Sono stato invitato a parlare di alcuni aspetti della libertà umana e della libertà accademica, un invito che offre molte scelte. Mi concentrerò su alcuni semplici temi. Libertà senza opportunità è un dono del diavolo, ed il rifiuto a fornire tali opportunità è criminale. Il destino dei più vulnerabili offre una chiara misura della distanza che ci separa da quella che potremmo definire come "civiltà." Mentre parlo, mille bambini moriranno di malattie facilmente prevenibili, e un numero quasi doppio di donne morirà o soffrirà di gravi complicazioni legate alla gravidanza o al parto, per la mancanza di semplici cure e medicinali. L'UNICEF stima che per rimediare a tali tragedie, e per assicurare l'accesso generale a servizi sociali di base, sarebbe sufficiente un quarto delle spese militari annuali dei "paesi in via di sviluppo," e circa il 10% della spesa militare americana. È con questo background in mente che qualsiasi seria discussione sulla libertà umana dovrebbe procedere.
È dai più accettato che la cura per queste gravi malattie sociali è a portata di mano. Tali speranze non sono senza fondamento. Gli ultimi anni hanno testimoniato alla caduta di brutali dittature, ad un progresso della ricerca scientifica che offre grandi promesse, e a molte altre ragioni per cui essere ottimisti per un promettente futuro. I discorsi dei privilegiati traboccano di fiducia e trionfalismo: il percorso in avanti è noto, e non ce ne sono altri. Il tema di base, articolato con forza e chiarezza, è che "la vittoria dell'America nella guerra fredda è stata una vittoria per un insieme di principi politici ed economici: democrazia e libero mercato." Questi principi sono "l'ondata del futuro (un futuro di cui l'America è sia guardiano che modello." Sto citando il principale commentatore politico del New York Times, ma l'immagine è convenzionale, diffusamente ripetuta, ed accettata come generalmente accurata anche dai critici. Veniva anche enunciata come la "Dottrina Clinton," la quale dichiarava che la nostra nuova missione è di "consolidare la vittoria della democrazia e di mercati aperti" appena ottenuta. Una serie di discordanze permane: ad un estremo "l'idealismo Wilsoniano" (da Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti negli anni a cavallo della prima guerra mondiale, ndt) urge alla continua dedizione alla tradizionale missione di benevolenza; all'altro estremo, i "realisti" obiettano che potremmo non avere i mezzi per condurre questa crociata di "migliorismo globale", e che dovremmo evitare di trascurare i nostri interessi nel perseguire il servizio degli altri. Tra questi due estremi, ci è dato ad intendere, va cercata la via per un mondo migliore.
La realtà sembra a me alquanto diversa. La gamma di opinioni abbracciata dal corrente dibattito politico ha scarsa rilevanza nella definizione delle politiche realmente perseguite, come è vero delle passate politiche: né gli Stati Uniti né alcun'altra nazione sono stati guidati dal "migliorismo globale". La democrazia è sotto assedio in tutto il mondo, inclusi i principali paesi industrializzati; perlomeno, democrazia nel senso vero del termine, ovvero democrazia che offra alla popolazione l'opportunità di gestire i propri interessi collettivi ed individuali. Qualcosa di molto simile si può dire del libero mercato. L'assedio alla democrazia ed al libero mercato sono inoltre profondamente legati. Le loro radici vanno cercate nell'enorme potere di corporations dalla struttura fondamentalmente totalitaria, sempre più interdipendenti e dipendenti da potenti stati, e totalmente sollevate da ogni responsabilità verso il pubblico. Il loro potere continua a crescere come conseguenza di politiche sociali che mirano a globalizzare il modello strutturale del terzo mondo, con settori della società di enorme ricchezza e privilegio, a fianco di un incremento de "la proporzione di coloro che lavoreranno sotto tutte le privazioni della vita, e segretamente aspireranno ad una più equa distribuzione dei suoi frutti," come James Madison, uno degli artefici della democrazia americana, predisse 200 anni fa. Queste scelte politiche sono più chiaramente evidenti nelle società anglo-americane, ma si stanno estendendo ovunque. E non possono certo essere attribuite a quello che "il libero mercato ha deciso, nella sua infinita ma mistica saggezza," a "l'implacabile avanzata della 'rivoluzione di mercato'," a "il ruvido individualismo Reaganiano," o alla "nuova ortodossia" che "permette pieno controllo al mercato." Le citazioni sono di esponenti liberal e di sinistra, in qualche caso piuttosto critici. L'analisi è simile, ed in genere euforica, se consideriamo la rimanente gamma di opinioni. La realtà è invece che l'intervento statale occupa un ruolo decisivo, come nel passato, e le linee guida delle politiche perseguite sono difficilmente una novità. La corrente versione di tali politiche riflette "il chiaro soggiogamento del lavoro da parte del capitale" da più di 15 anni, nelle parole della stampa economica (Business Week, ndt), che spesso articola con franchezza l'opinione di una comunità economica (*business comunity*) con un'alta coscienza di classe, e impegnata in una continua lotta di classe.
Se queste mie percezioni sono corrette, è chiaro che il percorso verso un mondo più giusto e più libero cade ben al di fuori di quello tracciato da potere e privilegio. Non ho la pretesa di voler provare tali conclusioni qui, ma solo di suggerire che tali conclusioni sono abbastanza credibili da essere considerate con attenzione. E di suggerire altresì che le attuali dottrine potrebbero difficilmente sopravvivere non fosse che sono funzionali ad "irreggimentare la mente collettiva quanto lo è un esercito ad irreggimentare i suoi soldati", per citare la massima di un liberal dell'era Roosevelt-Kennedy, Edward Bernays, dal suo classico manuale per l'industria delle pubbliche relazioni, industria di cui Bernays era uno dei fondatori e principali rappresentanti.
Bernays traeva dalla sua esperienza nel Committee on Public Information (Comitato per l'Informazione Pubblica), l'agenzia di propaganda di stato di Woodrow Wilson. "Chiaramente, era stato il successo della propaganda durante la guerra (prima guerra mondiale, ndt) che aveva aperto gli occhi delle poche persone di senno sulle enormi possibilità di irreggimentare la mente collettiva" scrisse. Il suo obiettivo era di adattare queste esperienze ai bisogni della "minoranza intelligente," principalmente business leaders, il cui compito è "la manipolazione cosciente ed astuta delle abitudini organizzate e delle opinioni delle masse." Questa "manipolazione del consenso" è "l'essenza del processo democratico," scriveva Bernays poco prima di ricevere un alto riconoscimento dalla American Psychological Association nel 1949. L'importanza di controllare la mente collettiva è stata riconosciuta con crescente chiarezza in seguito ai successi di lotte popolari nell'estendere le modalità democratiche. Queste lotte hanno portato più volte a quello che le elite liberal chiamano la "crisi della democrazia," ovvero il fenomeno per cui cittadini normalmente passivi ed apatici si organizzano e cercano di entrare nell'arena politica per perseguire i propri interessi e richieste, minacciando così la stabilità e l'ordine. Come illustrato da Bernays, con "il suffragio universale e l'istruzione obbligatoria, ... finalmente anche la borghesia temeva la gente comune. Ché le masse promettevano di conquistare il regno," una tendenza fortunatamente corretta (o così viene auspicato) grazie all'ideazione e realizzazione di nuovi metodi per "plasmare la mente delle masse."
In entrambe le principali democrazie occidentali c'era la crescente consapevolezza che l'enormemente efficace sistema di propaganda della Prima Guerra Mondiale aveva fornito una preziosa lezione che "andava ora applicata" ne "l'organizzazione della lotta politica," come veniva eloquentemente espresso dal segretario del British Conservative Party settant'anni fa. Negli Stati Uniti simili conclusioni venivano tratte dai liberal Wilsoniani, compresi pubblici intellettuali e prominenti esponenti dell'allora in ascesa disciplina di Scienze Politiche. In un altro angolo della civiltà occidentale, Adolf Hitler prometteva che la Germania non sarebbe stata battuta ancora nella guerra propagandistica, ed ideava nuovi metodi per applicare le tecniche della propaganda anglo-americana alla lotta politica in patria.
Negli Stati Uniti, il mondo del business metteva in guardia da "i pericoli che incombono sugli industriali," conseguenza de "il potere politico ottenuto dalle masse," ed urgeva a condurre e vincere "l'eterna lotta per la conquista della mente dell'uomo", a "indottrinare il popolo con il pensiero capitalista" fino a che "questi [potrà] ripetere a memoria questo pensiero con sufficiente precisione"; e così via, in un impressionante crescendo di pensieri ed azioni che costituiscono uno dei temi dominanti della storia moderna.
Per scoprire il vero significato dei "principi politici ed economici" promossi come "l'ondata del futuro", è necessario guardare oltre le frasi retoriche e le dichiarazioni ufficiali, ed investigare le pratiche effettive e la documentazione interna. L'analisi approfondita di casi specifici è il metodo più efficace, ma gli esempi vanno selezionati con cura, per dare una visione bilanciata. Un approccio efficace è quello di esaminare proprio quegli esempi che i proponenti delle dottrine stesse considerano "a favore." Un altro approccio è quello di selezionare quegli esempi dove l'influenza (degli Stati Uniti, ndt) è massima e le ingerenze esterne minime, cosicché possiamo esaminare i principi operativi nella loro forma più pura. Se per esempio vogliamo stabilire che cosa il Kremlino intendesse per diritti umani e democrazia, non prestiamo granché attenzione alle sdegnate denunce della Pravda sul razzismo negli USA o sul terrorismo di stato nei suoi stati clienti. Ancor meno alle loro rivendicazioni di nobili motivi. È molto più istruttivo guardare allo stato dei diritti umani e della democrazia nelle "democrazie popolari" dell'Europa dell'Est. Il punto è elementare, e va quindi applicato anche all'auto-designato "guardiano e modello", gli Stati Uniti. L'America Latina è l'ovvio terreno di prova, particolarmente la regione centro-americana e caraibica, dove per quasi un secolo Washington ha goduto di una quasi totale mancanza di interferenze esterne, cosicché i principi guida della politica, e dell'attuale "Washington consensus" neoliberista sono rivelati più chiaramente dall'esaminare lo stato della regione e come questi si è realizzato. È interessante notare che tale approccio di analisi viene molto raramente adottato, ed in quei rari casi, immediatamente castigato come estremista se non peggio.
La "crociata [di Washington] per la democrazia", come viene chiamata,
fu condotta con particolare fervore durante gli anni della presidenza Reagan,
con l'America Latina come area scelta. I risultati sono comunemente offerti
come prominente illustrazione di come gli Stati Uniti fossero diventati "un'ispirazione
per il trionfo della democrazia nei nostri giorni," per citare gli editori
del principale giornale del neoliberismo americano (NYT). L'autore, Sanford
Lakoff, individua ne "lo storico North American Free Trade Agreement (NAFTA
- trattato nord-americano per il libero commercio, ndt)" un potenziale
strumento di democratizzazione. Nella regione di tradizionale influenza statunitense,
scrive, le nazioni si stanno muovendo verso la democrazia, dopo "aver sopravvissuto
ad interventi militari" e "perverse guerre civili."
Cominciamo allora con l'esaminare più da vicino proprio questi casi recenti,
gli ovvi candidati data la preponderante influenza statunitense, e i casi che
vengono regolarmente scelti per illustrare i successi e le promesse della "Missione
americana."
La principale "barriera alla realizzazione" della democrazia, suggerisce Lakoff, sono gli interessi campanilistici (*vested*) che cercano di salvaguardare "i mercati interni" (ovvero, di prevenire corporations straniere (principalmente statunitensi) dall'acquisire un ancora maggior controllo della società. Ci è quindi dato ad intendere che la democrazia viene rafforzata dal delegare un sempre maggior numero di decisioni a tirannie private, principalmente straniere, totalmente irresponsabili verso il pubblico, mentre l'arena pubblica subisce un'ulteriore contrazione come conseguenza di uno stato che viene "minimizzato" in accordo con i "principi politici ed economici" del neoliberismo finalmente trionfante. Uno studio della Banca Mondiale indica che la nuova ortodossia rappresenta "un drammatico cambio di direzione da un ideale politico pluralista e partecipativo, verso un ideale autoritario e tecnocratico...," un ideale in pieno accordo con gli elementi fondanti del pensiero liberal e progressista del ventesimo secolo e, in un altra variante, con il modello Leninista; i due sono più simili di quanto spesso riconosciuto. Ragionare sulla logica tacita che motiva tale ortodossia è molto istruttivo al fine di meglio comprendere i concetti di democrazia e mercato nel loro significato operativo.
Lakoff nel suo articolo non elabora ulteriormente sul "revival della democrazia" in America Latina, ma cita una fonte autorevole, una collezione di scritti che include un contributo sulla "crociata" di Washington degli anni 80. L'autore è Thomas Carothers, che unisce credenziali accademiche e "prospettiva dell'insider", avendo lavorato in "programmi per il miglioramento della democrazia" al dipartimento di stato durante la presidenza Reagan. Carothers considera "l'impulso statunitense a promuovere la democrazia" come "sincero," ma essenzialmente un fallimento. Inoltre, il fallimento si rivelò sistematico: dove l'influenza statunitense fu minore, in Sud America, si realizzarono concreti passi verso la democrazia, che l'amministrazione Reagan generalmente oppose, e di cui si attribuì il merito quando risultò chiaro che il processo era irreversibile. Dove l'influenza di Washington fu massima, i passi avanti furono minimi, e dove questi comunque si realizzarono, il contributo statunitense fu marginale se non negativo. La sua conclusione generale è che gli Stati Uniti cercarono di mantenere "l'ordine essenziale di ... società fondamentalmente antidemocratiche" e di evitare "cambiamenti di natura populista," perseguendo quindi "inevitabilmente riforme democratiche limitate e top-down (gerarchiche, dall'alto al basso, ndt), che non rischiassero di sconvolgere le tradizionali strutture di potere di cui gli Stati Uniti erano stati da sempre alleati."
L'ultima frase richiede alcune parole di commento. Il termine "Stati Uniti"
viene convenzionalmente usato per riferirsi ai gruppi di potere all'interno
degli Stati Uniti; gli "interessi nazionali" sono gli interessi di
questi gruppi, ed hanno correlazione minima con gli interessi generali della
popolazione. La conclusione è quindi che Washington perseguì forme
di democrazia limitata e top-down, che non sconvolgessero le tradizionali strutture
di potere con cui le strutture di potere negli Stati Uniti erano da sempre alleate.
Un fatto per nulla sorprendente, e tantomeno una novità storica.
Per meglio apprezzare la rilevanza di questo fatto, è necessario esaminare
più da vicino la natura delle democrazie parlamentari. Gli Stati Uniti
ne sono il caso più importante, dato non solo il loro enorme potere,
ma soprattutto le loro stabili e durature istituzioni democratiche. Inoltre,
gli Stati Uniti sono la cosa più vicina ad un modello teorico che si
possa trovare. L'America può essere "tanto felice quanto le pare,"
dichiarava Thomas Paine nel 1776: "ha una pagina bianca su cui scrivere."
Le società indigene erano state essenzialmente eliminate. Rimanevano
pochi residui delle strutture europee, una delle ragioni che spiegano la relativa
debolezza del contratto sociale e di sistemi assistenziali, che affondano le
loro radici in istituzioni pre-capitaliste. E l'ordine socio-politico era in
misura inusualmente ampia frutto di un disegno consapevole. Nello studio della
storia non è possibile condurre esperimenti, ma gli Stati Uniti sono
la cosa più vicina che uno possa trovare al "caso ideale" di
democrazia capitalistica.
Inoltre, il principale artefice del sistema costituzionale americano era un astuto e lucido pensatore politico, James Madison, e furono le sue opinioni a incidere maggiormente sull'impianto costituzionale. Nelle discussioni sulla costituzione, Madison osservò che se in Inghilterra le elezioni "fossero aperte a tutte le classi sociali, la proprietà delle classi possidenti sarebbe in pericolo. Ben presto, una riforma agraria verrebbe attuata," per distribuire la terra ai contadini. Il sistema che Madison e i suoi associati stavano progettando doveva impedire una simile ingiustizia, ed "assicurare gli interessi durevoli del paese," che sono poi i diritti di proprietà. È responsabilità del governo, Madison dichiarò, "proteggere la minoranza degli opulenti dalla maggioranza." Per ottenere questo obiettivo, il potere politico deve rimanere nelle mani de "la ricchezza della nazione", uomini che "apprezzino sufficientemente" i diritti di proprietà e che "possano essere sicuri depositari del controllo di tali diritti," mentre il resto della popolazione viene marginalizzata e divisa, con solo una partecipazione limitata nell'arena politica. Tra gli studiosi di Madison, c'è un generale consenso sul fatto che "la costituzione era intrinsecamente un documento aristocratico con la funzione di porre un freno alle tendenze democratiche del periodo," dando il potere ad una "classe migliore" di persone ed escludendo "quelli che non erano ricchi, di buona famiglia, o prominenti, dall'esercizio del potere politico." Queste conclusioni vengono spesso qualificate con l'osservazione che Madison, e il sistema costituzionale in generale, cercò un equilibrio tra i diritti della persona e i diritti della proprietà. Ma tale formulazione è fuorviante. La proprietà non ha diritti. Sia in principio che in pratica, la frase "diritto di proprietà" significa diritto alla proprietà, tipicamente proprietà materiale, un diritto della persona che deve essere privilegiato rispetto a tutti gli altri diritti, e che è crucialmente diverso da altri diritti perché il suo possesso da parte di una persona ne priva le altre. Quando i fatti vengono esposti in modo chiaro, possiamo meglio apprezzare la forza nella dottrina "i proprietari della nazione hanno il dovere di governarla," "una delle massime favorite" dell'influente collega di Madison, John Jay, come osservato dal suo biografo.
Si potrebbe obiettare, come alcuni storici fanno, che tali principi persero la loro forza una volta che il territorio fu conquistato e popolato, con le popolazioni indigeni cacciate o sterminate. Qualsiasi sia la valutazione di quegli anni, alla fine del XIX secolo le dottrine fondanti avevano preso una forma ancor più oppressiva. Quando Madison parlò di "diritti della persona" si riferiva alla persona fisica. Ma la crescita dell'economia industriale, e l'assurgere di *corporate forms* di imprese economiche, portò ad una ridefinizione del termine. In un documento ufficiale corrente, "'Persona' è definita in senso lato come qualsiasi individuo, filiale, gruppo associato, associazione, patrimonio, trust, corporation, o altra organizzazione (organizzata o meno in accordo con le leggi di un qualsiasi stato), o qualsiasi entità di governo," una concezione che avrebbe senza dubbio scioccato Madison ed altri con radici intellettuali nell'Illuminismo e nel liberismo classico (pre-capitalisti e anti-capitalisti nello spirito.)
Questi radicali cambiamenti nella concezione dei diritti umani e della democrazia non furono introdotti per via legislativa, ma principalmente attraverso decisioni giuridiche (verdetti, ndt) ed il commentario di intellettuali. Le corporations, fino ad allora considerate entità prive di diritti, si videro accordare i diritti di una persona, e ben di più, visto che sono "persone immortali" e "persone" straordinariamente ricche e potenti. Inoltre, non erano più limitate agli specifici scopi determinati dallo State charter, e rimanevano pochi vincoli al loro agire.
Tali innovazioni furono aspramente osteggiate dagli studiosi di diritto conservatori,
consapevoli del fatto che minavano profondamente il principio per cui i diritti
sono propri degli individui, nonché i principi di mercato. Ma le nuove
forme di regola autoritaria vennero istituzionalizzate, ed assieme ad esse venne
la legittimazione del lavoro salariato, considerato alla stregua della schiavitù
nel pensiero corrente per la maggior parte del XIX secolo, e non solo dal movimento
operaio allora in crescita, ma anche da figure quali Abraham Lincoln, il partito
repubblicano, e i media dell'establishment.
Questi sono temi con enormi implicazioni per chi voglia comprendere la natura
della democrazia di mercato. Ed aiutano a capire perché la "democrazia"
all'estero deve riflettere il modello perseguito in patria: forme di controllo
top-down, con il pubblico relegato ad un ruolo di "spettatore", e
prevenuto dal partecipare al processo decisionale, da cui vanno esclusi questi
"outsider ignoranti e intriganti," secondo la moderna teoria democratica.
Sto citando dai saggi sulla democrazia di Walter Lippmann, uno degli intellettuali
e giornalisti americani del secolo più stimati.
Per ritornare alla "vittoria della democrazia" sotto gli auspici statunitensi, né Lakoff né Carothers si chiedono come Washington abbia mantenuto le tradizionali strutture di potere di società altamente antidemocratiche. Soggetto dei loro scritti non sono le guerre terroristiche che lasciarono decine di migliaia di corpi torturati e mutilati, milioni di rifugiati, e devastazioni probabilmente irreversibili (in larga misura guerre contro la chiesa, che divenne un pericoloso nemico dal momento che decise di adottare "l'opzione preferenziale per i poveri," (la nota teologia della liberazione che dà tanti grattacapi a Giovanni Paolo II, ndt), nel tentativo di aiutare popolazioni sofferenti ad ottenere un minimo di giustizia e di diritti democratici. È più che emblematico che la terribile decade degli anni ottanta si sia aperta con l'assassinio di un arcivescovo che era diventato una "voce per i senza voce," e si sia chiusa con l'assassinio di sei prominenti intellettuali Gesuiti che avevano perseguito un simile percorso, in entrambi i casi per mano di forze terroristiche armate ed addestrate dai vincitori della "crociata per la democrazia." È importante qui sottolineare che i principali dissidenti latino-americani vennero doppiamente assassinati: sia uccisi che ridotti al silenzio. Le loro parole, la loro stessa esistenza, sono a mala pena conosciute negli Stati Uniti, a differenza dei dissidenti di stati nemici, sommamente onorati ed ammirati; un altro principio culturale universale immagino.
Tali temi non entrano a far parte della storia raccontata dai vincitori. Nello studio di Lakoff per esempio, per nulla atipico sotto questo aspetto, quello che resta sono riferimenti a "interventi militari" e "guerre civili," senza alcun agente esterno preso in considerazione. Questi temi tuttavia, non devono venire ignorati da coloro che cerchino di meglio comprendere i principi invocati a modello per il futuro.
Particolarmente istruttiva è la descrizione del Nicaragua fatta da Lakoff: "una guerra civile si concluse a seguito di elezioni democratiche, ed è in corso un difficile tentativo di creare una società più prospera ed autonoma." Quello che effettivamente successe nel mondo reale è che la superpotenza responsabile dell'aggressione al Nicaragua aumentò i suoi atti di aggressione all'indomani delle prime elezioni democratiche del paese: le elezioni del 1984, attentamente monitorate e giudicate legittime in molteplici rapporti di commissioni internazionali, tra cui quelli dell'associazione professionale di studiosi Latino-americani (LASA), di delegazioni dei parlamenti Irlandese e Britannico, di un'ostile delegazione del governo Danese piuttosto vicino all'amministrazione Reagan, nonché della principale figura della democrazia centro-americana, Jos Figueres, presidente della Costa Rica e osservatore molto critico, che ciononostante riconobbe la legittimità delle elezioni, che si tenevano in un "paese occupato," e incoraggiò gli Stati Uniti a permettere ai Sandinisti di "portare a termine quello che hanno cominciato; se lo meritano." Gli Stati Uniti erano fortemente opposti a tali elezioni, e cercarono in tutti i modi di sabotarle, preoccupati che elezioni democratiche potessero interferire con la loro guerra terroristica. Ma tali preoccupazioni si rivelarono infondate, grazie all'egregia condotta in patria del sistema dottrinale che impedì efficacemente la divulgazione di tali rapporti, e adottò riflessivamente la versione dei fatti presentata dalla propaganda di stato, che giudicava le elezioni una frode, e prive di alcun significato.
Altrettanto trascurato è il fatto che all'avvicinarsi della successiva scadenza elettorale (1990, ndt), gli USA non lasciarono dubbi su quali sarebbero state le conseguenze della vittoria del candidato sbagliato: i Nicaraguensi avrebbero sofferto il persistere dell'illegale guerra economica, e de "l'illecito uso della forza" (per mano degli USA, ndt) che la World Court aveva più volte condannato e ordinato di terminare, naturalmente in vano. Questa volta tuttavia le elezioni si conclusero con un risultato accettabile, risultato accolto negli Stati Uniti con smisurato entusiasmo, altamente informativo della cultura dominante. Il giornalista Anthony Lewis del New York Times, considerato vicino all'estremo liberal dei confini del legittimo dibattere, esprimeva la sua ammirazione per Washington e per il suo "esperimento di pace e democrazia," che dimostrava che "viviamo in un'età romantica." I metodi sperimentali adottati non erano un segreto, e la rivista Time, che si unì al coro degli entusiasti per "l'esplosione di democrazia", li sintetizzò con disarmante franchezza: "ridurre l'economia in rovina, e condurre una lunga ed implacabile guerra mercenaria (*proxy*) finché l'esausta popolazione nativa non si convincerà essa stessa a rovesciare l'indesiderato governo" con un costo "per noi" minimo, e lasciando le vittime con "ponti distrutti, centrali elettriche sabotate, e coltivazioni in rovina," fornendo così al candidato sostenuto da Washington una "carta vincente", ovvero la fine della "persecuzione del popolo Nicaraguense," per non parlare del continuo terrore. È bene sottolineare che il costo fu tutt'altro che "minimo" per i Nicaraguensi: Carothers nota che il numero di vittime "fu considerevolmente più alto del numero di statunitensi uccisi durante la guerra di secessione statunitense, e più del totale di tutte le guerre del XX secolo." Il risultato finale era "una vittoria per il fair play statunitense" titolava il NYT esultante, che descriveva gli americani "uniti nella gioia", nello stile dell'Albania o della Corea del Nord.
I metodi di questa "età romantica," e la reazione a tali metodi di circoli illuminati, ci aiutano a capire quali sono i principi democratici che hanno prevalso. Ci aiutano anche a capire il perché sia una così "difficile impresa" riuscire a "creare una società più prospera ed autonoma" in Nicaragua. È comunque vero che la difficile impresa viene ora portata avanti con un certo successo per una minoranza privilegiata, mentre la maggioranza della popolazione deve fare i conti con un disastro sociale ed economico che ricalca un modello molto familiare nelle colonie occidentali. Ed è particolarmente interessante notare che il Nicaragua viene portato dagli editori del NYT come un esempio che dimostra il loro ruolo di "ispirazione per il trionfo della democrazia."
Per meglio comprendere quali sono i principi dominanti è bene ricordare che questi rappresentati del pensiero intellettuale liberal sono gli stessi che appoggiarono le spietate guerre di Washington in America Latina, e approvarono il supporto militare a "regimi fascisti, ... non importa quanti saranno assassinati," perché "gli Stati Uniti hanno priorità più alte dei diritti umani dei Salvadoregni." Elaborando ulteriormente sul tema, Michael Kinsley, che rappresenta "la sinistra" nei dibattiti politici televisivi, mise in guardia dal criticare con leggerezza le politiche di Washington di attaccare obiettivi civili indifesi. Tali operazioni di terrorismo internazionale causano "vaste sofferenze tra i civili," riconobbe Kinsley, ma possono essere "perfettamente legittime" se "un'analisi dei costi-benefici" dimostra che "la quantità di sangue e miseria versati" porterà la "democrazia", democrazia definita nei termini più consoni agli USA. Opinioni illuminate negano quindi al terrore un proprio valore, e sostengono che questo va giudicato su basi pragmatiche.
E gli stati clienti godono di simili privilegi. Per esempio, H. Greenway, redattore
esteri del Boston Globe, scrivendo dell'ennesimo attacco Israeliano ai danni
del Libano, commentò "Se bombardare villaggi Libanesi, anche a costo
di vite umane e di profughi, rendesse sicuri i confini Israeliani e promuovesse
la pace, allora direi di bombardare, e con me concorderebbero molti Arabi e
Israeliani. Ma la storia ci insegna che le avventure Israeliane in Libano hanno
quasi sempre causato più problemi di quelli che hanno risolto."
Quindi, è solo in base ad un criterio pragmatico che l'uccisione di civili,
l'espulsione di centinaia di migliaia di profughi, e la devastazione del Libano
del Sud, vengono messi in discussione.
Tenete a mente che mi sto limitando a riportare le posizioni di rappresentanti
al limite del legittimo dissenso, rappresentanti di quella che viene chiamata
"sinistra", e questo la dice lunga sui principi dominanti e sulla
cultura intellettuale entro cui tali principi si collocano.
Altrettanto rivelatrice fu la reazione dei media alle periodiche denunce mosse dall'amministrazione Reagan di presunti piani Nicaraguensi per l'acquisto di intercettatori jet dall'Unione Sovietica (conseguenza del fatto che gli USA avevano convinto i propri alleati a non fornire tali jets). I falchi in congresso chiesero che il Nicaragua venisse immediatamente bombardato. Le colombe da parte loro sostenerono la necessità di verificare prima le accuse mosse, e se confermate, di bombardare il Nicaragua. Un osservatore sensato non avrebbe trovato difficile capire il perché il Nicaragua intendesse dotarsi di intercettatori jet: per proteggere il proprio territorio dalle incursioni aeree della CIA che fornivano gli approvvigionamenti alle forze mercenarie (i contras, ndt), nonché informazioni aggiornate al minuto sui bersagli indifesi da colpire. L'assunzione tacita è che una nazione non ha il diritto di difendere la propria popolazione dagli attacchi statunitensi.
Il pretesto per la guerra terroristica di Washington era come al solito la legittima difesa, la giustificazione ufficiale per qualsiasi atto di guerra, compreso l'olocausto nazista. Infatti Ronald Reagan, giudicando che "le politiche e le azioni del governo del Nicaragua costituiscono una straordinaria ed inusuale minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti," dichiarò "un'emergenza nazionale," senza venire minimamente ridicolizzato. Altrove, reagiscono diversamente. Quando Kennedy cercò di organizzare un'azione collettiva contro Cuba nel 1961, un diplomatico messicano spiegò che il Messico non poteva dare il suo sostegno perché "se dichiariamo pubblicamente che Cuba è una minaccia alla nostra sicurezza, quaranta milioni di messicani moriranno dalle risate." Qui abbiamo una reazione più sobria alle minacce alla sicurezza nazionale. E usando la stessa logica, potremmo concludere che l'USSR aveva tutto il diritto di attaccare la Danimarca, una ben maggiore minaccia alla sua sicurezza, e certamente la Polonia e l'Ungheria quando queste si mossero verso una maggiore indipendenza. Ribadisco che il fatto che tali patenti assurdità possano essere abitualmente avanzate è un eloquente commento sulla cultura intellettuale dominante ed un ulteriore indicazione di quello che ci aspetta.
La scarsa sostanza dei pretesti della Guerra Fredda è bene illustrata dal caso di Cuba, come lo sono i reali principi operativi. Questi sono emersi con notevole chiarezza nelle passate settimane, in occasione del rifiuto di Washington di accettare il verdetto della World Trade Organization (W.T.O.) in favore dell'Unione Europea per una disputa sulla legittimità dell'embargo statunitense contro Cuba, un embargo unico nella sua severità, e già condannato dall'Organization of American States (OAS: Organizzazione degli Stati Americani) come una violazione del diritto internazionale, nonché dalle Nazioni Unite in virtuale unanimità. L'embargo è stato recentemente esteso a parti terze, e prevede severe sanzioni per coloro i quali disobbediscono gli editti di Washington, un ulteriore violazione del diritto internazionale e di accordi commerciali. La giustificazione ufficiale dell'amministrazione Clinton, come riportata dal New York Times, è che "l'Europa mette in discussione tre decadi di politiche americano-cubane, introdotte dall'amministrazione Kennedy ed interamente mirate a forzare un cambio di governo all'Avana". L'amministrazione dichiarava inoltre che il W.T.O. "non ha competenza a procedere" in una materia concernente la sicurezza nazionale degli USA, e non può "costringere gli USA a cambiare le proprie leggi."
Proprio nello stesso periodo, Washington e i media tessevano le lodi del nuovo accordo del W.T.O. sulle telecomunicazioni, presentandolo come un "nuovo strumento di politica estera" che avrebbe spinto le altre nazioni a cambiare le proprie leggi e pratiche in accordo con le esigenze di Washington, trasferendo il controllo dei sistemi di comunicazione nazionali a multinazionali estere, principalmente americane, in un ulteriore colpo inferto alla democrazia. E tuttavia, il W.T.O. non ha l'autorità per costringere gli USA a cessare il loro terrorismo internazionale e le loro illegali guerre commerciali. Libero commercio e diritto internazionale sono come la democrazia: idee ammirevoli, ma da giudicare in base ai risultati, non al merito.
Il giudizio sul ruolo e le prerogative del W.T.O. ricorda da vicino le motivazioni ufficiali degli Stati Uniti per la loro non accettazione del verdetto della World Court (Corte Mondiale) in favore del Nicaragua, per accuse da questi portate contro Washington. In entrambi i casi gli USA non riconobbero la giurisdizione esterna sulla base della plausibile assunzione che il verdetto sarebbe stato loro contrario; semplice logica porta quindi a concludere che né la World Court né il W.T.O. sono forum appropriati. L'allora consulente legale del Dipartimento di Stato Abraham Sofaer spiegò che quando gli USA riconobbero la giurisdizione della World Court negli anni 40, la maggior parte dei paesi membri delle Nazioni Unite "era allineata agli USA, e ne condivideva le opinioni sull'ordine mondiale." Tuttavia oggi "molti di questi paesi non si possono più contare tra le fila di coloro i quali condividono la nostra visione dello statuto costitutivo dell'ONU." E "questa stessa maggioranza spesso si oppone agli Stati Uniti su importanti questioni internazionali." Non avendo quindi la garanzia di averla sempre vinta, gli Stati Uniti devono ora "riservarsi il diritto di riconoscere o meno giurisdizione alla Corte caso per caso," sulla base del principio che "gli Stati Uniti non accettano giurisdizione obbligatoria su alcuna disputa che riguardi materie" che gli USA stabiliscono essere "sotto la [propria] giurisdizione interna". Le "materie interne" nel caso in questione erano l'attacco statunitense del Nicaragua.
I mass media, e più in generale l'opinione intellettuale, convenirono
che la Corte si era discreditata nell'emettere un verdetto contro gli USA. Parti
cruciali del verdetto della corte non vennero riportate, incluso il giudizio
che gli aiuti americani ai contras qualificavano com militari e non umanitari;
i media americani continuarono a parlare di "aiuti umanitari" fino
alla fine, quando il terrore e la guerra commerciale e diplomatica statunitensi
portarono alla "vittoria del fair play USA."
Per ritornare alla disputa in discussione al W.T.O., non vale neanche la pena
di giudicare dell' affermazione che nello strangolamento economico di Cuba è
in ballo l'esistenza stessa degli Stati Uniti. Più interessante è
la tesi che gli Stati Uniti hanno tutti i diritti di rovesciare un governo straniero,
in questo caso per mezzo di aggressione, terrorismo su larga scala per molti
anni, e strangolamento economico. Di conseguenza, diritto internazionale e accordi
commerciali sono irrilevanti. I principi fondamentali dell'ordine mondiale che
sono emersi vittoriosi risuonano ancora una volta forti e chiari.
Le dichiarazioni dell'amministrazione Clinton sono state accettate nella più totale mancanza di critiche, sebbene siano state criticate su basi molto circoscritte dallo storico Arthur Schlesinger. Scrivendo dalla posizione di "qualcuno coinvolto nella politica cubana dell'amministrazione Kennedy," Schlesinger osservò che l'amministrazione Clinton aveva male interpretato le politiche dell'amministrazione Kennedy. L'amministrazione era preoccupata dall' "agitazione nell'emisfero", e dalla "soviet connection" di Cuba. Queste sono ora parte del passato, quindi le politiche di Clinton sono un anacronismo, sebbene perfettamente legittime altrimenti.
Schlesinger non spiega il significato delle frasi "agitazione nell'emisfero" e "soviet connection," ma lo aveva fatto in altra occasione, in segreto. Illustrando le conclusioni della Latin American Mission (Missione Latino Americana) al presidente entrante nel 1961, Schlesinger spiegò chiaramente cosa si intendeva per "agitazione [castrista] nell'emisfero": è il "diffondersi dell'idea castrista di prendere controllo della propria situazione," un problema serio, aggiungeva poco dopo, visto che "la distribuzione della terra e di altre forme di ricchezza nazionale avvantaggia enormemente le classi possidenti ... [e] i poveri e i bisognosi, incoraggiati dall'esempio della rivoluzione cubana, chiedono ora opportunità per condizioni di vita decenti." Schlesinger spiegò anche la minaccia della "soviet connection": "nel frattempo, l'Unione Sovietica osserva defilata, offrendo sostanziosi prestiti per lo sviluppo e offrendosi come modello per ottenere la modernizzazione in una singola generazione." La "soviet connection" veniva percepita in una simile luce su più larga scala a Washington e Londra, dalle origini della guerra fredda nel 1917 agli anni 60, che sono gli anni più recenti a cui i documenti interni declassificati arrivano. Grazie a queste (segrete) spiegazioni del significato dell' "agitazione [castrista] nell'emisfero" e della "Soviet connection," facciamo un ulteriore passo avanti nella comprensione della realtà della guerra fredda, un altro tema importante che dovrò qui accantonare. Non dovrebbe quindi sorprendere che le politiche di fondo continuino a persistere nonostante la guerra fredda sia ormai relegata a memoria del passato, le stesse politiche regolarmente portate avanti anche prima della rivoluzione Bolscevica: come per esempio la brutale e distruttiva invasione di Haiti e della Repubblica Dominicana, giusto per citare una tipica illustrazione del "migliorismo globale" condotto sotto l'egida de "l'idealismo Wilsoniano."
Andrebbe aggiunto che la politica tesa a rovesciare il governo di Cuba precede l'amministrazione Kennedy. Castro prese il potere nel 1959. Nel giugno di quello stesso anno, l'amministrazione Eisenhower aveva già deciso che il governo castrista andava rovesciato. Attacchi terroristici da basi statunitensi cominciarono poco dopo. La decisione formale di rovesciare il governo di Castro in favore di un regime "maggiormente devoto ai reali interessi del popolo cubano e più accettabile agli USA" fu presa in segreto nel marzo del 1960, con l'aggiunta che l'operazione doveva essere condotta "in modo tale da evitare qualsiasi evidenza di un intervento americano," per via delle prevedibili reazioni in America Latina, nonché per facilitare il compito ai manager dell'indottrinamento negli Stati Uniti. A quel tempo, la "Soviet connection" e l' "agitazione nell'emisfero" erano inesistenti se non nella versione Schlesingeriana. Documenti declassificati rivelano che la CIA stimò che il governo castrista godeva di ampio supporto popolare (l'amministrazione Clinton è in possesso di simili informazioni oggi). L'amministrazione Kennedy riconobbe inoltre che i suoi tentativi violavano il diritto internazionale, ed il Charter dell'ONU e dell'OAS, ma non ritenne necessario discutere il problema.
Parliamo ora dell'accordo NAFTA, lo "storico" accordo che avrebbe dovuto promuovere la democrazia stile USA in Messico, come suggerito da Lakoff. Un'analisi più accurata risulta ancora una volta molto istruttiva. L'accordo NAFTA venne sbrigativamente approvato dal congresso a fronte della strenua opposizione popolare, e del supporto incondizionato del mondo del business e dei media, pieni di promesse per gli ipotetici benefici per tutti gli interessati derivanti dall'accordo, benefici confermati dalle fiduciose previsioni della U.S. International Trade Commission (Commisione internazionale per il commercio, ndt) e dei più noti economisti, dotati di sofisticati modelli economici (modelli che avevano miseramente fallito nel prevedere le conseguenze deleterie dell'accordo commerciale USA-Canada, ma che per qualche misteriosa ragione avrebbero funzionato in questo caso). Completamente accantonata nel dibattito pubblico fu l'accurata analisi condotta dall'Office of Technology Assessment (OTA: Ufficio per l'Impatto Tecnologico), la quale concludeva che la versione prevista del trattato NAFTA avrebbe danneggiato la maggioranza della popolazione del Nord America, e proponeva modifiche che avrebbero esteso i benefici dell'accordo oltre il ristretto circolo di potenti interessi finanziari. Ancor più istruttivo è notare come la posizione ufficiale dei sindacati statunitensi, descritta in una simile analisi, venne totalmente ignorata e soppressa. Allo stesso tempo, i sindacati venivano aspramente condannati per la loro posizione "arretrata e oscurantista", e per le loro "tattiche di pura intimidazione," motivate dalla "paura del cambiamento e paura degli stranieri"; sto nuovamente citando da una fonte considerata all'estrema sinistra dello spettro delle legittime opinioni, in questo caso Anthony Lewis (del NYT, ndt). Le accuse mosse ai sindacati erano chiaramente false, ma furono le sole parole che raggiunsero il pubblico in un ammirevole esercizio di democrazia. I dettagli della vicenda sono ancor più illuminanti, e venivano riportati, e continuano a venire riportati, dalla stampa dissidente, sebbene continuino ad essere ignorati dai mass media, e siano improbabili candidati per entrare a far parte della storia ufficiale.
Oggi le favole sulle meraviglie del trattato NAFTA sono state con discrezione accantonate via via che i dati, non propriamente favorevoli, si rendevano disponibili. Non si sente più parlare delle centinaia di migliaia di posti di lavoro e degli altri benefici che aspettavano gli abitanti dei tre paesi interessati (USA, Messico, e Canada, ndt.). E "benevoli punti di vista economici" le "opinioni degli esperti" (che il NAFTA non ha avuto alcun effetto significativo, hanno preso il posto delle promesse altisonanti. Il Wall Street Journal riporta che "rappresentanti dell'amministrazione [Clinton] sono frustrati dall'incapacità di convincere gli elettori che la minaccia (rappresentata dal NAFTA) non li danneggia" e che la perdita di posti di lavoro "è molto minore di quanto previsto da Ross Perot," a cui era stato permesso di prendere parte al dibattito pubblico (al contrario dell'OTA, il movimento sindacale, gli economisti che non appoggiavano la linea ufficiale, e naturalmente gli analisti dissidenti) perché le sue posizioni erano spesso estreme e facilmente ridicolizzabili. "È difficile contrastare le critiche dicendo la verità e cioè che il trattato commerciale non ha avuto essenzialmente alcun effetto," osserva contrariato un rappresentante dell'amministrazione. Quello che è stato dimenticato è che cosa "la verita" si sosteneva fosse quando l'impressionante esercizio di democrazia procedeva con il vento in poppa.
Mentre gli esperti hanno declassato le conseguenze del trattato NAFTA a "nessun effetto significativo," relegando le passate "opinioni degli esperti" al buco nero della memoria, un meno "benevolo punto di vista economico" viene alla luce se gli "interessi nazionali" sono sufficientemente ampliati così da includere in essi la popolazione generale. Testimoniando di fronte al Comitato Bancario Senatoriale (Senate Banking Committee), il segretario della Federal Reserve, Alan Greenspan, esprimeva il suo ottimismo per la "sostenibile espansione economica" ottenuta grazie a "l'atipico contenimento nell'aumento delle retribuzioni [che] sembra essere conseguenza di un'accresciuta insicurezza (per il posto di lavoro, ndt) tra i lavoratori" (un ovvio desideratum di una giusta società. Il Rapporto Economico del Presidente del febbraio '97, fa più obliquamente riferimento a "cambiamenti nelle istituzioni e pratiche del mercato del lavoro" come fattori rilevanti nel "significativo contenimento dei salari" che alimenta la salute economica del paese.
Una ragione di questi benvenuti cambiamenti è svelata da uno studio commissionato dal Segretariato del Lavoro del NAFTA su "gli effetti della chiusura di impianti sul principio della libertà di associazione e sul diritto dei lavoratori ad organizzarsi in sindacato." Lo studio è stato condotto sotto il trattato NAFTA a seguito della denuncia da parte di lavoratori della Sprint per presunte pratiche antisindacali attuate dalla compagnia (la Sprint è una delle maggiori compagnie statunitensi di telecomunicazioni, assieme alla AT&T e alla MCI, ndt). La denuncia veniva esaminata dal U.S. National Labor Relations Board, il quale ordinava penalità simboliche e con anni di ritardo, una procedura ricorrente. La distribuzione dello studio, condotto dall'economista del lavoro Kate Bronfenbrenner, della Cornell University, è stata autorizzata in Canada e in Messico, ma non negli USA dall'amministrazione Clinton. Tale studio rivela il significativo impatto del trattato NAFTA sulle pratiche anti-sciopero. Circa la metà dei tentativi di organizzazione sindacale fallisce, conseguenza delle minacce del datore di lavoro di trasferire l'attività all'estero. Le minacce non sono a vuoto. Quando tali iniziative organizzative hanno comunque successo, i datori di lavoro chiudono gli impianti in tutto o in parte ad un ritmo tre volte superiore a quello pre-NAFTA (circa il 15% delle volte). La minaccia della chiusura degli impianti è due volte più frequente nei settori più mobili (per esempio, industrie manifatturiere se paragonate con imprese di costruzione).
Tali pratiche anti-sciopero, assieme ad altre riportate nello studio, sono illegali, ma questo è un semplice tecnicismo, allo stesso livello di violazioni del diritto internazionale e dei trattati commerciali quando i risultati della loro applicazione risultano inaccettabili. L'amministrazione Reagan fece chiaramente capire al mondo del business che le loro illegali attività anti-sindacali non sarebbero state ostacolate dallo stato, e le amministrazioni che le hanno succeduto hanno continuato sullo stesso percorso. Tali politiche hanno avuto un sostanziale effetto sulla distruzione dei sindacati o, con parole più sofisticate, su "cambiamenti nelle pratiche ed istituzioni del mercato del lavoro" che contribuiscono al "significativo contenimento dei salari," nel contesto di un modello economico offerto con grande orgoglio ad un mondo arretrato che non ha ancora compreso i principi vittoriosi che apriranno la strada a giustizia e libertà.
Quello che fin dall'inizio veniva riportato dalla stampa alternativa sugli obiettivi del NAFTA viene ora tranquillamente ammesso: il reale obiettivo era di "costringere il Messico" alle "riforme" che ne hanno fatto un "miracolo economico," nel senso tecnico del termine: un "miracolo" per gli investitori statunitensi ed i ricchi messicani, mentre la popolazione sprofonda nella miseria. L'amministrazione Clinton "ha dimenticato che il fondamentale scopo del NAFTA non era la promozione del commercio, ma il consolidamento delle riforme economiche in Messico," riportava solennemente il corrispondente Mark Levinson, nella rivista Newsweek, dimenticando solamente di aggiungere che esattamente il contrario era stato solennemente proclamato per assicurare l'approvazione del NAFTA, mentre critici che segnalavano questo "fondamentale scopo" erano stati efficacemente esclusi dal libero mercato delle idee dai suoi stessi proprietari. E forse un bel giorno le ragioni verranno anch'esse svelate. "Costringere il Messico" alle riforme, si sperava, avrebbe sventato il pericolo individuato in occasione del Latin America Strategy Development Workshop tenutosi a Washington nel settembre del 1990. Tale workshop concludeva che le relazioni con la brutale dittatura messicana erano ottime, sebbene si scorgesse un problema potenziale: "una 'apertura democratica in Messico potrebbe mettere alla prova lo speciale rapporto che ci lega, eleggendo un governo nazionalista più interessato a mettere in discussione gli Stati Uniti e le sue direttive economiche" oggi non più un problema, visto che il Messico è stato "costretto alle riforme" per mezzo del trattato (NAFTA). Gli Stati Uniti hanno il potere di ignorare a piacere gli impegni previsti dai trattati. Non così il Messico.
In breve, il pericolo è la democrazia, in patria come all'estero, come l'esempio scelto ancora una volta illustra. La democrazia è permessa, pure benvenuta, ma va giudicata in base ai risultati, non al metodo. Il trattato NAFTA era considerato un efficace strumento per controllare il pericolo della democrazia. Veniva implementato in casa grazie alla sovversione di fatto del processo democratico, ed in Messico con la forza, nonostante la vana protesta popolare. I risultati vengono ora presentati come un promettente strumento per portare la democrazia di stile americano ai Messicani ancora annaspanti nel buio. Un osservatore cinico a conoscenza dei fatti si troverebbe a dover convenire.
I mercati sono sempre un costrutto (*construct*) sociale, e nella forma specifica in cui sono strutturati dalle correnti politiche sociali, il loro scopo è di limitare la democrazia, come nel caso del trattato NAFTA, degli accordi del W.T.O., e di altri strumenti che ci si prospettano per il futuro. Un caso che merita particolare attenzione è quello del Multilateral Agreement on Investment (MAI: Accordo Multilaterale sugli Investimenti), correntemente in discussione all'OECD (Organization for the Economic Cooperation and Development, ndt), il club dei ricchi, ed al W.T.O. (dove viene chiamato MIA). L'apparente speranza è che l'accordo venga adottato più o meno all'insaputa del pubblico, come era poi quanto si sperava di riuscire a fare con il NAFTA, speranza parzialmente vanificata, sebbene il "sistema d'informazione" riuscì a mantenere le parti salienti sotto silenzio. Se dovessero venire implementati i piani così come sono descritti nell'attuale versione, il mondo intero potrebbe venire "ingabbiato" in accordi commerciali che forniscono alle corporations trasnazionali nuovi strumenti per ridurre ulteriormente l'arena di applicazione di politiche democratiche, consegnando in larga parte le decisioni politiche nelle mani di enormi dittature private che hanno oltretutto molteplici strumenti di interferenza di mercato. Il tentativo di adottare tali accordi potrebbe venire bloccato al W.T.O., a causa delle decise proteste dei "paesi in via di sviluppo," nella fattispecie India e Malesia, per nulla ansiosi di diventare totali accessori di potenti imprese straniere. Ma la versione dell'accordo in discussione all'OECD potrebbe avere migliore fortuna, e una volta approvata, presentata al mondo come fatto compiuto, con le ovvie conseguenze. E tutto ciò sta procedendo con impressionante segretezza, fino ad oggi.
L'annuncio della dottrina Clinton veniva accompagnato dall'esempio favorito di illustrazione dei principi usciti vittoriosi: I risultati ottenuti dall'amministrazione Clinton in Haiti. Dato che questo viene offerto come "esempio a favore", mi sembra appropriato analizzarlo nei dettagli.
È vero che al presidente eletto (padre Bertrand Aristide, ndt) era stato permesso di tornare ad Haiti, ma solo dopo che le organizzazioni popolari che avevano reso possibile la sua elezione erano state soggette a tre anni di terrore da forze militari che avevano mantenuto stretti rapporti con Washington per l'intero periodo; l'organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani Human Right Watch sostiene che l'amministrazione Clinton ad oggi ancora rifiuta di restituire 160 mila pagine di documenti sul terrore di stato che erano stati confiscati dall'esercito statunitense ("per evitare imbarazzanti rivelazioni" sul coinvolgimento degli USA con il regime responsabile del colpo di stato (che aveva portato alla deposizione di Aristide, ndt). Prima di permetterne il ritorno in patria, era anche stato necessario sottoporre il presidente Aristide ad "un corso intensivo di democrazia e capitalismo," come veniva descritto dai suoi sostenitori statunitensi il processo di civilizzazione del prete scomodo. L'espediente non è nuovo, ed è stato usato in altre occasioni in cui una male accolta transizione alla democrazia è stata contemplata.
Come condizione per il suo ritorno, Aristide è stato costretto ad accettare un programma economico che indirizza le politiche del governo Haitiano alle esigenze della "Società civile, in particolare il settore privato, sia nazionale che estero": gli investitori statunitensi sono quindi promossi allo stato di nucleo principale della Società civile haitiana, assieme ai ricchi haitiani che erano stati tra i principali sostenitori del colpo di stato militare; non fanno invece parte della società civile i contadini haitiani e i *slum-dwellers* che, contro tutte le previsioni ed ogni sorta di ostacoli, erano stati capaci di eleggere un proprio presidente, suscitando immediatamente l'ostilità statunitense e il tentativo di sovvertire il suo governo, il primo regime democratico in Haiti.
Il risultato delle inaccettabili azioni degli "outsiders ignoranti e impiccioni" veniva quindi annullato con la forza, con la diretta complicità degli Stati Uniti, complicità che si esprimeva non solamente attraverso i contatti con il regime golpista. Infatti, l'Organizzazione degli Stati Americani aveva dichiarato un embargo. Sia l'amministrazione Bush che l'amministrazione Clinton fin dall'inizio non rispettarono l'embargo, esentandone le compagnie statunitensi, ed anche segretamente autorizzando la Texaco Oil Company a continuare le forniture al regime golpista ed ai suoi ricchi sostenitori in violazione delle sanzioni ufficiali, un fatto cruciale che venne rivelato (dalla Associated Press, ndt) il giorno prima dello sbarco statunitense per "ristabilire la democrazia", ma che non ha ancora raggiunto il pubblico, ed è improbabile che entri a far parte della storia ufficiale.
Oggi la democrazia è stata ristabilita. Il nuovo governo è stato costretto ad abbandonare il programma democratico e riformista che scandalizzò Washington, ed a seguire i programmi del candidato sostenuto da Washington alle elezioni del 1990, elezioni in cui ricevette il 14% dei voti. L'esempio "a favore" la dice lunga sul significato e le implicazioni della vittoria de "la democrazia e i mercati aperti."
Gli haitiani sembrano avere imparato la lezione, sebbene i manager dell'indottrinamento in occidente preferiscano un immagine differente. Le elezioni parlamentari dell'aprile '97 hanno visto un'affluenza alle urne di "un triste 5%" degli elettori potenziali, come riportato dalla stampa, che si chiedeva quindi se "Haiti [avesse] tradito le speranze statunitensi" Abbiamo sacrificato così tanto per portare loro la democrazia, ma sono ingrati e indegni. Possiamo capire perché i "realisti" urgano a stare alla larga da crociate di "migliorismo globale."
Un simile atteggiamento è comune in tutto l'emisfero. I sondaggi mostrano che in America Centrale la politica suscita "noia," "sfiducia" ed "indifferenza" in proporzioni di molto superiori ad "interesse" o "entusiasmo," ed evidenziano un "pubblico apatico ... che si sente spettatore del proprio sistema democratico" e manifesta "un generale pessimismo per il futuro." La prima indagine dell'America Latina, sponsorizzata dall'UE, riporta simili risultati: il coordinatore brasiliano commentava che "il messaggio più allarmante dell'indagine ... era la percezione popolare che solo l'elite ha beneficiato dalla transizione alla democrazia." Studiosi latino-americani osservano che la recente ondata di democratizzazione ha coinciso con le riforme economiche neoliberiste, che sono state molto dannose per la maggioranza della popolazione, e ciò ha portato alla cinica valutazione delle istituzioni di democrazia formale. L'introduzione di analoghi programmi economici nel paese più ricco del mondo ha avuto effetti simili. Nei primi anni '90, dopo 15 anni di una versione americana dei programmi neoliberisti di adattamento strutturale, più dell'80% della popolazione giudica il sistema democratico una farsa, con eccessivi poteri in mano al business, e l'economia "inerentemente ingiusta". Queste sono le naturali conseguenze dell'attuazione della "democrazia di mercato" sotto il controllo del business.
Naturali e per nulla impreviste. Il neoliberismo è vecchio di secoli, ed i suoi effetti dovrebbero essere noti. Il noto storico Paul Bairoch sottolinea che "non c'è dubbio che il liberismo economico imposto al terzo mondo nel diciannovesimo secolo è una delle cause fondamentali del ritardo nella sua industrializzazione," o anche della sua "deindustrializzazione," mentre l'Europa e le regioni che sfuggirono al controllo del neoliberismo si svilupparono grazie a radicali violazioni dei suoi principi. Riferendosi al passato più recente, il rapporto segreto di Arthur Schlesinger sulla Latin American Mission di Kennedy, realisticamente critica la "malefica influenza del Fondo Monetario Internazionale," che stava allora perseguendo la versione anni '50 del "Washington Consensus" (neoliberismo, adattamento strutturale). Nonostante tutta la fiduciosa retorica, si sa ancora molto poco di ciò che determina lo sviluppo economico. Ma alcune lezioni della storia sembrano ragionevolmente chiare, e di non difficile comprensione.
Torniamo alla dottrina prevalente secondo cui "la vittoria dell'America nella guerra fredda" è stata una vittoria per la democrazia ed il libero mercato. Per quanto riguarda la democrazia, questo è in parte vero, sebbene dobbiamo capire che cosa si intenda per democrazia: forme di controllo top-down "per proteggere la minoranza opulenta dalla maggioranza." E per quanto riguarda il libero mercato? Pure in questo caso troviamo che la dottrina è ben lontana dalla realtà`, come i precedenti esempi hanno illustrato.
Consideriamo ancora l'accordo NAFTA, un accordo che mirava a costringere il Messico ad una disciplina economica che proteggesse gli investitori dai pericoli di "aperture democratiche." Le sue disposizioni la dicono lunga sui principi economici emersi vittoriosi. Non è "un accordo per il libero commercio." È anzi altamente protezionistico, e pensato così da escludere i competitori europei ed asiatici. Inoltre, condivide con altri accordi globali principi anti-mercato, come i "diritti di proprietà intellettuale" che costituiscono restrizioni estremamente severe che le società ricche mai accettarono durante il loro periodo di sviluppo, ma che ora intendono usare per proteggere l'industria domestica; per soppiantare l'industria farmaceutica nei paesi più poveri per esempio, e per ostacolare lo sviluppo tecnologico, come il perfezionamento dei processi produttivi di prodotti brevettati; il progresso non è più benvisto del mercato, a meno che produca benefici per quelli che contano.
Andrebbe inoltre messo in discussione il concetto stesso di "commercio." Più della metà del commercio USA con il Messico consiste di transazioni intra-aziendali, una percentuale che è aumentata del 15% dal passaggio del NAFTA. Per esempio, già un decennio fa industrie locate nel Messico del nord e principalmente di proprietà statunitense producevano più di un terzo dei motori usati nelle automobili statunitensi e tre quarti di altra componentistica essenziale. Il collasso post-NAFTA dell'economia messicana nel 1994, che risparmiò solo i super ricchi e gli investitori stranieri (protetti dal salvataggio governativo), portò ad un aumento del commercio USA-Messico, mentre la nuova crisi, che stava riducendo la popolazione ad una sempre maggior miseria, "trasformò il Messico in una conveniente fonte di prodotti a basso costo [o meglio, ancor più basso costo], con salari industriali un decimo dei corrispettivi statunitensi", come riportato dalla stampa economica. Secondo alcuni esperti, più di metà del commercio statunitense consiste di simili transazioni a gestione centralizzata, e lo stesso vale per altre potenze industriali. Alcuni economisti hanno plausibilmente caratterizzato l'attuale sistema mondiale come un sistema di "mercantilismo corporativo" ben lontano dall'ideale del libero commercio. L'OECD, adottando un simile punto di vista, sostiene che "sono la competizione oligopolistica e l'interazione strategica tra imprese e governi, piuttosto che la mano invisibile delle forze di mercato, a determinare il vantaggio competitivo e la divisione internazionale del lavoro nell'industria ad alta tecnologia."
Lo stesso si può dire dell'economia domestica statunitense, la cui struttura viola i principi neoliberisti proclamati a gran voce. Il tema dominante dello studio della storia economica statunitense è che "la moderna azienda prese il posto dei meccanismi di mercato nel coordinamento delle attività economiche e nell'allocazione delle risorse," gestendo internamente molte delle transazioni in un'altra significativa deviazione dai principi di mercato. E le deviazioni sono molte. Si consideri per esempio la sorte del principio sostenuto da Adam Smith che il libero movimento delle persone, attraverso le frontiere per esempio, è una componente essenziale del libero commercio. Quando guardiamo al mondo reale delle corporations trasnazionali, ed alle loro alleanze strategiche con stati potenti, la distanza tra dottrina e realtà si fa considerevole.
La teoria del libero mercato è disponibile in due versioni: la dottrina ufficiale; e quella che potremmo chiamare "dottrina di mercato realmente esistente" che si può riassumere nel seguente modo: la disciplina di mercato va bene per te, ma non per me, che ho bisogno dell'assistenza dello stato. La dottrina ufficiale è imposta a quelli che non vi si possono opporre, ma è la "dottrina realmente esistente" che è stata adottata dai potenti sin dai giorni in cui la Gran Bretagna emerse come il più avanzato stato fiscale-militare, grazie ad aumenti sostanziali della pressione fiscale ed un efficiente amministrazione pubblica, mentre lo stato diventava "il principale singolo attore economico," responsabile della sua espansione globale, consolidando un modello che è stato seguito fino ai giorni nostri nel mondo industriale, e certamente negli Stati Uniti.
La Gran Bretagna si convertì infine all'internazionalismo liberista (nel 1846, dopo che 150 anni di protezionismo, violenza e potere di stato la posero in largo vantaggio su tutti i competitori. Ma la conversione al mercato non avvenì senza riserve. Il 40% dei prodotti tessili britannici continuò a fornire l'India colonizzata, e lo stesso si può dire dell'export britannico più in generale. Allo stesso modo, all'acciaio britannico venne precluso il mercato statunitense per mezzo di alte tariffe che permisero agli Stati Uniti di sviluppare la propria industria dell'acciaio. Ma l'India ed altre colonie rimasero disponibili per l'export britannico, e continuarono ad esserlo anche quando l'ormai troppo elevato prezzo dell'acciaio britannico lo escluse dal mercato internazionale. Il caso dell'India è istruttivo; nel tardo diciottesimo secolo produceva tanto ferro quanto l'intera Europa, e gli ingegneri britannici ancora nel 1820 studiavano le più avanzate tecniche manifatturiere dell'acciaio indiane per cercare di ridurre il "gap tecnologico." Bombay era una competitiva produttrice di locomotive quando il boom della ferrovia ebbe inizio. Ma le "dottrine di mercato realmente esistenti" distrussero questi settori dell'industria indiana, così come avevano distrutto l'industria tessile, la cantieristica navale, ed altre industrie all'avanguardia per gli standard dell'epoca. Gli Stati Uniti e il Giappone riuscirono invece a sfuggire al controllo europeo, e poterono adottare il modello britannico di interferenze al mercato.
Quando anche la competizione giapponese si dimostrò al di sopra delle aspettative, l'Inghilterra pose fine al gioco, e l'impero venne di fatto precluso all'export giapponese, fatti questi che fanno parte del background della seconda guerra mondiale. Nello stesso periodo, anche l'industria indiana premette per misure protezionistiche (ma contro la Gran Bretagna, non il Giappone. E chiaramente con minor successo, date le dottrine di mercato realmente esistenti.
Dopo l'abbandono del seppur limitato laissez-faire negli anni 30, il governo britannico introdusse politiche più direttamente interventiste anche nell'economia domestica. Nel giro di pochi anni, la produzione di macchine utensili venne quintuplicata, accompagnata dal boom nell'industria chimica, l'industria dell'acciaio, l'industria aerospaziale, e tutta una serie di settori emergenti, in "una nuova ondata di rivoluzione industriale," come scriveva Will Hutton. L'industria britannica a controllo statale permise alla Gran Bretagna di superare la Germania nella produzione industriale durante la guerra, ed anche di ridurre il gap con quella degli Stati Uniti, che stavano allora vivendo una drammatica espansione industriale sotto la direzione dei magnati industriali che avevano preso il controllo dell'economia di guerra coordinata dallo stato.
Gli Stati Uniti seguirono un percorso analogo a quello seguito dalla Gran Bretagna un secolo prima. Dopo 150 di protezionismo e violenza, gli USA erano diventati la più ricca e potente nazione del mondo e, come la Gran Bretagna un secolo prima, arrivarono ad apprezzare i vantaggi di una "competizione imparziale" in cui avevano la certezza di poter annientare qualsiasi competitore. Ma, come con la Gran Bretagna, la libera competizione venne introdotta con eccezioni non trascurabili.
Una di tale eccezioni è che Washington usò il suo potere per prevenire all'estero forme di sviluppo economico indipendente, come aveva fatto l'Inghilterra un secolo prima. In America Latina, in Egitto e in Asia del sud, come pure altrove, venivano imposte forme di sviluppo "complementari," e non "competitive," e con ampie interferenze al commercio da parte statunitense. Per esempio, gli aiuti del Piano Marshall vennero condizionati all'acquisto di prodotti agricoli statunitensi, che è parte della ragione del perché gli Stati Uniti incrementarono la loro proporzione di produzione mondiale di grano dal 10% di prima della guerra a più del 50% degli anni 50, mentre l'export argentino si vide ridotto di circa due terzi nello stesso periodo. Anche gli aiuti del programma U.S. Food for Peace vennero usati sia per sussidiare (sovvenzionare) l'agribusiness statunitense sia per ostacolare i produttori stranieri, uno dei tanti stratagemmi per ostacolare lo sviluppo indipendente. La quasi totale distruzione della produzione colombiana di frumento per mezzo di tali pratiche è uno dei fattori che hanno determinato il boom del narcotraffico, boom che ha ricevuto ulteriore impulso in tutta l'area andina dalle politiche neo-liberiste degli ultimi anni. L'industria tessile del Kenya crollò nel 1994 quando l'amministrazione Clinton impose una quota, impedendogli il percorso di sviluppo che era stato seguito senza eccezioni da tutti i paesi industrializzati, mentre i "riformisti africani" venivano ammoniti a "procedere più speditamente" nel miglioramento delle condizioni per il business, e a "consolidare le riforme di libero mercato" con "politiche commerciali e di investimento" che soddisfassero le esigenze degli investitori occidentali. Nel dicembre del 1996, Washington bloccò l'import di pomodori dal Messico in violazione delle regole del NAFTA e del W.T.O. (sebbene non tecnicamente, dato che si trattò di una semplice dimostrazione di forza, senza bisogno dell'imposizione di alcuna tariffa ufficiale), ad un costo per i produttori messicani di circa un miliardo di dollari all'anno. La ragione ufficiale per questo regalo ai produttori della Florida è che i prezzi erano "artificialmente abbassati dalla competizione messicana" e che i consumatori statunitensi preferivano i pomodori messicani. In altre parole, i principi di libero mercato stavano funzionando, ma con il risultato sbagliato.
Queste sono solo sparse illustrazioni.
Un altro esempio piuttosto rivelatore è quello di Haiti, assieme al Bengali il premio coloniale più ambito al mondo e fonte di buona parte della ricchezza della Francia, passato sotto il controllo statunitense sin da quando i marines di Woodrow Wilson invasero l'isola ottant'anni fa, e ad oggi una tale catastrofe che potrebbe diventare virtualmente inabitabile in un futuro non troppo remoto. Nel 1981 venne avviato un piano di sviluppo sponsorizzato dalla Banca mondiale e dallo USAID, basato su impianti di assemblaggio ed agroexport, trasferendo a tale scopo la terra fino ad allora utilizzata per il consumo locale. L'USAID prevedeva "una storica svolta verso una progressiva interdipendenza con gli Stati Uniti" che avrebbe visto Haiti diventare la "Taiwan dei Caraibi." Un giudizio condiviso dalla Banca Mondiale, che raccomandava l'usuale ricetta basata sull' "espansione dell'impresa privata" e la minimizzazione degli "obiettivi sociali," con il conseguente incremento di disuguaglianza e povertà e la riduzione dei livelli di salute pubblica ed educazione; va notato, per quello che vale, che queste ricette vengono sempre accompagnate da sterili sermoni sul bisogno di ridurre disuguaglianza e povertà e di migliorare salute ed educazione, e che gli stessi studi tecnici della Banca Mondiale riconoscono che una relativa uguaglianza economica ed alti standard di salute ed educazione sono fattori cruciali nel determinare la crescita economica. Nel caso di Haiti le ben collaudate ricette produssero altrettanto prevedibili risultati: alti profitti per l'industria manifatturiera statunitense e gli Haitiani ultra-ricchi, ed una riduzione del 56% dei salari Haitiani negli anni 80 in poche parole un "miracolo economico." Haiti rimane Haiti, e non Taiwan, la quale ha seguito un corso radicalmente diverso, come devono senz'altro sapere gli esperti della Banca Mondiale.
E furono proprio i conseguenti sforzi del governo democratico haitiano, tesi a rimediare al crescente disastro, che provocarono l'ostilità di Washington, nonché il colpo di stato militare ed il terrore che ad esso seguì. Una volta "ristabilita la democrazia," l'USAID sospendeva gli aiuti, condizionandoli alla privatizzazione dei cementifici e di altre industrie per il beneficio dei ricchi haitiani e degli investitori esteri (identificati come la "società civile" haitiana nel piano imposto per ristabilire la democrazia), ed alla riduzione delle spese per salute ed educazione. L'agribusiness continuava a ricevere ingenti finanziamenti, mentre nessuna risorsa veniva indirizzata all'agricoltura locale ed all'artigianato, primarie fonti di reddito per la stragrande maggioranza della popolazione. Gli impianti di proprietà straniera, che impiegavano i locali (principalmente donne) per salari al di sotto del livello di sussistenza ed in condizioni di lavoro orrende, beneficiavano egregiamente dell'elettricità a basso costo sussidiata dal generoso supervisore. Ma agli haitiani in condizioni di povertà (la maggioranza della popolazione non é permesso fornire sussidi per elettricità, carburante, acqua o alimenti); questi sono proibiti dalle regole imposte dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), sulla base del principio che costituirebbero un "controllo dei prezzi." Prima dell'attuazione delle "riforme" la produzione locale di riso era capace di coprire la quasi totalità del bisogno domestico, con importanti (benefiche) conseguenze per l'economia. Grazie alla "liberalizzazione," la produzione locale è scesa ora al di sotto del 50%, con prevedibili conseguenze sull'economia domestica. Va sottolineato che la liberalizzazione è attuata solo da una parte: Haiti si deve "riformare," eliminando le tariffe come dettato dai principi della scienza economica (scienza che, per qualche miracolo della logica) esenta l'agribusiness statunitense, il quale continua a ricevere ingenti sussidi, aumentati durante l'amministrazione Reagan al punto da fornire nel 1987 il 40% del reddito lordo degli agricoltori. Le naturali conseguenze di tali politiche sono ben note, e calcolate: un rapporto dell'USAID del 1995 osserva che "le politiche mirate all'export" imposte da Washington provocheranno "un'inesorabile stretta per il coltivatore locale di riso," il quale sarà quindi costretto a perseguire il più razionale obiettivo dell'agroexport per il beneficio degli investitori statunitensi, in accordo con i principi della teoria delle aspettative razionali.
Per mezzo di tali metodi, il paese più povero dell'emisfero è stato trasformato in importante acquirente di riso statunitense, così arricchendo le imprese americane sussidiate. Quelli abbastanza fortunati da aver ricevuto una buona istruzione occidentale saranno senz'altro in grado di spiegare che i benefici si faranno alla fine sentire anche per i contadini e *slam-dwellers* haitiani. Gli africani potrebbero ritrovarsi a seguire un simile percorso, come attualmente raccomandatogli dai leaders del "migliorismo globale" e dall'elite locale, e forse non vedono altra soluzione viste le circostanze attuali un giudizio a parer mio alquanto discutibile. Ma se comunque decidessero di intraprendere tale strada, dovrebbero almeno essere consapevoli delle conseguenze.
L'esempio di Haiti illustra una delle più rimarchevoli violazioni della dottrina ufficiale del libero commercio, ben più importante del protezionismo, che anche in periodi passati fu ben lungi dall'essere la più significativa delle interferenze di mercato, sebbene sia la più studiata, conseguenza dell'artificiale suddivisione imposta dalle discipline accademiche, che aiuta a mascherare importanti realtà sociali e politiche. Per citare un esempio ovvio, la prima rivoluzione industriale dipese dal cotone a basso costo, così come l'attuale "età dell'oro" del capitalismo contemporaneo dipende dalla disponibilità di energia a basso costo, ma i metodi per mantenere bassi i prezzi di tali merci essenziali, metodi che difficilmente si possono giudicare conformi ai principi del libero commercio, non entrano a far parte della disciplina economica.
Una delle componenti essenziali della teoria del libero commercio è il principio che sussidi statali non sono permessi. Ma dopo la seconda guerra mondiale, i leader economici statunitensi concordarono nel giudizio che l'economia sarebbe crollata se non fosse stato per il massiccio intervento statale che durante la guerra aveva finalmente permesso di superare la depressione. Insistettero inoltre che l'industria avanzata "non può sopravvivere in una pura, competitiva, e non-sussidiata economia della 'libera impresa'" che "il governo è l'unico in grado di salvarla (come riportato in Fortune e Business Week, esprimendo il generale consenso del tempo). E riconobbero che il sistema basato sul Pentagono (industria militare, ndt) sarebbe stato il modo migliore di trasferire i costi alla popolazione. La spesa sociale avrebbe potuto giocare un simile ruolo, ma ha difetti non da poco: non è un diretto sussidio all'industria privata, ha effetti "democratizzanti", nonché effetti redistributivi. La spesa militare non ha alcuna di queste indesiderabili caratteristiche. Ed è anche facile da vendere: con l'inganno. Il segretario dell'Air Force nell'amministrazione Truman lo spiegò con disarmante semplicità: dobbiamo evitare di usare la parola "sussidi", disse; la parola da usare è "sicurezza." E si industriò affinché il bilancio militare "[soddisfacesse] i bisogni dell'industria areonautica," come egli stesso spiegò. Una delle conseguenze è che l'industria areonautica civile è oggi l'industria nazionale leader nelle esportazioni, e l'enorme industria di viaggi e turismo, che si basa sul trasporto aereo, è fonte di notevoli profitti.
È quindi assai appropriato che Clinton, nell'esporre la sua "nuova visione" del futuro del libero mercato, abbia scelto la Boeing come "un modello per tutte le aziende d'America." Un esempio perfetto della dottrina di mercato realmente esistente, l'industria areonautica civile è ad oggi quasi interamente nelle mani di due compagnie, la Boeing-McDonald, e la Airbus (un consorzio europeo, ndt), entrambe le quali devono la loro esistenza ed il loro successo a sussidi statali su larga scala. Lo stesso si può dire dell'industria elettronica e dei computer, dell'industria dell'automazione, della biotecnologia, delle comunicazioni, e più o meno di ogni dinamico settore economico.
Non c'era bisogno di spiegare questa caratteristica fondamentale del "capitalismo del libero mercato realmente esistente" all'amministrazione Reagan, che era maestra in quest'arte, esaltando le glorie del mercato ai poveri, e vantandosi contemporaneamente di fronte al mondo del business del fatto che Reagan avesse "garantito all'industria americana maggiori protezioni dall'import di qualsiasi suo predecessore in più di mezzo secolo"; in realtà maggiori protezioni dell'insieme dei suoi predecessori, nella "più pronunciata svolta protezionistica dagli anni trenta," trasformando gli Stati Uniti da "campioni del libero commercio multilaterale a principali oppositori," come riportato nella rivista del Council for Foreign Relations (Consiglio per i rapporti con l'estero) nell'ambito di una analisi della decade. I Reaganites "condussero un sostenuto assalto ai principi [del libero commercio]" che ebbe inizio negli anni 70, come viene deplorato in uno studio di Patrick Low, economista del segretariato del GATT (Global Agreement on Tariffs and Trade, ndt), il quale stima che gli effetti delle politiche protezionistiche Reaganiane siano stati tre volte più restrittivi di quelli delle politiche di altri paesi industrializzati.
La grande "svolta protezionistica" rappresenta solo uno degli aspetti del "sostenuto assalto" ai principi del libero commercio, assalto accelerato durante il periodo del "ruvido individualismo Reaganiano." Un altro capitolo della storia include l'enorme trasferimento di fondi pubblici al potere privato, spesso giustificati ricorrendo al pretesto della "sicurezza nazionale," trasferimenti che "portarono la spesa militare e per R&S (Ricerca e Sviluppo) al di sopra dei livelli record degli anni sessanta." La popolazione veniva terrorizzata ricorrendo a diversi nemici pubblici (l'Unione Sovietica, la Libia, e così via), ma il messaggio dei Reaganites al mondo del business si rivelava come sempre assai più onesto. Se fossero mancate queste misure estreme di interferenze al mercato, è assai dubbio che le industrie americane di autovetture, acciaio, macchine utensili, semiconduttori ed altre, avrebbero sopravvissuto alla competizione Giapponese, o che sarebbero state capaci di dominare il mercato delle nuove tecnologie, con profonde conseguenze per l'economia.
Non c'è neppure bisogno di spiegare le dottrine operative all'attuale leader della "rivoluzione conservatrice," Newt Gingrich, sempre pronto ad impartire severe lezioni a bambini di sette anni sui mali della dipendenza dal welfare, mentre allo stesso tempo detiene il primato nazionale nel trasferimento di fondi pubblici al suo affluente collegio elettorale. Come non c'è bisogno di spiegare tali dottrine alla Heritage Foundation, fondazione responsabile della proposta di manovra finanziaria fatta propria dai "conservatori" del congresso. Tale proposta chiedeva (e otteneva) un aumento della spesa per il Pentagono che addirittura sorpassava l'aumento già previsto da Clinton, al fine di assicurare che "la base industriale della difesa" rimanesse solida sotto la protezione del potere di stato, fornendo tecnologia a doppio-uso ai suoi beneficiari, e così facendo garantendo loro il dominio dei mercati commerciali ed il loro arricchimento a spese della collettività.
È comunemente accettato che "libera impresa" significa che la collettività si fa carico dei costi come pure dei rischi se le cose dovessero andare male; ne sono un esempio gli interventi pubblici in soccorso di banche e corporations che in anni recenti sono costati al pubblico centinaia di milioni di dollari. Quindi, nei sistemi di mercato realmente esistenti, i profitti vanno privatizzati, ma i costi e i rischi vanno socializzati. La storia, ormai vecchia di secoli, continua a ripetersi senza grandi cambiamenti, e non solo negli Stati Uniti ovviamente.
Le dichiarazioni ufficiali vanno quindi interpretate alla luce di queste realtà, come ad esempio l'attuale piano di Clinton per l'Africa che fa appello a "commercio anziché aiuti", piano che contiene una serie di disposizioni che guarda caso beneficiano gli investitori statunitensi. La *uplifting* retorica dell'appello ignora la realtà di quanto poco simili approcci abbiano funzionato in passato, come pure il fatto che gli Stati Uniti già prima di questa ammirevole innovazione avessero il programma di aiuti più miserevole tra tutti i paesi industrializzati. Per prendere un altro ovvio esempio, considerate l'interpretazione di Chester Crocker dei piani per l'Africa dell'amministrazione Reagan del 1981. "Siamo in favore di mercati aperti, del libero accesso a risorse primarie, e dell'espansione delle economie statunitense ed africana," e vogliamo portare i paesi africani "nel circolo delle economie di libero mercato." La dichiarazione potrebbe sembrare piuttosto cinica, provenendo dai leader del "sostenuto assalto" a "l'economia del libero mercato." Ma l'interpretazione data da Crocker non è poi così lontana dal segno, una volta filtrata attraverso il prisma delle reali dottrine economiche. I mercati aperti e l'accesso alle risorse primarie sono riservati agli investitori statunitensi ed ai loro associati locali, e le economie vanno sviluppate in un modo ben specifico, così da proteggere "la minoranza degli opulenti dalla maggioranza." Gli opulenti meritano la protezione dello stato e i sussidi pubblici. Come altro potrebbero prosperare, per il beneficio di tutti?
Per illustrare la "teoria del libero mercato realmente esistente" per mezzo di un diverso criterio di misura, si pensi che il più estensivo studio sulle multinazionali trovò che "la virtuale totalità delle più grandi aziende multinazionali ha beneficiato in maniera decisiva dell'influenza di politiche governative e/o barriere protezionistiche," e "almeno 20 delle aziende che fanno parte delle Fortune 100 del 1993 non avrebbero sopravvissuto se non fossero state soccorse dai rispettivi governi," socializzando le perdite, o semplicemente passando sotto il controllo governativo. Una di tali aziende è il maggiore datore di lavoro nel conservatore distretto elettorale di Gingrich, la Lockeed, salvata dal crollo da un prestito garantito dal governo di 2 miliardi di dollari. Lo stesso studio rimarca che l'intervento statale, "che è stato la regola più che l'eccezione negli ultimi due secoli, ... ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo e la diffusione di numerosi prodotti e tecnologie (in special modo il settore aerospaziale, l'elettronica, le moderne tecnologie agricole, il trasporto e l'energia," come pure le telecomunicazioni e l'informatica in generale (la rete Internet e la World Wide Web sono due esempi recenti) e, in periodi passati, le industrie tessile e metallurgica, e naturalmente l'energia. Altri studi tecnici confermano tali conclusioni.
Come illustrato negli esempi precedenti, gli Stati Uniti non sono soli nella loro concezione di "libero commercio," sebbene i loro ideologhi spesso guidino il cinico coro. Il divario tra paesi ricchi e paesi poveri dagli anni 60 è da attribuire a misure protezionistiche dei ricchi, come concludeva il rapporto per lo sviluppo dell'ONU (UN Development Report) del 1992. Il rapporto del 1994 concludeva che "i paesi industrializzati, violando i principi del libero mercato, stanno costando ai paesi in via di sviluppo approssimativamente 50 miliardi di dollari all'anno quasi quanto il flusso totale di aiuti stranieri" aiuti che altro non sono se non promozioni all'export sovvenzionate dallo stato. Il Rapporto Globale dell'Organizzazione per lo Sviluppo Industriale dell'ONU del 1996 stima che il divario tra il 20% più povero ed il 20% più ricco della popolazione mondiale è aumentato del 50% tra il 1960 ed il 1989, e prevede "una crescente disuguaglianza a livello mondiale come conseguenza della globalizzazione." Tale crescente disparità si sta manifestando anche all'interno dei paesi industrializzati, con gli Stati Uniti in testa, e la Gran Bretagna non lontana. La stampa economica specializzata esulta di fronte ad una crescita dei profitti "spettacolare" e "sbalorditiva", applaudendo la straordinaria concentrazione di ricchezza in mano ad una ristretta percentuale della popolazione, mentre per la maggioranza le condizioni economiche continuano a stagnare se non a peggiorare. I *corporate media*, l'amministrazione Clinton, e in generale i sostenitori della American Way, si offrono orgogliosi come esempio al resto del mondo; sepolti nel coro di auto adulazione sono i risultati consci di politiche sociali deliberate durante il periodo che ha visto il "chiaro soggiogamento dei lavoratori da parte del capitale." Tali risultati includono ad esempio la lista di "indicatori sociali" appena pubblicata dall'UNICEF, che rivela come gli USA abbiano il peggior record tra i paesi industrializzati, trovandosi a fianco di Cuba (un misero paese del Terzo Mondo, sotto l'incessante attacco della superpotenza dell'emisfero per gli ultimi quarant'anni) rispetto ad indicatori sociali quali mortalità tra bambini sotto i cinque anni, fame, povertà infantile, e numerosi altri.
E tutto questo sta accadendo nel paese più ricco del mondo, con vantaggi incommensurabili e stabili istituzioni democratiche, ma anche, e in misura inusuale, sotto il controllo del business. Queste sono le premesse per il futuro, se la "drammatica svolta da un ideale politico pluralista e partecipativo ad un ideale autoritario e tecnocratico" procede nel giusto corso, nel mondo intero.
È bene osservare che in segreto le reali intenzioni sono spesso ammesse onestamente. Come ad esempio quando, nel primo periodo seguito alla seconda guerra mondiale, George Kennan, uno dei più influenti pianificatori e considerato un grande umanitario, assegnò ad ogni settore del mondo la sua "funzione": la funzione dell'Africa sarebbe stata di venire "sfruttata", nelle parole di Kennan, dall'Europa per la ricostruzione di quest'ultima, dato che gli Stati Uniti non avevano alcun interesse in essa. L'anno prima, un documento di pianificazione d'alto livello sottolineava come "lo sviluppo cooperativo degli alimenti a basso costo e delle materie prime del Nord Africa avrebbe potuto aiutare nel forgiare l'unità europea e nel creare la base economica per la ripresa del continente," un concetto di "cooperazione" assai peculiare. Non si ha conoscenza di documenti in cui si suggerisce lo "sfruttamento" dell'occidente da parte dell'Africa per la sua ripresa dal "migliorismo globale" dei secoli passati.
Se facciamo lo sforzo di distinguere dottrine e realtà, troviamo che i principi politici ed economici che hanno prevalso sono assai remoti dai principi proclamati. Vanno tuttavia prese con scetticismo anche le previsioni che tali principi siano "l'ondata del futuro," che porteranno la storia ad un lieto fine. La stessa "fine della storia" è stata proclamata molte volte in passato, e sempre erroneamente. E nonostante tutte le sordide continuità, un'anima ottimista penso possa realisticamente discernere un lento progresso. Nei paesi industrializzati, come pure altrove, lotte popolari possono partire da una posizione più avanzata, e con maggiori speranze di successo che in passato. E manifestazioni di solidarietà internazionale possono assumere forme nuove e più costruttive, conseguenza del fatto che la maggioranza delle popolazioni del mondo stanno capendo che i loro interessi sono molto simili e possono essere fatti progredire insieme. Non ci sono più ragioni oggi che in alcun altro periodo storico per credere che siamo vincolati da misteriose ed immutabili regole sociali anziché dalle decisioni prese nel contesto di istituzioni sotto il controllo del volere umano istituzioni umane che devono soddisfare un criterio di legittimità, e se non lo soddisfano, possono venire rimpiazzate da altre istituzioni più libere e più giuste, come è avvenuto innumerevoli volte in passato.
Gli scettici che scontano tali pensieri come utopici e naive non devono fare altro che guardare a quello che è avvenuto proprio qui (in Sud Africa, ndt) negli ultimi anni, un tributo a ciò che la forza dello spirito umano può ottenere, e alle sue illimitate potenzialità lezioni queste che il mondo ha un bisogno disperato di imparare, e che dovrebbero guidare nella continua lotta per la giustizia e la libertà anche qui, ora che il popolo del Sud Africa, dopo la grande vittoria, si trova a fronteggiare nuovi e difficili compiti.
tratto da: http://www.cs.cmu.edu/~smonti/HTML/italy-usa.html