Archivio Web Noam Chomsky

LEZIONI DI UNA GUERRA, UN ANNO DOPO

In Kosovo, un'altra soluzione era possibile

Noam Chomsky


Nella notte tra il 24 e il 25 marzo 1999, l'Organizzazione del trattato del nord-atlantico (Nato) scatenava un'offensiva aerea contro la Jugoslavia destinata a durare settantotto giorni. A un anno di distanza, qual è il bilancio dell'operazione? Se è finito il calvario degli albanesi del Kosovo e i rifugiati hanno potuto fare ritorno nelle proprie case, per lo più distrutte, i serbi e gli zingari del Kosovo sono stati però a loro volta costretti ad abbandonare la provincia. Mitrovica, ultima città multi-etnica, è in preda a feroci scontri (leggere a pagina 14). Quanto a Slobodan Milosevic, è ancora al potere a Belgrado Un tale fallimento spinge ad interrogarsi sulla reale natura di questa guerra. Se gli albanesi del Kosovo non erano in realtà sottoposti a quelle operazioni di "genocidio" che bisognava a tutti i costi fermare (si vedano le pagine 10 e 11), la guerra non era forse dovuta alla volontà degli Stati uniti di imporre, attraverso la Nato, la loro egemonia sui Balcani? Da qui l'ostinato rifiuto, da parte degli alleati, di ogni soluzione diplomatica.

Nel corso dell'anno che ha preceduto i bombardamenti, il Kosovo era un posto assai sinistro. Secondo la Nato vi erano state uccise circa 2000 persone, per lo più albanesi, in una lotta cruenta cominciata nel febbraio 1997 con le prime azioni dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) definite atti terroristici dagli Stati uniti e la brutale repressione serba.
All'inizio dell'estate 1998, l'Uck aveva assunto il controllo di circa il 40% della provincia, scatenando una violenta reazione da parte delle forze di sicurezza e dei gruppi paramilitari serbi, che presero di mira la popolazione civile. Secondo Marc Weller, consulente legale della delegazione kosovaro-albanese alla conferenza di Rambouillet, "in pochi giorni [dopo il ritiro degli osservatori, il 20 marzo 1999] il numero di sfollati, nuovamente aumentato, aveva superato quota 200.000"; una cifra che più o meno coincide con quella fornita dai servizi segreti americani (1).

Supponiamo che gli osservatori non fossero stati ritirati in vista dei bombardamenti e che fossero stati portati avanti gli sforzi diplomatici. Era possibile una simile eventualità? Avrebbe prodotto un risultato peggiore o migliore? Poiché la Nato ha scartato tale opzione, non potremo mai saperlo. Ma, almeno, possiamo analizzare i fatti noti e vedere cosa ci suggeriscono.
Gli osservatori della Missione di verifica in Kosovo (Mvk) dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) potevano essere lasciati al loro posto, o magari ricevere rinforzi? Sembra che ciò fosse possibile, soprattutto alla luce dell'immediata condanna di tale ritiro espressa dall'Assemblea nazionale serba. Non un solo argomento può far pensare che l'aumento delle atrocità rilevato dopo il ritiro si sarebbe ugualmente prodotto se gli osservatori fossero rimasti al loro posto, per non parlare della vasta escalation di violenza, conseguenza prevedibile della campagna di bombardamenti annunciata da tale ritiro. Allo stesso modo, la Nato non ha fatto il minimo sforzo per vagliare altre vie di soluzione pacifica: lo stesso embargo sul petrolio, nodo centrale di ogni seria politica di sanzioni, è stato preso in considerazione solo dopo l'inizio dei bombardamenti.
La questione più rilevante riguarda tuttavia le opzioni diplomatiche. Sul tavolo delle trattative, alla vigilia dei bombardamenti, vi erano due proposte. La prima era l'accordo di Rambouillet, presentato alla Serbia sotto forma di ultimatum. La seconda era la posizione della Serbia, formulata nel suo Progetto rivisto d'accordo del 15 marzo e nella risoluzione del 23 marzo dell'Assemblea nazionale serba (2). Se ci fosse stata una reale volontà di proteggere i kosovari, si sarebbero potute prendere in considerazione altre ipotesi, come ad esempio la proposta, formulata dal presidente serbo Dobra Cosic, nel 1992-93, di dividere il Kosovo, consentendogli la separazione dalla Serbia, ad eccezione di "alcune enclave serbe (3)". Una proposta che, all'epoca, fu respinta dalla Repubblica del Kosovo di Ibrahim Rugova che si era dichiarata indipendente e aveva messo in piedi un governo parallelo ma che, nelle ben diverse circostanze dell'inizio 1999, avrebbe potuto costituire una base di partenza per i negoziati.

Limitiamoci tuttavia a prendere in considerazione le due posizioni ufficiali della fine di marzo 1999: l'ultimatum di Rambouillet e la risoluzione serba. Proposte tenute nascoste E' importante e rivelatore che il contenuto essenziale di questi due documenti sia stato generalmente tenuto nascosto all'opinione pubblica, se si eccettua il lavoro di alcuni media dissidenti che hanno un bacino di diffusione limitato. Benché sia stata immediatamente ripresa dalle agenzie di stampa, la risoluzione dell'Assemblea nazionale serba è rimasta praticamente segreta. La sua stessa esistenza è stata menzionata raramente, per non parlare dei contenuti. La risoluzione condannava il ritiro degli osservatori dell'Osce e chiedeva all'Onu e all'Osce di adoperarsi per una soluzione diplomatica attraverso negoziati "con la prospettiva di arrivare ad un accordo politico sulla sostanziale autonomia [del Kosovo], che garantisca uguali diritti a tutti i cittadini e a tutte le comunità etniche nel rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale della Repubblica di Serbia e della Repubblica federale di Jugoslavia".
La risoluzione prendeva in considerazione l'ipotesi di una "presenza internazionale", le cui "dimensioni e carattere" rimanevano da determinare, per vigilare sull'"applicazione dell'accordo politico sull'autonomia stabilito e accettato dai rappresentanti di tutte le comunità nazionali che vivono [in Kosovo]". La disponibilità della Rfj "a discutere forma e carattere della forza internazionale incaricata [in Kosovo] di applicare l'accordo che sarebbe stato accettato a Rambouillet" veniva comunicata in modo formale ai negoziatori il 23 febbraio, e resa pubblica dalla Rfj lo stesso giorno in una conferenza stampa (4).

Non potremo mai sapere se queste proposte avessero un qualche fondamento, dal momento che non sono neanche state prese in considerazione e sono state sostanzialmente ignorate. L'aspetto ancora più sorprendente è che anche l'ultimatum di Rambouillet, presentato universalmente come la proposta di pace, è stato tenuto nascosto soprattutto quelle disposizioni che, a quanto pare, furono introdotte all'ultimo momento a marzo durante i negoziati di Parigi, dopo che la Serbia aveva accettato le principali proposte politiche, e che di fatto resero il rifiuto serbo ineluttabile. Particolarmente importanti sono le disposizioni degli allegati riguardanti l'applicazione degli accordi, che davano alla Nato il diritto di "passaggio libero senza restrizioni e un accesso illimitato in tutta la repubblica federale di Jugoslavia, compresi il suo spazio aereo e le sue acque territoriali", senza limiti o obblighi di sorta, e senza il minimo riguardo per le leggi del paese o le competenze delle autorità, cui veniva richiesto di eseguire gli ordini della Nato "su una base prioritaria e con tutti i mezzi appropriati" (Allegato B).

L'allegato a quanto riferisce il giornalista britannico Robert Fisk non era stato reso noto ai giornalisti che seguivano i negoziati di Rambouillet e di Parigi. "I serbi hanno annunciato il loro rifiuto nella loro ultima conferenza stampa a Parigi che, convocata all'ambasciata jugoslava il 18 marzo alle 11 di sera, era stata seguita da uno sparuto gruppo di giornalisti". I dissidenti serbi che partecipavano ai negoziati affermano che tali condizioni gli furono rese note l'ultimo giorno di trattative e che i russi non erano al corrente della loro esistenza. Alla Camera dei comuni britannica queste disposizioni furono comunicate solo il 1° aprile, quando cadeva il primo giorno di vacanze parlamentari e i bombardamenti erano già iniziati da una settimana (5).

Nei negoziati ripresi dopo i bombardamenti, la Nato abbandonava completamente tali rivendicazioni, insieme alle altre che avevano causato il rifiuto serbo. Robert Fisk, logicamente, si domanda: "Quale era il reale obiettivo della richiesta all'ultimo minuto della Nato? Si trattava di un cavallo di Troia? Mirava a salvare la pace, o a sabotarla?" Qualunque sia la risposta, se i negoziatori avessero avuto realmente a cuore la sorte dei kosovari albanesi, avrebbero cercato di determinare quali reali possibilità di successo aveva la diplomazia, ritirando le richieste più provocatorie e palesemente inutili ; rafforzando, invece di ritirarla, la missione d'osservazione; e ponendo la Serbia sotto la minaccia di serie sanzioni. Di fronte a domande di questo tipo, i responsabili delle delegazioni americana e britannica ai negoziati hanno dichiarato di essersi detti disposti a rinunciare alle richieste più esorbitanti che poi furono comunque abbandonate ma che si sono scontrati con il rifiuto serbo. E' difficile credere a una simile affermazione. Un fatto del genere sarebbe stato, al di là di ogni ragionevole dubbio, immediatamente reso pubblico. Ed è interessante notare che nessuno ha chiesto loro spiegazioni per un comportamento così sorprendente. Dichiarazioni simili sono state fatte anche da altri sostenitori di primo piano dei bombardamenti. E' il caso per esempio di Marc Weller che, nel suo commento sulla conferenza di Rambouillet (6), ridicolizza le "accuse stravaganti" sugli allegati di applicazione dell'accordo che, secondo lui, "sono stati pubblicati contestualmente all'accordo" (è al progetto d'accordo del 23 febbraio che fa riferimento). Non ci dice però dove sarebbero stati pubblicati, né spiega perché i giornalisti che seguivano i negoziati di Rambouillet e di Parigi (così come, a quanto pare, il parlamento britannico) non fossero al corrente della loro esistenza.

Il "famoso allegato B" stabiliva, a quanto scrive Weller, "i termini standard di un accordo relativo allo statuto delle forze armate che avrebbero costituito la Kfor [la forza d'occupazione della Nato, allora in fase di progettazione]". Non spiega perché tale rivendicazione fu lasciata cadere dalla Nato dopo l'inizio dei bombardamenti, né perché, evidentemente, non si ritenne necessario riprendere tali termini a giugno, al momento dell'effettiva entrata in Kosovo delle forze sotto comando Nato. Queste forze erano ben più consistenti di quelle previste a Rambouillet e ancor più cruciale sarebbe quindi dovuto essere un accordo sul loro statuto. Non dà poi nessuna spiegazione della risposta fornita il 15 marzo dalla Rfj al progetto d'accordo del 23 febbraio. Questa risposta analizza il testo in dettaglio, sezione per sezione, proponendo diverse modifiche e cancellazioni, ma non fa alcun cenno agli allegati le misure di applicazione dell'accordo che, come sottolinea Marc Weller, costituivano la parte di gran lunga più importante del documento ed erano l'argomento dei negoziati in corso a Parigi.

Leggendo questo resoconto non possiamo quindi fare a meno di mantenere un certo scetticismo, indipendentemente dalla disinvoltura con cui l'autore affronta fatti cruciali già peraltro messa in evidenza e dalla sua palese parzialità. Per il momento, comunque, questi punti essenziali rimangono senza risposta. Prendere o lasciare Nonostante gli sforzi dispiegati a livello ufficiale per impedire al pubblico di venire a conoscenza di quanto stava accadendo, i documenti in questione erano di fatto accessibili ad ogni organo di stampa che avesse voluto approfondire la questione. Negli Stati uniti, l'estrema (ed inutile) eventualità di una occupazione da parte dell'Alleanza atlantica della Rfj è stata menzionata per la prima volta nel corso di una conferenza stampa della Nato, il 26 aprile 1999, quando venne fatta una domanda in proposito, ed è stata poi rapidamente lasciata cadere. Tutti questi fatti furono resi noti solo dopo che la Nato aveva ritirato le sue richieste, quando non potevano più avere alcun peso a livello di scelte democratiche. E' infatti subito dopo l'annuncio dell'accordo di pace del 3 giugno che la stampa citava i passaggi chiave "prendere o lasciare" dell'ultimatum di Rambouillet, facendo notare che essi pretendevano che "una forza composta unicamente da truppe Nato fosse pienamente autorizzata ad andare ovunque volesse in Jugoslavia in piena immunità legale" e che "le truppe dirette dalla Nato avessero un accesso praticamente libero su tutto il territorio della Jugoslavia, e non solo in Kosovo (7)".

Durante i settantotto giorni di bombardamenti i negoziati sono continuati, con concessioni da entrambe le parti presentate di volta in volta dagli Stati uniti come trabocchetti o ripiegamenti serbi sotto le bombe. L'accordo di pace del 3 giugno sarà di fatto un compromesso tra le due posizioni di fine marzo. La Nato rinunciava alle sue richieste più estreme, comprese quelle che apparentemente avevano fatto fallire i negoziati all'ultimo minuto, abbandonando anche quella formulazione che sembrava includere l'eventualità di un futuro referendum sull'indipendenza del Kosovo. La Serbia dava il suo assenso a una "presenza internazionale di sicurezza, con una consistente partecipazione Nato", unico punto nell'accordo di pace, o nella risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza che lo ratificava, in cui si faceva esplicito riferimento all'Alleanza atlantica. La Nato non aveva comunque alcuna intenzione di rispettare il pezzo di carta appena firmato e cominciò immediatamente a violarlo, attuando un'occupazione del Kosovo sotto il proprio comando. Quando la Serbia e la Russia protestarono perché i termini ufficiali degli accordi venissero rispettati, furono severamente criticate per la loro slealtà e, per costringerle a cedere, si ripresero i bombardamenti.

Il 7 giugno gli aerei della Nato bombardarono nuovamente le raffinerie di petrolio di Novi Sad e Pancevo, città governate dall'opposizione a Milosevic. La raffineria di Pancevo prese fuoco, liberando una gigantesca nube di fumi tossici, mostrata anche nella foto abbinata a un articolo uscito sul New York Times il 14 luglio, che ne discuteva i gravi effetti per l'economia e la salute pubblica. Il bombardamento in sé non veniva però menzionato, nonostante fosse stato reso noto dalle agenzie di stampa (8). Si è sostenuto che, se si fosse raggiunto un accordo a fine marzo, Milosevic non l'avrebbe rispettato. Alla luce dell'esperienza passata, si può ritenere tale conclusione abbastanza verosimile, ma lo stesso potrebbe dirsi della Nato e non solo in questo caso: è prassi comune, da parte delle grandi potenze, smantellare con la forza gli accordi ufficiali (9). Oggi, in maniera assai tardiva, si riconosce che a marzo "sarebbe stato possibile avviare un vero ciclo di negoziati e non il disastroso diktat americano presentato a Milosevic alla conferenza di Rambouillet e inviare un consistente numero di osservatori esterni capaci di proteggere sia i civili albanesi che i civili serbi (10)". Questo, almeno, sembra chiaro. La Nato ha deciso di rigettare le opzioni diplomatiche, che non erano affatto esaurite, e di lanciare una campagna militare che, come previsto, ha avuto terribili conseguenze per gli albanesi del Kosovo.


note:

Noam Chomsky è professore al Massachusetts Institute of Technology (Mit). Questo testo è un estratto della postfazione al suo ultimo libro, The New Military Humanism, Common Courage Press, 1999 .

(1) Marc Weller, "The Rambouillet Conference", International Affairs, Londra, aprile 1999. Si veda nota 8.

(2) Per il primo testo si veda Marc Weller (a cura di), International Documents & Analysis, vol. 1, The Crisis in Kosovo 1989-1999, Cambridge University Press, Cambridge, 1999, pp. 480 e seguenti. Per il secondo si veda Noam Chomsky, The New Military Humanism.

(3) Miranda Vickers, Between Serb and Albanian: A History of Kosovo, Columbia 1998.

(4) Per gli sviluppi si veda il libro Le Nouvel Humanisme militaire. Per i dettagli: Marc Weller (a cura di) International Documents and Analysis, op. cit., p. 470; Mark Littman, Kosovo: Law and Diplomacy, Centre for Policy Studies, Londra, novembre 1999.

(5) Robert Fisk, The Independent, Londra, 26 novembre 1999; Mark Littman, Kosovo: Law and Diplomacy, op. cit.

(6) Marc Weller, International Documents and Analysis, op. cit., p. 411. I commenti sono una difesa appena velata dei bombardamenti. (7) Steven Erlanger, New York Times, 5 giugno 1999; Blaine Harden, ibidem, riferimento indiretto; Guy Dinmore, Financial Times, Londra, 6 giugno 1999. Si veda, per maggiori dettagli, The New Military Humanism.

(8) Dispacci d'agenzia, 7 e 8 giugno 1999; Chris Hedges, New York Times, 14 luglio 1999. Si veda anche Los Angeles Times, 6 luglio 1999.

(9) Sul bilancio recente degli Stati uniti in questo campo, si veda The New Military Humanism e le altre fonti citate. (10) Editoriale, Boston Globe, 9 dicembre 1999. (Traduzione di S.L.)


tratto da: LE MONDE diplomatique - Marzo 2000


Archivio Noam Chomsky




- -