Noam Chomsky
Tra il 7 dicembre 1975, giorno dell'invasione e dell'annessione di Timor est da parte dell'Indonesia, e il referendum tenutosi il 30 agosto 1999, nel corso del quale il 78,5% dei timoresi si sono pronunciati a favore dell'indipendenza, è trascorso un quarto di secolo. Duecentomila timoresi hanno pagato con la vita questa "integrazione", abbandonati dalla comunità internazionale. La caduta del dittatore Suharto ha rimesso all'ordine del giorno la questione di Timor est e Jakarta ha infine acconsentito alla tenuta di un referendum, mentre di nascosto preparava la repressione da scatenare, se la popolazione si fosse pronunciata a favore dell'indipendenza. Dopo molto tergiversare e dopo aver ottenuto l'avallo dell'Indonesia, il 20 settembre le Nazioni unite hanno dispiegato nell'isola una forza multinazionale (Interfet) sotto comando australiano. Questo intervento tardivo non risolve la questione dei trecentomila timoresi deportati a Timor ovest, né il giudizio cui devono essere sottoposti gli autori delle torture da parte di un tribunale internazionale. Né deve farci dimenticare i venticinque anni di complicità occidentale con la dittatura di Jakarta.
Non E' facile scrivere delle vicende di Timor est con toni pacati e senza farsi trascinare dalla passione. L'orrore e la vergogna sono resi ancora più forti dalla constatazione che da tempo ormai la comunità internazionale avrebbe potuto facilmente porre fine ai crimini commessi. Nel dicembre del 1975 l'Indonesia invade il territorio di Timor est. Ciò avviene con la complicità, sul piano diplomatico, degli Stati uniti, e anche grazie alle armi americane utilizzate illegalmente, ma con un patto segreto stretto con Washington entrate nel paese aggirando l'embargo decretato ufficialmente. Per fermare i massacri non occorrevano né bombardamenti né sanzioni; sarebbe bastato che Washington e i suoi alleati si fossero dissociati da questa politica e avessero informato i loro referenti in seno al comando militare indonesiano che le atrocità dovevano cessare e che il territorio doveva poter esercitare il suo diritto all'autodeterminazione un diritto riconosciuto dalle Nazioni unite e dalla Corte internazionale dell'Aia. Non si riscrive la storia, tuttavia si devono perlomeno riconoscere i propri torti, ci si deve assumere la responsabilità morale di salvare il salvabile e si deve offrire ampio risarcimento alle vittime Un gesto che comunque non cancellerà dei crimini così esecrabili. E' solo l'ultimo capitolo di una triste storia di tradimenti e di complicità quello iniziato all'indomani del referendum di autodeterminazione del 30 agosto 1999. Quel giorno, la popolazione vota in massa a favore dell'indipendenza. Immediatamente si scatena una nuova ondata di violenze, si moltiplicano le atrocità commesse e orchestrate dall'esercito indonesiano. Come risulta dal rapporto della missione delle Nazioni unite (Unamet) dell'11 settembre 1999: "Le prove di un legame diretto tra milizie e militari indonesiani sono irrefutabili, e l'Unamet ne dà ampio conto da quattro mesi. La portata delle distruzioni sistematiche perpetrate a Timor est nel corso di quest'ultima settimana evidenzia un nuovo coinvolgimento dei militari, che sono usciti allo scoperto per condurre in porto un'operazione finora tenuta nascosta". "Il peggio forse deve ancora avvenire, riferisce la missione Onu. Non è escluso che siano le prime avvisaglie di una vera e propria campagna di genocidio per estirpare definitivamente con la forza il problema di Timor est (1)". John Roosa, storico dell'Indonesia, presente alle votazioni in veste di osservatore si stupisce: "Il pogrom era talmente annunciato che lo si sarebbe potuto facilmente prevenire (...) Ma nelle settimane immediatamente precedenti la votazione, l'amministrazione Clinton si è rifiutata di discutere con l'Australia e gli altri paesi della formazione di una forza internazionale. Anche dopo lo scoppio delle violenze ha continuato a temporeggiare per giorni e giorni (2)". Infine, a seguito delle pressioni della comunità internazionale e in particolare dell'Australia e del Portogallo, e delle pressioni interne, si è degnata di lanciare un segnale, che, per quanto modesto, è bastato a far accettare la presenza internazionale ai generali indonesiani. Mentre il presidente Clinton "esitava", circa la metà della popolazione di Timor, secondo un rapporto delle Nazioni unite, veniva cacciata dalle proprie case. Migliaia di timoresi sono stati assassinati (3). E l'aviazione americana, in grado di distruggere obiettivi civili a Novi Sad, Belgrado o nelle vicinanze dei laghi di Pancevo, non è stata capace di lanciare rifornimenti alla popolazione minacciata dalla carestia, che si è rifugiata sulle montagne per sfuggire al terrore. A coloro che non si rifugiano, come la "comunità internazionale", nell' "ignoranza deliberata" di quanto succede nell'isola, gli eventi odierni richiamano alla mente amari ricordi. Assistiamo al ripetersi dell'infamia verificatasi venti anni fa. Dopo aver perpetrato un eccidio spaventoso nel 1977-1978 l'Indonesia si è sentita sufficientemente sicura da autorizzare una breve visita all'isola di Timor del corpo diplomatico presente a Jakarta, e in particolare dell'ambasciatore americano Edward Masters. La delegazione poté constatare l'enormità della catastrofe. Tuttavia, ha riferito alle Nazioni unite Benedict Anderson, uno dei maggiori conoscitori dell'Indonesia, "nei nove mesi successivi" segnati dalla carestia e dal terrore, "l'ambasciatore Masters si è volutamente astenuto dal proporre, anche all'interno del dipartimento di stato, l'invio di aiuti umanitari a Timor est". A tal punto che "i generali indonesiani gli davano il via libera" poiché, come risultava da un documento interno del Dipartimento di stato, "si sentivano abbastanza sicuri da poter autorizzare visite da parte di stranieri (4)". Un macabro esempio della complicità americana si era visto durante il colpo di stato del 1965 che portò il generale Suharto al potere. In pochi mesi furono massacrate centinaia di migliaia di persone, la maggior parte contadini senza terra, e fu smantellato il potente partito comunista. Questa impresa fu accolta trionfalmente dall'Occidente, che espresse parole di elogio per la "moderazione" del generale Suharto e dei suoi complici, che avevano ripulito la società e lasciato il paese in balia dei saccheggiatori. Robert McNamara, il segretario alla difesa americano, riferì al Congresso che gli aiuti e l'addestramento forniti dagli americani "avevano prodotto dividendi" fra i quali va conteggiato mezzo milione di morti "enormi dividendi", rilanciava un rapporto del Congresso. Informò quindi il presidente Lyndon Johnson che l'aiuto militare americano aveva "spronato (l'esercito indonesiano) ad intervenire contro il partito comunista ove se ne fosse presentata l'occasione". I contatti con gli ufficiali indonesiani, anche attraverso programmi universitari, avevano rappresentato "dei fattori fondamentali nella scelta di un orientamento favorevole da parte delle nuove elite politiche", vale a dire l'esercito (5). Le relazioni tra Washington e Jakarta sono andate avanti per trentacinque anni, con l'elargizione di sostanziosi aiuti militari, con attività di addestramento e con la realizzazione di manovre comuni. Mentre le truppe indonesiane e i paramilitari mettevano a ferro e fuoco Dili, compiendo massacri e saccheggi, in una drammatica escalation, il Pentagono annunciava che: "un'esercitazione per l'addestramento indonesiano-americano sul tema attività di soccorso e umanitarie in situazioni di disastro, si è conclusa il 25 agosto" (6), cioè cinque giorni prima del referendum. Gli insegnamenti tratti da questa cooperazione sarebbero stati rapidamente messi in pratica... Qualche mese prima, dopo il massacro di decine di profughi che si erano rifugiati nella chiesa di Liquica, l'ammiraglio Dennis Blair, comandante americano della flotta del Pacifico, assicurava al comandante supremo delle forze indonesiane e ministro della difesa, generale Wiranto, l'appoggio degli Stati uniti, spingendosi perfino a proporgli una nuova missione d'addestramento. (7) Il bilancio delle attività di collaborazione è del resto imponente. Washington ha venduto all'Indonesia armi per un valore superiore a un miliardo di dollari dal 1975. L'amministrazione Clinton ha concesso all'Indonesia più di 150 milioni di dollari e il Pentagono ha continuato fino al 1997 a curare l'addestramento di battaglioni scelti, i Kopassus (leggere l'articolo di Romain Bertrand a pag. 13), contravvenendo allo spirito dei provvedimenti varati dal Congresso. Alla luce di tale bilancio il governo americano ha elogiato "il valore degli anni di formazione che i futuri dirigenti militari dell'Indonesia hanno trascorso negli Stati uniti, nonché i milioni di dollari di aiuti militari concessi a questo paese". (8) I motivi di questo ignobile bilancio sono stati talvolta riconosciuti. Un diplomatico in sede a Jakarta, in occasione dei recenti massacri descriveva nei termini seguenti il "dilemma" delle grandi potenze: "L'Indonesia è un paese che conta, Timor est no". (9) Era del tutto scontato perciò che gli Stati uniti si accontentassero di semplici gesti di disapprovazione ribadendo: la sicurezza interna di Timor est "rientra nelle competenze del governo indonesiano e intendiamo rispettarla". Tale posizione ufficiale, ribadita pochi giorni prima del referendum veniva mantenuta con fermezza mentre si avveravano le più atroci previsioni su come il governo indonesiano avrebbe assolto tale "responsabilità" (10). Due studiosi americani dell'Asia hanno spiegato il ragionamento di diplomatici altolocati riportato dal New York Times. L'amministrazione Clinton, affermano "ritiene che le relazioni con l'Indonesia, una nazione ricca di materie prime, con più di 200 milioni di abitanti, debbano avere assoluta precedenza, rispetto alle preoccupazioni circa la sorte politica di Timor, un territorio povero e di dimensioni ridotte, con 800mila abitanti, che aspira all'indipendenza" (11). Riassunto brutale delle élite di Washington: "Non abbiamo cavalli nella corsa di Timor est". Dunque, quel che vi accade, non ci riguarda. Tuttavia, dopo forti pressioni da parte australiana i calcoli americani sono stati rivisti. Un alto funzionario ce lo ha spiegato nei termini seguenti: "Abbiamo un cavallo importante che corre, chiamato Australia, e dobbiamo appoggiarlo (12)". I superstiti dei massacri in un "territorio povero e di piccole dimensioni", non sono neanche paragonabili a un "ronzino" in gara. Questi principi ispiratori della politica americana sono stati enunciati da Daniel Patrick Moynihan, ambasciatore americano presso le Nazioni unite, nella sue Memorie (13) fin dal 1978, meno di due anni dopo l'invasione di Timor est, condannata dal Consiglio di sicurezza. Le sue parole dovrebbero rimanere impresse nella memoria di tutti coloro che s'interessano seriamente alle questioni internazionali , ai diritti dell'uomo e alla legalità. "Gli Stati uniti desideravano che le cose andassero per questo verso e si sono adoperati perché così fosse. ..(...) Il dipartimento di stato voleva che le Nazioni unite risultassero del tutto incapaci di prendere delle misure efficaci. Questo era il compito affidatomi, che ho assolto con notevole successo". Il successo in effetti fu straordinario. Daniel Patrick Moynihan cita rapporti in cui si parla di 60.000 morti: "10% della popolazione, una percentuale quasi pari alle perdite registrate dai sovietici nella seconda guerra mondiale". Altro segno di successo, l'anno seguente, "la questione è praticamente scomparsa dalle pagine dei giornali". Intanto si intensificavano gli attacchi delle truppe d'occupazione. Le atrocità subirono un crescendo vertiginoso all'epoca in cui Moynihan scriveva le sue memorie, nel 1977-1978. Grazie a nuovi rifornimenti militari da parte dell'amministrazione Carter fervente sostenitrice dei diritti umani le truppe indonesiane lanciarono un attacco contro centinaia di migliaia di civili che si erano rifugiati sulle montagne. Fonti attendibili della chiesa cattolica riferirono di 200.000 morti, una cifra a lungo contestata all'epoca, che oggi tuttavia viene accreditata. Mentre i massacri si moltiplicavano, rasentando il genocidio, Gran Bretagna e Francia, insieme ad altre potenze, davano il loro sostegno diplomatico all'Indonesia, che rifornivano anche di armi. Il 1999 si era aperto all'insegna della speranza. Il presidente indonesiano ad interim, Jusuf Habibie, aveva accettato che si tenesse un referendum in cui il popolo timorese avrebbe potuto scegliere tra l'integrazione con l'Indonesia (autonomia) e l'indipendenza. Per impedire che la popolazione scegliesse l'indipendenza l'esercito ricorreva al terrore e all'intidimidazione: da 3.000 a 5.000 persone furono uccise nei mesi precedenti la votazione. (14), una cifra ben superiore a quella citata dalla Nato per il Kosovo nell'anno precedente i bombardamenti (2.000 morti). Dopo il voto massiccio a favore dell'indipendenza l'esercito ha fatto terra bruciata del paese. In due settimane sono state assassinate circa 10.000 persone secondo le affermazioni del vescovo Ximenes Belo, Premio Nobel per la pace (leggere a pagina 12 l'articolo di Sylvain Desmille), costretto anch'esso a fuggire sotto il fuoco delle milizie, dopo che la sua abitazione era stata data alle fiamme e i profughi che vi si erano rifugiati condotti verso destinazione ignota (15). Scopo dell'esercito, noto ai servizi segreti occidentali, era "semplicemente (...) distruggere una nazione". L'esercito assoldò migliaia di timoresi di Timor Ovest, richiamò dei contingenti da Giava nonché delle unità appartenenti alle famigerate forze speciali Kopassus, e il generale Makarim, specialista indonesiano dell'intelligence, formato negli Stati uniti, conoscitore delle condizioni sul terreno, che godeva fama di personaggio violento e spietato (16). Il terrore e la distruzione avevano fatto la loro comparsa all'inizio dell'anno. In Occidente tali eventi sono stati attribuiti all'opera di "elementi sfuggiti al controllo". Vi sono però buoni motivi per credere al vescovo Belo che ne attribuisce la responsabilità diretta al generale Wiranto (17). Le milizie sono state gestite dalle forze speciali Kopassus, che secondo il giornalista David Jenkins, un veterano dell'Asia, erano state "state addestrate regolarmente insieme a militari americani e australiani, fino a quando il loro comportamento non costituì motivo di imbarazzo per i loro amici stranieri (18)". Tali forze hanno adottato le tattiche del programma americano Phoenix durante la guerra del Vietnam, un programma che ha causato la morte di decine di migliaia di contadini e di numerosi dirigenti sudvietnamiti. David Jenkins paragona la loro politica a quella dei Contra in Nicaragua. I terroristi armati dell'Indonesia "non prendevano di mira solo gli elementi più radicali, favorevoli all'indipendenza, ma anche i moderati e quanti godevano di una certa influenza nella comunità". Molto prima del referendum il colonnello Tono Suratman, comandante delle truppe indonesiane a Dili, aveva avvertito: "Se dovessero vincere le forze filoindipendentiste, distruggeremo tutto; la distruzione sarà terribile, più di quella avvenuta ventitré anni fa (19)". E un documento dell'esercito del maggio 1999, scritto mentre Jakarta dava il via libera al referendum, ordinava: "Se dovessero vincere i fautori dell'indipendenza, si dovranno compiere massacri a tappeto, di villaggio in villaggio". Il movimento indipendentista "dovrà essere stroncato dai vertici alla base (20)". Tutto ciò era ben noto agli amici stranieri dell'Indonesia che sapevano come far cessare il terrore. Ma hanno preferito limitarsi a un atteggiamento ambiguo, che i militari indonesiani hanno interpretato come un via libera per il loro sporco gioco. Questa sordida vicenda si può capire solo nel quadro delle relazioni stabilitesi tra Indonesia e Stati uniti nel dopoguerra (21). Le risorse dell'arcipelago e la sua posizione strategica spiegano i tentativi da parte americana, quaranta anni fa, di far cessare una politica giudicata troppo indipendente, che favoriva la partecipazione dei contadini più poveri. Questo spiega il supporto dato a un regime di assassini e aguzzini come quello instaurato dopo il colpo di stato del 1965. Washington si rallegrava dell'appoggio fornito alle guerre americane in Indocina e del desiderio dei nuovi dirigenti di evitare che l'Indonesia venisse "infettata", secondo la terminologia usata da Henry Kissinger, dal virus del nazionalismo indipendente. A questo punto si deve sgombrare il campo dalla mitologia e far fronte alle cause e alle conseguenze della politica occidentale, non solo a Timor est. In questo angolo tormentato della terra si è ancora a tempo, anche se di stretta misura, per scongiurare un epilogo drammatico a una delle tragedie più spaventose di questo terribile secolo che sta per concludersi.
note:
(1) "Report of the Security Council Mission to Jakarta and Dili", dall'8 al 12 settembre 1999.
(2) The New York Times, New York, 15 settembre 1999.
(3) Boston Globe, Boston , 15 settembre 1999.
(4) Benedict Anderson, testimonianza resa davanti al comitato quarto dell'assemblea generale delle Nazioni unite, 20 ottobre 1980.
(5) Per le diverse fonti si veda Noam Chomsky, Anno 501. La conquista continua, Gamberetti Editore.
(6) AP on line, 8 settembre 1999.
(7) The Nation, New York, 27 settembre 1999.
(8) The New York Times, 14 settembre 1999.
(9) Financial Times, Londra, 9 settembre 1999; Christian Science Monitor, Boston, 14 settembre 1999.
(10) Il portavoce del dipartimento di stato citato dal Sydney Morning Herald. 25 agosto 1999. Dichiarazione del segretario alla difesa, William Cohen, 8 settembre 1999.
(11) Elisabeth Becker e Philip Shenon, The New York Times, 9 settembre 1999.
(12) Australian Financial Review, Sydney, 13 settembre 1999.
(13) Daniel Patrick Moynihan, A Dangerous Place, Little Brown, Boston, 1978.
(14) The Washington Post, 5 settembre 1999 (15) The New York Times, 13 settembre 1999.
(16) The Observer, Londra, 13 settembre 1999.
(17) The New York Times, 13 settembre 1999.
(18) Sydney Morning Herald, Sydney, 9 luglio 1999.
(19) Australian Financial Review, Sydney, 14 agosto 1999.
(20) The Observer, op. cit.
(21) "L'Indonesia, carta vincente del gioco Usa", Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 1998.
(Traduzione di C.M.)
tratto da: LE MONDE diplomatique