli schemi consueti.
In realtà, il Buto non ha mai avuto e non ha tuttora un modo di espressione fisso e ben definito. Anzi, ha sempre rifiutato qualunque tentazione a costruire un "sistema", non ha mai assunto una forma definita, non ha aperto alcuna scuola. Include danzatori diversi per stile o per approccio allo spazio scenico, che possono mostrare immagini degradate e grottesche, oppure di grande bellezza e dolcezza. E ha capovolto la concezione estetica della danza.
Il Butô nacque insieme agli anni Sessanta, un periodo straordinariamente fecondo per le arti e lo spettacolo, denso di importanti cambiamenti in Giappone e nel mondo, sotto il profilo sociale, economico, politico, culturale. L'avanguardia teatrale, che includeva la danza, era alla ricerca di una "nuova identità" giapponese e si contrappose, perciò, sia alla tradizione classica autoctona che alla modernità occidentale.
Il Butô spezzò la gabbia di regole imposte al danzatore giapponese, rifiutando contemporaneamente le forme della danza classica e moderna europea e nordamericana. Ecco allora una danza non narrativa, opposta all'elevazione tipica del balletto, estranea al movimento che crea disegni nello spazio della danza moderna.
Condivideva con il teatro di quegli anni - tra danza e teatro non c'era alcun confine visibile, allora - l'aggressività verso il pubblico e l'uso abituale della provocazione, soprattutto a proposito dei tabù sessuali ed estetici, il richiamarsi a miti arcaici, lo stile epico e i rituali, il kitsch, il deforme, l'assemblaggio sulla scena di elementi disparati e opposti, la creazione di movimenti mai visti prima. Quei giovani erano animati da un'ansia di sincerità e di essenzialità che li spingeva alla rivolta contro l'ipocrisia e la superficialità dei rapporti umani. Non volevano parlare usando il corpo, ma lasciare che questo mostrasse la sua verità. Una danza profondamente e manifestamente espressione di una particolare giapponesità, inizialmente fu tuttavia sensibilmente influenzata dalla letteratura "erotica/eretica" francese, anche se Tatsumi Hijikata - insieme a Kazuo Ôno, fondatore del Butô e imprescindibile personalità-guida per tutti i danzatori - abbandonò tutti i riferimenti alla cultura europea negli anni Settanta. Quanto alle ascendenze espressioniste tedesche, in realtà si può parlare solo di una conoscenza indiretta del lavoro di alcuni maestri europei (Harald Kreuzberg e Mary Wigman, essenzialmente), trasmessa a Hijikata e Ôno attraverso l'insegnamento di danzatori giapponesi che avevano studiato per breve tempo in Germania.
Ma che cos'è dunque il Buto?
Una spiegazione etimologica viene fornita dal coreografo e danzatore Kô Murobushi: bu è il medesimo ideogramma contenuto in Kabuki e significa ballare o muoversi elegantemente, riferito principalmente alla parte superiore del corpo; tô significa calpestare e indica essenzialmente il movimento dei piedi. Dunque, il Butô potrebbe definirsi il prodotto del dialogo intimo tra il movimento delle mani e quello dei piedi, tra calma e violenza, tra Apollo e Dioniso. Non una tecnica, ma una relazione profonda tra il corpo e la natura. Ushio Amagatsu, coreografo e danzatore del Sankai Juku, dice a sua volta che:

Si può definire la danza Butô soprattutto per ciò che non è. Non ha niente a che vedere con la danza occidentale, che vuole creare delle forme e utilizza le tensioni. Qui invece si parte dal rilassamento, dal corpo svuotato. Il Butô non è una tecnica, ma un metodo per risalire attraverso il corpo alle origini dell'esistenza e per rispondere alla domanda "chi siamo?". Ad essa ciascuno risponde secondo la propria esperienza di vita quotidiana, i suoi incontri, il suo modo di vedere, di fare, di sentire. Tant'è vero che esistono molte compagnie Butô e ognuna lavora in maniera diversa.

Pur essendo ben riconoscibile nel panorama della danza contemporanea internazionale, è difficile collocarlo all'interno del nostro orizzonte mentale. Ci sono però alcuni denominatori comuni a tutti i danzatori Butô, al di là delle diversità - anche profonde - tra le poetiche di ognuno di loro. Qui è possibile soltanto accennare molto brevemente a qualcuno di essi.
Per cominciare, il corpo stesso del danzatore, oggetto e fondamento principale della ricerca e del lavoro quotidiano; il Butô mostra l'incapacità del corpo a fare ciò che detta la volontà; non è il corpo che si adegua al movimento astratto, ma è il movimento che si adatta al corpo, esaltando la visceralità, i sensi, il legame con la terra. Una ricerca feconda, i cui risultati sono diventati patrimonio della danza mondiale.
In secondo luogo, la negazione dell'Io, dell'individualità umana, attraverso un meccanismo di decostruzione che turba il pubblico. Strumento privilegiato è qui la metamorfosi, attuata con i soli mezzi corporei, nella quale non è importante la forma dell'animale o della cosa, ma la capacità di sperimentare un'altro tipo di esistenza. La visione del mondo può apparire allora nella prospettiva di un insetto, di un feto, di un nano. Altra pratica comune, con la medesima finalità, è il dipingere di bianco il volto o anche tutto il corpo.
Comune è anche l'atteggiamento critico verso il razionalismo, come spiega il danzatore Mitsutaka Ishii, secondo il quale la mentalità giapponese porta a "tastarci da fuori per capire cosa c'è dentro, esaminarci col cuore"; mentre la scienza e la medicina europee pretendono di analizzare lo spirito, non comprendendo che "c'è un regno del cuore fatto di tutte le cose che abbiamo imparato o vissuto, che non bisogna invadere ma lasciare intatto". Danzare per esprimere più intensamente possibile i propri mondi interiori. Danza, quindi, come scelta di vita e non scienza di organizzazione dello spazio.
Poi, la ricerca del contatto e dello scambio con il mondo dei morti. Hijikata scriveva nel 1984 alla danzatrice Natsu Nakajima, alla vigilia della sua partenza per un tour europeo, che "noi stringiamo le mani ai morti, che ci incoraggiano ad andare al di là del corpo. È questo l'illimitato potere del Butô". Kazuo Ôno cerca costantemente l'unione dei morti e dei vivi attraverso l'amore.
Altri denominatori comuni: l'uso della tensione muscolare, del "vuoto", del ritmo. La capacità di mantenere una estrema, continua tensione corporea è rimarchevole e produce, tra l'altro, una corrispondente, forte tensione psichica negli spettatori. Il "vuoto", ovvero il ma, è in realtà un vasto spazio dove le tante possibilità si mescolano fino a far emergere un'idea. Il ritmo è dato da un movimento - spesso molto lento - che oscilla tra integrazione e disintegrazione, tra caos e quiete. Il pubblico è costretto a essere attivo, a usare l'immaginazione per immergersi nel processo creativo, per osservare le sottigliezze, le variazioni minime. Mostrare lo scorrere del tempo, alterandone la percezione abituale, è di fondamentale importanza per il Butô.
Infine, la pratica dell'improvvisazione. Si tratta di una scelta altamente impegnativa e rischiosa. Gli esiti oscillano dalla più pura spiritualità alla più scatenata (o sconcertante) fantasia. Sempre, in ogni caso, l'improvvisazione svela il mondo personale del danzatore e lo rende più vicino agli spettatori. Forse sarà superfluo precisare che si tratta di tutt'altra cosa dal procedere a caso e in maniera imprecisa.
Va sottolineato il fatto che moltissimi danzatori, di tutti i paesi, hanno avuto in questi anni esperienze di lavoro comune o di studio con danzatori Butô. Ciò ha significato, per un verso, che non sono più soltanto i giapponesi a praticarla; dall'altro, che la sua influenza sulla danza moderna - di cui è parte, a pieno titolo - ha prodotto e continua a produrre effetti molto interessanti.
Il Butô, presente da quasi un ventennio a tutti i più importanti festival internazionali di danza, continua a espandere il suo raggio d'azione: dopo aver stabilito solide basi in paesi come la Francia, la Germania, gli Stati Uniti, negli ultimi anni la sua vocazione al nomadismo lo ha portato in altre zone del mondo: Russia, Messico, Taiwan, Svezia, Brasile, Bulgaria, Corea, Ungheria... E sembrerebbe anche che, dopo le fugaci apparizioni del passato, stia prendendo sempre più spesso la strada dell'Italia.




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