Archivio Web Noam Chomsky

"Dopoguerra mondiale"

intervista a Noam Chomsky (il manifesto, 11/11/99)

di Iaia Vantaggiato


Dal Kosovo a Timor Est, lo scenario dei controllori del sistema-mondo. Una critica serrata contro l'interventismo umanitario e contro la politica estera degli Usa e dei "padroni" del G8


L' essere ideale per l'attuale sistema mondiale, è un individuo di fronte alla televisione, che non comunica con nessuno ma si lascia frullare il cervello dalla tv. Se l'individuo cominciasse a comunicare con gli altri potrebbe diventare pericoloso, recuperare la propria umanità, il proprio senso critico, la capacità di costruire alternative". Anche quando affronta argomenti contigui ai temi che lo hanno reso famoso in tutto il mondo come uno dei maggiori linguisti contemporanei, Noam Chomsky - autore de Le strutture della sintassi - resta un militante. Lo ha dimostrato, martedì scorso a Siena, di fronte a una platea di oltre trecento persone che il Coordinamento contro la guerra (nato ai primi di aprile ma ancora attivo nonostante la fine dei bombardamenti nei Balcani) ha riunito presso lo spazio autogestito della Corte dei Miracoli: non si è risparmiato, Chomsky, nel criticare la politica estera degli Stati uniti che del "sistema mondiale", insieme agli altri membri del G8, sono padroni e controllori; "Stati illuminati", come li ha definiti, che dominano il mondo con la repressione militare e con l'adesione entusiasta alle politiche di deregolamentazione selvaggia e di liberalizzazione dei mercati imposte dal Fmi e dalla Banca mondiale.

E a chi gli ha chiesto se ci fossero alternative per risolvere la crisi del Kosovo, ha risposto: "Per prima cosa si poteva evitare d'intervenire; altrimenti c'era la risoluzione del parlamento serbo che era stata presentata a Rambouillet e ignorata, prima dai delegati e poi dalla stampa internazionale. Dopo tre mesi di bombardamenti, l'accordo firmato era molto simile a quello proposto dalla delegazione serba... a voi le conclusioni".

Come per i ragazzi e le ragazze del coordinamento - che nei Balcani ci sono stati producendo diari, una mostra fotografica e diverse ore di pellicola - così anche per Chomsky la guerra non è finita. Così come non è finita per le tante commissione che - sparse in tutto il mondo - continuano a indagare sui crimini dei Balcani alla ricerca di prove che testimonino dell'esistenza e dell'entità delle atrocità commesse. E' importante. Perché alla necessità di impedire il "genocidio" si è appellata la Nato per legittimare i bombardamenti alleati sulla Serbia.

Ai primi di agosto, l'amministratore dell'Onu Bernard Kouchner aveva dichiarato che oltre 11.000 kosovari di etnia albanese sarebbero stati massacrati da Milosevic (Il Pentagono parlava a maggio di centomila morti). Come fonte citava il Tribunale penale per i crimini nella ex-Jugoslavia che già allora lo smentiva e che oggi rivela i primi risultati delle sue indagini. Il numero delle vittime, per ora, sarebbe di 2.108; sembra corrispondere ad una "logica di guerra", ma comunque è una conta sinistra e descrive uno scenario atroce che pure, però, non può essere definito genocidio.

Non ci sono dubbi sul fatto che una pulizia etnica ci sia stata, basta guardare al numero dei rifugiati che sono almeno 18.000 e a quello degli uccisi di cui ancora non si sa nulla di preciso. Così come non c'è dubbio che le atrocità, in Serbia, siano cresciute dopo l'inizio dei bombardamenti. In questi giorni, l'International Herald Tribune ha riportato il resoconto delle atrocità commesse in una prigione serba dove centinaia di persone sono state uccise anche a causa dei bombardamenti della Nato. E ora - ma solo ora - si registrano atti di violenza anche da parte delle guardie serbe. Certo, i crimini commessi in Serbia, e con la connivenza della società civile, sono terribili: ma, anche qui, la connivenza c'è stata soprattutto dopo l'inizio dei bombardamenti. Gli stessi media, che inizialmente avevano condannato Milosevic, hanno a un certo punto spostato la loro attenzione sui civili, i cosiddetti "boia conniventi", e di loro pure si sono serviti per giustificare un intervento che di fatto era già iniziato.

Un esito fin troppo prevedibile...

Sì, e la Nato sapeva. Lo stesso comandante in capo delle forze Nato, il generale Wesley Clark, aveva dichiarato che, con l'inizio dei bombardamenti, le atrocità si sarebbero intensificate. A me sembra che i media non abbiamo dato una descrizione accurata di questa situazione e, senz'altro, non lo hanno fatto negli Stati uniti né in Inghilterra.

Dopoguerra? L'economia serba ha subìto, in poche settimane, distruzioni maggiori che nel corso di tutta la Seconda guerra mondiale; incalcolabili i danni ambientali.

La maggior parte degli obbiettivi colpiti non era militare. Il vero obbiettivo era l'economia civile che, infatti, ora si trova in uno stato disastroso. Non a caso sono state pesantemente bombardate regioni che nulla hanno a che fare con il Kosovo: la Voivodjna o la città di Novi Sad, peraltro abitate prevalentemente da ungheresi ostili a Milosevic. Un'operazione di attacco alla società civile relativamente facile, tanto questa è priva di difese. D'altronde gli Usa e l'Inghilterra avevano già compiuto la stessa operazione in Iraq.

Ancora dopoguerra: risulta che circa 260.000 - tra serbi, rom e albanesi "collaborazionisti" - siano stati espulsi dalla fine della guerra. Una sorta di pulizia etnica da parte della Nato e c'è chi, come Weton Surroy, parla di fascismo.

Sulla questione è, attualmente, in atto un conflitto tra Usa e Europa. Il problema è se alleviare o meno la sofferenza dei civili e naturalmente gli Usa intendono mantenere un regime di punizione. Io non parlerei di fascismo: si tratta del comportamento normale di stati potenti.

Lo storico francese Jean Chesneux ha affermato sul nostro giornale che "l'effetto Kosovo ha svolto un ruolo favorevole a Timor" dove l'Onu "ha agito fingendo di mettersi d'accordo con il colpevole". Non le sembra, piuttosto, inaudito il ritardo di un mese e mezzo con cui si è andati al referendum e il fatto che a intervenire sia stata proprio l'Australia che aveva appoggiato l'occupazione indonesiana del 1975?

Veramente Chesneaux ha detto questo? I diritti che l'Indonesia può vantare su Timor sono paragonabili a quelli che vantavano i nazisti sulla Francia occupata. Ma ciò che va sottolineato è che sono stati gli Usa a sostenerli. Lo stesso personale militare indonesiano è stato addestrato e armato dagli Usa fino a tempi molto recenti: parlo dell'amministrazione Clinton che lo ha fatto in violazione delle leggi congressuali. E fino a agosto, ci sono state esercitazioni congiunte con il personale militare statunitense. Parliamo, dunque, di un periodo, in cui già si consumavano i massacri: massacri e atrocità che sono da attribuire alle amministrazioni americane e in particolare all'amministrazione Carter.

Secondo la lezione balcanica non si sarebbe "dovuto", invece, bombardare Jakarta?

A Timor le atrocità erano a un livello maggiore di quelle del Kosovo prima che iniziassero i bombardamenti. A sostenerlo sono fonti affidabili, ecclesiastiche ma affidabili. A Timor il bilancio delle vittime era almeno di due volte superiore rispetto a quello del Kosovo. Nulla di tutto ciò è stato riferito. Credo basti questo a smentire Chesneaux. E se Clinton ha dovuto rilasciare qualche dichiarazione o prendere qualche misura, ancorché piccola, è solo perché, verso il 10 settembre, ha subìto pressioni interne. Quanto all'Australia, prima di intervenire, ha chiesto il permesso all'Indonesia. Anche in questo caso l'amministrazione Clinton è stata latitante e così pure l'Onu che, nonostante le centinaia di migliaia di persone nascoste sulle montagne a morire di fame, si guarda bene dal mandare del cibo.

La bandiera dei diritti umanitari non sembra, dunque, poggiarsi sull'asta dell'universalismo.

Si sa che centinaia di migliaia di timoresi sono soggetti a crimini efferati ma gli Stati uniti non dicono nulla. Così come tacciano (insieme alla Francia e all'Inghilterra) su quanto accade in Colombia o in Turchia. Del resto quest'ultima è entrata di diritto nel novero degli stati illuminati perché importa armi americane, le stesse necessarie a reprimere l'anomalia kurda.

Ritiene possibile una riforma che faccia dell'Onu lo strumento di un governo mondiale?

Una riforma delle Nazioni Unite è necessaria ma il problema principale è rappresentato dagli Usa che non ne consentono il funzionamento. Non a caso l'Onu non riceve fondi dagli Stati uniti e viene liquidata dagli Usa ogniqualvolta non ne rappresenta le opinioni. E' una situazione va avanti da quarant'anni. Non appena l'Onu ha cominciato a rappresentare una opinione mondiale, ha perso l'appoggio degli Usa. Del resto basta guardare ai numerosi veti in cui è incorsa. Contrariamente a ciò che dicono gli intellettuali dell'occidente, gli Stati uniti sono al primo posto nei veti alle risoluzioni Onu, poi vengono gli inglesi e quindi i francesi. Ciò riflette l'odio che gli Usa nutrono nei confronti dell'Onu che viene invece fortemente sostenuto dalla popolazione statunitense. E' uno dei tanti casi in cui l'opinione popolare non influenza la politica. Non dovrebbe essere così ma per cambiare ci vorrebbe un maggiore impegno politico, una maggiore patecipazione democratica.

Cosa pensa della proposta avanzata dallo studioso di diritto internazionale, Richard Falk, di istituire un parlamento mondiale su basi universali?

Falk è un vecchio amico ma queste proposte non hanno peso. Esiste già, per esempio, una corte internazionale di giustizia che ha condannato gli Stati uniti per la sua politica aggressiva. Ma gli Usa hanno ignorato questa sentenza. Esiste anche una corte criminale internazionale che non ha sostegno da parte degli Usa. E non è un caso che gli Stati uniti firmino così poche convenzioni sui diritti umani. Di più: quelle che vengono firmate sono sottoscritte a condizione che non si applichino agli Usa. Per esempio, in Jugoslavia, questa primavera, gli Stati uniti decisero che la convenzione sul genocidio non si poteva applicarsi al loro intervento e, così, la corte non poté considerare il caso. Il popolo statunitense è ignaro di tutto ciò. E lo stesso, credo, vale per quello italiano. E l'ignoranza di questi fatti colpisce persino numerosi intellettuali. Di questi fatti non si parla e non si parla per scelta non per necessità. Sono questi gli argomenti che dovrebbero essere affrontati per gettare le basi di una protesta popolare.

La guerra nei Balcani è stata combattuta nella più totale illegalità ma sempre in nome dei diritti umanitari. Proposta come modello di una nuova legalità internazionale, la "guerra ideologica" era l'unica, del resto, che la sinistra avrebbe potuto sostenere.

L'umanitarismo non c'entra niente. Altrimenti dovremmo considerare umanitario o di sinistra anche Mussolini che invase l'Etipia affermando che i suoi intenti erano, per l'appunto, umanitari: liberare gli schiavi e cristianizzare il paese. E in questo fu sostenuto dagli Stati uniti: in alcuni documenti rimasti segreti sino al 1938, gli Usa lodano Mussolini per i suoi alti sentimenti. E lo stesso è accaduto coi sudeti. In tutta la storia è difficile trovare una guerra che non venga presentata dall'aggressore come giusta e umanitaria ma scopi veramente umanitari non ce ne sono mai stati.

Non crede che la fine della guerra fredda imponga la riscrittura delle regole del diritto internazionale?

I principi del diritto internazionale sono positivi ma finché non vengono sostenuti dai grandi poteri non hanno valore. La politica Usa è chiara a riguardo. Quando, nel 1986, la corte internazionale di giustizia condannò gli Stati uniti per l'aggressione in Nicaragua la sentenza venne rifiutata con la seguente argomentazione: poiché non c'erano altre nazioni che condividevano la loro posizioni, gli Stati uniti si sentivano autorizzati a lottare da soli, indifferenti rispetto all'opinione delle altre nazioni, per difendere ciò che ritenevano giusto. In qualsiasi nazione libera questa sarebbe stata una notizi da prima pagina, voi ne avete letto in Italia?

Nel suo ultimo libro, "Intervista sul nuovo secolo", Eric Hobsbawm alla classica accezione di stato-nazione ne aggiunge un'altra e parla di "uno stato territoriale che appartiene a un particolare popolo, caratterizzato da peculiarità etniche, linguistiche e culturali e che costituisce la Nazione". Di fronte a uno stato etnico su basi linguistiche come cambia, secondo lei, il concetto di sovranità?

Hobsbawm è un altro vecchio amico ma quello che dice è fuorviante. L'Italia, per esempio, è una nazione unita da un'unica lingua ma solo perché tutte le altre sono state distrutte. Basta chiedere a qualsiasi persone quale lingua parlasse sua nonna e non sarà stato l'italiano. E' importante capire che un'unica lingua non è un fatto culturale che unisce il paese: più semplicemente è il segno che le altre sono state eliminate. Questo è accaduto anche negli Usa e riflette solo il fatto che gli altri popoli sono stati sterminati. Bisogna aggiungere, inoltre, che lo stato nazione non è sempre uguale: in Europa, riflette anche fatti etnici mentre non è necessariamente così in altre parti del mondo. Gli stati nazione europei sono stati creati dopo 800 anni di estrema violenza: solo dopo il 1945 si comprese - ed è questo l'unico motivo per il quale la violenza è cessata - che continuando di questo passo ci sarebbe stato l'annientamento totale. La guerra in Europa veniva praticata come scienza.

Se queste sono le premesse, come giudica l'unificazione europea?

In Europa c'è la necessità di un mutamento di rotta. Esso è reso urgente dalla presenza di due tendenze contrastanti l'una con l'altra. Da un lato, infatti, c'è una unificazione europea, nient'affatto democratica, che ripone tutto il potere nelle mani di una banca centrale, un istituto che non risponde delle sue azioni ma che si limita, si fa per dire, a fare gli interessi di alcune grandi corporazioni. L'altra tendenza rappresenta una risposta alla prima e risiede nella segmentazione regionale. Tutta la cultura europea - parlo della lingua, delle danze, delle musiche - si manifesta sempre più a livello regionale. In Inghilterra e in Spagna, specialmente, le regioni stanno acquisendo poteri sempre maggiori: è una reazione contro la centralizzazione proposta dall'Unione europea, una centralizzazione decisa dall'alto e, per questo, assai poco democratica. Al deficit di democratizzazione, il popolo risponde col tentativo di riprendere il controllo almeno su a livello regionale. E non si può dire come andrà a finire tutto questo. Del resto, gli europei non sono obbligati a riporre la loro fiducia in istituzioni finanziarie. Rispetto a questo, persino gli Stati uniti - e i loro più importanti giornali - si meravigliano della piega fortemente conservatrice che la politica europea va prendendo.

Abbiamo incontrato Noam Chomsky in una piccola stanza della facoltà di lettere di Siena, città in cui si trova per motivi di studio. Un'ora e mezza di conversazione e molte domande rimaste - per questioni di tempo - senza risposta, dalla relativizzazione della Shoà all'uso politico della storia al concetto di autodeterminazione dei popoli.

Poi lui comincia a scalpitare: all'ovattata atmosfera dell'università preferisce il pubblico appassionato che l'aspetta alla Corte dei miracoli.
Prima la politica, l'accademia può attendere.

 


Archivio Noam Chomsky




- -