PARTE TERZA.
LA STESSA VECCHIA STORIA.
Capitolo 6.
DIRITTI UMANI E PRAGMATISMO.
Quando le bottiglie nuove rimpiazzano le vecchie, il sapore del vino può cambiare ma, per le vittime della 'barbara ingiustizia' dei conquistatori, di rado perde il suo gusto amaro. E generalmente non ha molta importanza quale mano tenga la frusta, tranne in alcuni casi. Durante la rivoluzione americana, scrive Francis Jennings, gran parte della popolazione indigena, essendosi resa conto di quel che sarebbe successo se avessero vinto i coloni ribelli, "fu alla fine spinta dalle circostanze a combattere per il suo 'antico protettore e amico' il re d'Inghilterra". Lo stesso accadde con la popolazione nera, la cui decisione in merito venne rafforzata sia dall'editto britannico per l'emancipazione del 1775, in cui si prometteva la liberazione di "tutti i servitori indebitati [con i loro padroni, N.d.C.], Negri o altri... capaci e volenterosi di portare le armi", sia dal fatto che la condanna della tratta degli schiavi venne cancellata dalla Dichiarazione d'Indipendenza americana "per compiacenza verso la Carolina del Sud e la Georgia" (Thomas Jefferson). Persino i lavoratori dipendenti erano considerati dai ribelli americani alla stregua di semplici beni mobili. I comitati locali per l'arruolamento si opposero così persino a concedere loro il permesso di andare volontari nell'esercito di George Washington perché "tutti gli apprendisti ed i servi sono di proprietà dei loro padroni e padrone, ed il privare in qualsiasi modo i padroni e le padrone delle loro proprietà è una violazione dei diritti dell'uomo, contraria al... Congresso Continentale, ed un'offesa contro la pace della brava gente di questo stato" (Pennsylvania); un'indicazione questa, osserva Richard Morris, di "come i padroni patriottici si potessero sentire di fronte al fervore rivoluzionario dei loro dipendenti".
Come già Samuel Johnson, anche gli schiavi poterono notare - commenta il giudice federale Leon Higginbotham - "come le più alte grida inneggianti alla libertà provenissero dai negrieri", inclusi coloro che consigliavano agli schiavi di "essere soddisfatti della loro condizione, e che ne avrebbero avuta una migliore nell'altro mondo". Tra l'enorme massa di profughi che scappavano per paura dei ribelli, inclusi molti 'boat people', la cui misera sorte non è mai entrata nella storia, vi erano migliaia di neri che fuggivano "verso la libertà in Gran Bretagna, nelle Indie Occidentali, in Canada e, in seguito, in Africa" (Ira Berlin). La popolazione indigena aveva capito bene quel che aveva in mente Alexander Hamilton quando scrisse, nel "Federalist Paper": "Dovremmo considerare le tribù selvagge sulla nostra frontiera occidentale come i nostri nemici naturali", e come alleati naturali degli europei, "perché hanno molto da temere da noi e molto da sperare da loro". Le loro maggiori paure furono così presto confermate (1).
La storia dell'America Latina conferma la persistenza di alcuni temi dominanti nella politica estera Usa e nel più ampio quadro della Conquista. Il 'liberatore' Simòn Bolivar, nel 1822, aveva già previsto il più serio tra i tanti problemi dell'America Latina dalla sconfitta del dominio spagnolo in poi: "C'è a capo di questo grande continente un paese molto potente, molto ricco e molto bellicoso, capace di qualsiasi cosa". "Nell'Inghilterra", osserva Piero Gleijeses, "Bolivar vedeva un protettore; negli Stati Uniti, una minaccia". Questo era naturale, date le realtà geopolitiche (2).
La Gran Bretagna del resto aveva ottime ragioni per contenere il nuovo e aggressivo paese d'oltreoceano. Per quanto riguardava i Caraibi, il ministro degli Esteri George Canning fece notare nel 1822 che "il possesso degli Stati Uniti di entrambe le sponde del Canale, attraverso cui deve transitare il nostro commercio giamaicano, significherebbe la sospensione di quei traffici, e ne conseguirebbe una rovina completa". Come detto prima, i democratici jacksoniani avevano l'intenzione non solo di soffocare e controllare l'Inghilterra, ma anche di "mettere ogni nazione ai nostri piedi" e "controllare il commercio del mondo" (3).
In questo quadro gli Stati Uniti non vedevano di buon occhio l'indipendenza delle colonie spagnole. "All'epoca, nei dibattiti al Congresso", nota Gleijeses, "c'era molto più entusiasmo per la causa dei greci che per quella degli spagnoli americani". Ciò anche perché i latinoamericani "erano di dubbia bianchezza", nel migliore dei casi venivano da "una stirpe spagnola degradata", a differenza dei greci, ai quali era assegnato un ruolo speciale come "giganti ariani che crearono la civiltà", secondo gli studiosi razzisti europei (4). Un altro motivo della freddezza americana verso l'indipendenza delle colonie spagnole era costituito dal fatto che, a differenza dei Padri Fondatori, Bolivar aveva liberato i suoi schiavi, rivelandosi come una 'mela marcia' in grado di rovinare l'intero cesto delle Americhe.
Una ragione ancor più di fondo emerge dagli articoli delle principali riviste intellettuali del periodo secondo le quali "l'America del Sud sarà per il Nordamerica... ciò che l'Asia e l'Africa sono per l'Europa" - in altre parole il nostro Terzo Mondo. Un'idea questa rimasta in auge sino ad oggi. Nel commentare gli sforzi del segretario di Stato Usa, James Baker, per intensificare "la cooperazione regionale", la corrispondente del "Times" Barbara Crossette rileva "la presa di coscienza negli Stati Uniti e in tutto l'emisfero che il miglior modo di affrontare i blocchi commerciali europei ed asiatici è quello di istituire una vasta zona di libero scambio da questa parte del mondo" - una 'presa di coscienza' dei settori che secondo il metro di giudizio del "Times", contano di più; altri nutrono invece forti dubbi su quel progetto ideato nell'interesse dei padroni. La stessa Banca Mondiale non è poi così ottimista sulle prospettive di quel piano. Una relazione del 1992 sostiene che gli Usa guadagneranno dagli accordi di libero scambio assai più dell'America Latina, ad eccezione del Messico e del Brasile (per essere esatti dei settori di quei paesi legati al capitale internazionale), e che la regione nel suo complesso trarrebbe invece vantaggio da un'unione doganale interna, secondo il modello della Cee, con una politica tariffaria comune verso l'esterno che escluda gli Usa; un'ipotesi non certo in agenda (5).
Nel corso del diciannovesimo secolo, il deterrente inglese impedì la dominazione da parte degli Usa dell'intero emisfero. Ma l'idea della "nostra confederazione" come "il nido, dal quale tutta l'America, Nord e Sud, sarà popolata" (Thomas Jefferson) era molto radicata ed aveva come corollario il mantenimento della dominazione spagnola sull'America Latina fintanto che "la nostra popolazione non sarà in grado di poterla conquistare pezzo per pezzo" (6).
Sulla questione vi erano però negli Stati Uniti non pochi conflitti di interessi. I mercanti americani, nota Gleijeses, "erano desiderosi di contribuire alla causa della libertà - fintanto che i ribelli potevano pagare, preferibilmente in contanti". Inoltre, grazie all'antica tradizione americana della pirateria, vi era un gran numero di proprietari di navi e di marinai (anche inglesi) disposti a offrire i loro servigi, a livello 'personale', per attaccare la marina commerciale spagnola; anche se poi l'allargamento dei loro obiettivi terroristici alle navi americane suscitò l'indignazione dell'opinione pubblica e la repressione da parte del governo. A parte l'Inghilterra, anche la libera Haiti diede il suo aiuto alla causa dell'indipendenza dell'America Latina, ma a condizione che gli schiavi fossero liberati. Anche Haiti era quindi una pericolosa mela marcia che sarebbe stata punita per la sua indipendenza, come vedremo nel cap. 8.
Il concetto di 'panamericanismo' promosso da Bolivar era diametralmente opposto alla contemporanea Dottrina Monroe. Un ufficiale inglese scrisse nel 1916 che Bolivar, nel dar vita all'idea del panamericanismo, "non avrebbe certo pensato che si sarebbe realizzato sotto l'egida degli Stati Uniti". Alla fine, commenta Gleijeses, vi fu invece "la vittoria di Monroe e la sconfitta di Bolivar".
Una singolare costante della politica estera Usa è l'importanza sin da allora attribuita al 'problema' cubano. Gli Usa erano fermamente contrari al'indipendenza di Cuba, "situata in una posizione strategica e ricca di zucchero e schiavi" (Gleijeses). Jefferson consigliò così al presidente Madison di offrire a Napoleone il via libera nell'America spagnola in cambio di Cuba. E di nuovo, nel 1823, scrisse al presidente Monroe che gli Usa non dovevano fare alcuna guerra per Cuba dal momento che "o ci sarà data in occasione del primo conflitto al quale parteciperemo per altri motivi, oppure l'isola verrà spontaneamente a noi appena le sarà possibile". Secondo il segretario di Stato americano, John Quincy Adams, Cuba era "un obiettivo della massima importanza per gli interessi commerciali e politici della nostra Unione" e per questa ragione anche lui raccomandava il mantenimento della dominazione spagnola finché Cuba non fosse caduta nelle mani degli Usa secondo "le leggi della gravità politica", come un 'frutto maturo' da cogliere. Il sostegno al dominio spagnolo sull'isola era quasi unanime nell'esecutivo e nel Congresso e venne chiesto alle potenze europee, alla Colombia ed al Messico di dare il loro contributo per impedire la liberazione di Cuba. Una delle maggiori preoccupazioni per gli Usa era costituita dalle tendenze democratiche del movimento indipendentista cubano che sosteneva l'abolizione della schiavitù e la parità dei diritti tra i cittadini. Vi era di nuovo il pericolo che "il marciume si potesse estendere" a poche miglia dalle nostre coste (7).
Alla fine dell'800, gli Usa erano ormai abbastanza potenti da poter ignorare il deterrente britannico e conquistare Cuba, giusto in tempo per impedire la vittoria della lotta di liberazione della popolazione locale. Quindi le dottrine ufficiali si dettero da fare per giustificare quella politica che ridusse nuovamente Cuba alla condizione di semi-colonia. La popolazione dell'isola, scriveva la stampa di New York, era composta da "negri ignoranti, mezzosangue e bastardi latini"; "un mucchio di degenerati... non certo in grado di autogovernarsi meglio dei selvaggi africani", aggiungevano i rapporti del comando militare Usa. Gli Stati Uniti imposero a Cuba il dominio delle classi bianche proprietarie, che non avevano per la testa strane idee di democrazia, libertà, uguaglianza e che quindi non erano 'degenerate'. Il 'frutto maturo' fu convertito in una piantagione Usa, ponendo fine ad ogni prospettiva di sviluppo economico indipendente (8).
Quando, dopo una generazione, il dominio politico ed economico Usa fu ben solido, il presidente Franklin Delano Roosevelt lanciò la sua 'politica del buon vicinato'; le forze di mercato, se raggiungono il loro scopo, sono il mezzo di controllo più efficace sugli altri paesi. Ma prima, consigliò l'ambasciatore Usa Sumner Welles, era necessario rovesciare il governo del Dott. Ramòn Grau San Martìn, che poteva costituire una minaccia per gli "interessi del commercio e dell'export [Usa] a Cuba". L'importante esperto dell'America Latina, Welles, era particolarmente turbato dal fatto che i lavoratori cubani avevano occupato gli stabilimenti per la lavorazione dello zucchero e vi avevano creato quello che lui definiva un "governo sovietico". Non può esservi "fiducia nelle politiche né nella stabilità di questo regime", informò il segretario di Stato Cordell Hull, aggiungendo poi che gli Stati Uniti "avrebbero dato il benvenuto a qualsiasi nuovo governo che rappresenti la volontà del popolo della Repubblica e che sia capace di mantenere l'ordine e la legge in tutta l'isola" - ma non il governo Grau. Welles ammise sì che in quel periodo a Cuba l'ordine e la legge erano garantite dalle autorità, ma a suo parere si sarebbe trattato di una stabilità apparente niente più della "quiete della paura". In altri termini, aggiunse il consigliere al Dipartimento di Stato Adolf Berle, vi era a Cuba una situazione di "anarchia passiva", altra espressione che non stonerebbe accanto a quella di 'illogicità logica'.
Il presidente Roosevelt dichiarò quindi alla stampa che Grau era sostenuto solamente dal "suo esercito locale" di 1500 uomini e da "gruppi di studenti", e quindi si trattava di un governo senza alcuna legittimità. Il successore di Welles, Jefferson Caffery, testimoniò in seguito della "impopolarità tra le classi superiori del paese del governo "de facto" [di Grau]", che era "appoggiato solo dall'esercito e dalle masse ignoranti". Quando il governo filoamericano di Mendieta, succeduto a Grau, trovò non poche difficoltà nel sottomettere la popolazione, Caffery precisò che "le masse ignoranti di Cuba sono molto numerose".
Il rifiuto di Roosevelt di riconoscere il governo Grau, rileva David Green, "significò in pratica lo strangolamento economico dell'isola" "dato che gli Usa non avrebbero mai negoziato un nuovo accordo per l'acquisto dello zucchero con un governo che non riconoscevano", e l'economia dell'isola, così dipendente, non poteva sopravvivere senza quell'intesa. Il capo di Stato Maggiore Fulgencio Batista recepì il messaggio, e scese in campo a fianco del leader dell'opposizione Carlos Mendieta, che sostituì Grau al potere e fu immediatamente riconosciuto da Washington. Le relazioni tra i due paesi vennero subito reimpostate, con il risultato che Cuba, come notò un membro della Commissione Usa per le Tariffe Doganali, fu ancor più incorporata "all'interno del sistema protezionista degli Stati Uniti". Gli Usa assunsero un reale controllo sugli affari cubani, conservando intatta la struttura sociale dell'isola, molto stratificata e repressiva, ed il ruolo dominante delle imprese straniere (9).
La dittatura di Batista che prese il potere alcuni anni più tardi servì ammirevolmente gli 'interessi del commercio e dell'export' Usa, e quindi godette del pieno sostegno di Washington.
Il rovesciamento della dittatura da parte di Fidel Castro, nel gennaio del 1959, provocò subito l'ostilità statunitense ed un ritorno ai metodi tradizionali della politica estera Usa. Alla fine del 1959, la Cia ed il Dipartimento di Stato decisero che Castro doveva essere rovesciato. Una delle ragioni, spiegarono i liberali del Dipartimento di Stato, era che "i nostri interessi commerciali a Cuba sono stati seriamente compromessi". Un'altra motivazione era l'effetto 'mela marcia' che Cuba poteva avere: "Gli Stati Uniti non possono incoraggiare e sostenere valide politiche economiche negli altri paesi latinoamericani e promuovere i necessari investimenti privati nell'America Latina se, allo stesso tempo, cooperano o sembrano cooperare con il progetto di Castro", concluse il Dipartimento di Stato nel novembre del 1959. Ma venne aggiunta una condizione: "Dato il forte, anche se in diminuzione, sostegno popolare di cui gode Castro a Cuba, è estremamente importante che il governo degli Stati Uniti non prenda apertamente iniziative che poi potranno procurargli accuse di aver causato il suo fallimento o la sua caduta".
Per quanto riguarda il sostegno a Castro, sondaggi di opinione forniti alla Casa Bianca, nell'aprile del 1960, concludevano che la maggior parte dei cittadini erano ottimisti sul futuro e appoggiavano il leader cubano, mentre solo il 7% aveva espresso preoccupazioni sul comunismo e solo il 2% sulla mancanza di elezioni. Inoltre l'influenza sovietica risultava essere pressoché nulla. Negli Stati Uniti, osserva Jules Benjamin: "I liberal, come i conservatori, videro in Castro una minaccia per l'intero emisfero, anche se non lo consideravano una componente della congiura comunista mondiale".
Dall'ottobre del 1959, aerei partiti dalle basi in Florida bombardarono e mitragliarono il territorio cubano. A dicembre, la Cia intensificò la campagna di destabilizzazione con rifornimenti di armi a gruppi di guerriglia, sabotaggio degli zuccherifici e di altri obiettivi economici. Nel marzo del 1960, l'amministrazione Eisenhower adottò formalmente un piano per rovesciare Castro e portare al potere un regime "che si occupasse maggiormente dei reali interessi del popolo cubano e che fosse più accettabile per gli Usa" - per loro si trattava della stessa cosa - sottolineando di nuovo che tutto doveva essere fatto "in modo tale da evitare che sembrasse un intervento degli Stati Uniti".
L'amministrazione Kennedy, da parte sua, accanto a quella guerra economica che nessun piccolo paese può sopportare a lungo, intensificò le operazioni di sabotaggio, gli attacchi terroristici e le altre forme di aggressione. La dipendenza di Cuba dagli Usa per le esportazioni e le importazioni naturalmente era sempre stata schiacciante e non poteva essere ridotta senza pagare altissimi costi. I 'nuovi frontieristi' (i seguaci della nuova frontiera kennediana) furono ossessionati da Cuba fin dal primo momento. Durante la campagna presidenziale del 1960, Kennedy aveva accusato Nixon ed Eisenhower di mettere in pericolo la sicurezza Usa permettendo "l'esistenza della cortina di ferro... a novanta miglia dalla costa degli Stati Uniti". "Eravamo isterici riguardo a Castro all'epoca della Baia dei Porci [aprile del 1961], ed anche dopo", testimoniò più tardi il segretario della Difesa Robert McNamara davanti al Comitato Church. Alcuni giorni prima della decisione di invadere Cuba, Arthur Schlesinger ammonì il Presidente che se gli Usa avessero tollerato "un'altra Cuba", "la partita si sarebbe allargata a gran parte dell'America Latina"; Kennedy decise che non era il caso di tollerarne neanche una. Gran parte della politica estera della sua amministrazione in America Latina fu ispirata dal timore che il 'virus' cubano infettasse altri paesi e limitasse l'egemonia Usa nella regione.
Alla prima riunione di gabinetto dopo la fallita invasione di Cuba alla Baia dei Porci, si respirava un clima "quasi furibondo", notò privatamente Chester Bowles. "Vi era un'atmosfera di frenetica attesa per nuove iniziative" contro Cuba. L'atteggiamento ufficiale del Presidente non era meno bellicoso: "Le società soddisfatte, indulgenti verso sé stesse ed arrendevoli, stanno per essere spazzate via insieme ai detriti della storia. Solo i forti... hanno la possibilità di sopravvivere", disse al paese. Kennedy ruppe così tutti i rapporti diplomatici, commerciali e finanziari con Cuba, assestando un terribile colpo all'economia dell'isola, così dipendente dagli Usa in seguito alla precedente dominazione americana. Il Presidente riuscì anche ad isolare Cuba diplomaticamente, ma non ebbe successo nei suoi sforzi per organizzare, nel 1961, un'azione collettiva contro l'isola forse perché, come notò un diplomatico messicano: "Se dovessimo dichiarare pubblicamente che Cuba è un pericolo alla nostra sicurezza, faremmo morire dal ridere quaranta milioni di messicani". Per fortuna, gli intellettuali statunitensi erano capaci di una valutazione più ponderata della minaccia rappresentata da Cuba per la sopravvivenza del 'mondo libero' (10).
In teoria medicine e generi alimentari erano esenti dall'embargo ma, nonostante ciò, gli Stati Uniti negarono a Cuba quei generi di prima necessità dopo che il ciclone Flora, nell'ottobre 1963, seminò morte e distruzione sull'isola caraibica. Nulla di nuovo. Basti ricordare il rifiuto di Carter di dare assistenza ai paesi delle Indie Occidentali colpiti dall'uragano, nell'agosto del 1980, a meno che non fosse stata esclusa Grenada (quei governi respinsero il ricatto e non ricevettero alcun aiuto). Oppure si pensi alla reazione del governo Usa quando il Nicaragua fu accidentalmente devastato da un uragano nell'ottobre del 1988. Washington poté nascondere a malapena la sua gioia di fronte all'auspicata prospettiva di una diffusa carestia e di enormi danni ecologici per il paese centroamericano e, naturalmente, si rifiutò di inviare alcun aiuto, persino alla semidistrutta costa atlantica che aveva legami di lunga data con gli Usa e che nutriva un profondo rancore contro i sandinisti: anche quella gente doveva morire di fame tra le rovine delle sue capanne, per soddisfare la nostra brama di sangue. Gli alleati degli Usa pavidamente obbedirono agli ordini, giustificando la loro vigliaccheria con le usuali solite ipocrite scuse. Per dimostrare come il suo malanimo sia veramente imparziale, Washington si comportò nello stesso modo quando, nel settembre del 1992, dopo la caduta dei sandinisti, una mareggiata distrusse i villaggi dei pescatori sulla costa del Nicaragua lasciando dietro di sé centinaia di morti e di scomparsi. Il "New York Times" titolò: "Gli Usa mandano aiuti in Nicaragua mentre i morti salgono a 116". "I governi stranieri, inclusi gli Stati Uniti, hanno risposto oggi agli appelli inviando immediati soccorsi per i sopravvissuti", scrisse l'incompetente giornalista del "Times", mentre Washington annunciava "che a causa del disastro metteva immediatamente a disposizione 5 milioni di dollari". Quanta nobiltà. Solo alla fine dell'articolo, tra le righe, si capiva che i 5 milioni di dollari provenivano da un pacchetto di aiuti già decisi, ma non ancora erogati - il governo rassicurò inoltre il Congresso che quei fondi non facevano parte dei 100 milioni di dollari di aiuti che l'Amministrazione aveva bloccato perché il nuovo governo del Nicaragua non era ancora abbastanza ossequioso ai suoi desideri. Gli aiuti umanitari raggiunsero così l'impressionante cifra di 25 mila dollari (circa 40 milioni di lire, N.d.C.) (11).Qualsiasi arma, per quanto crudele, può essere usata contro chi si macchia del delitto di voler essere indipendente. E, soprattutto, non deve mai mancare una ossequiosa autoadulazione. "C'è mancato poco", scrisse una volta Mark Twain. "Se fossero state create prima le pecore, l'uomo sarebbe potuto essere un plagio" (12).
L'amministrazione Usa, temendo l'effetto 'mela marcia', tentò anche di imporre a Cuba una quarantena culturale per impedire la libera circolazione di idee ed informazioni con gli altri paesi latinoamericani. Nel marzo del 1963, J. F. Kennedy nel corso di un vertice con sette presidenti centroamericani raggiunse con loro un accordo al fine "di elaborare ed attuare immediatamente misure comuni per limitare i movimenti dei cittadini sovversivi da e per Cuba, ed il flusso di materiali, propaganda e fondi da quel paese". I liberal kennediani furono sempre molto turbati sia per la riluttanza dei governi latinoamericani ad imitare i controlli Usa sui viaggi e sugli scambi culturali con Cuba (a causa dei loro sistemi giuridici garantisti, che richiedevano le prove dei delitti commessi dai presunti 'sovversivi'), sia in generale per il loro eccessivo liberalismo (13).
Immediatamente dopo il fallimento dell'invasione alla Baia dei Porci, il presidente Kennedy dette il via ad un vasto programma di azioni terroristiche su scala internazionale per rovesciare il regime cubano. Queste atrocità sono generalmente trascurate in Occidente, salvo per qualche riferimento ai tentativi di assassinare Fidel Castro, uno dei quali fu attuato proprio lo stesso giorno dell'attentato a Kennedy. Le operazioni terroristiche contro Cuba vennero sospese ufficialmente da Lyndon Johnson. In realtà continuarono e, anzi, sotto Nixon si intensificarono. Successive azioni furono attribuite, non sappiamo quanto esattamente, a dei rinnegati sfuggiti al controllo della Cia; Roswell Gilpatric, un alto funzionario del Pentagono in servizio durante le amministrazioni Kennedy e Johnson, ha espresso alcuni dubbi a questo proposito. Inoltre l'amministrazione Carter, con l'avallo dei tribunali Usa, condonò i dirottamenti delle navi cubane in violazione di quella convenzione antiterrorismo che Castro stava invece rispettando. Da parte loro, i reaganiani respinsero le proposte cubane per un accordo diplomatico e imposero nuove sanzioni con i pretesti più bizzarri, spesso mentendo clamorosamente; una vicenda esaminata più volte da Wayne Smith dimessosi per protesta dalla Sezione per gli Interessi Usa all'Avana (14).
Dal punto di vista cubano, gli attacchi terroristici kennediani sembrarono essere il preludio di un'invasione. La Cia, nel settembre del 1962, giunse alla conclusione - prima che a metà ottobre fossero scoperti i missili russi - che "l'obiettivo principale dell'attuale riarmo [sovietico] a Cuba è quello di rafforzare il regime comunista contro quello che i cubani ed i sovietici pensano sia il pericolo di un possibile tentativo Usa di rovesciarlo in un modo o nell'altro". Nei primi giorni di ottobre, il Dipartimento di Stato confermò questo giudizio, come in seguito avrebbe fatto di nuovo con un altro suo documento. Possiamo solo immaginare quanto reali fossero queste paure.
Interessante, in questa congiuntura, è la reazione di Robert McNamara all'affermazione di Andrei Gromyko che i missili sovietici furono mandati nell'isola "per rafforzare la capacità difensiva di Cuba - tutto qui". McNamara ammise: "Se fossi stato un funzionario cubano o sovietico, credo che sarei stato d'accordo con il giudizio da voi espresso su una probabile invasione Usa" (un punto di vista che a suo parere era inesatto). McNamara aggiunse poi che le possibilità di una guerra nucleare dopo un'invasione Usa erano circa del "99%". Un attacco di questo tipo fu spaventosamente possibile quando Kennedy rifiutò l'offerta di Krusciov di un ritiro bilaterale dei missili da Cuba e dalla Turchia (questi ultimi obsoleti, già destinati al ritiro). In effetti, l'Avana stessa avrebbe potuto iniziare una guerra nucleare quando, in uno dei momenti più tesi della crisi, un'unità terroristica Usa (Mangusta) fece esplodere una fabbrica, uccidendo secondo Castro 400 persone (15).
Il piano, del marzo del 1960, per rovesciare Castro a favore di un regime "che si occupi maggiormente dei reali interessi del popolo cubano e che sia più accettabile per gli Usa" è tuttora valido e gli Usa, forti dell'esperienza di 170 anni, portano avanti il loro venerando compito di impedire l'indipendenza dell'isola caraibica. Sempre valida inoltre è la direttiva di Eisenhower secondo la quale il delitto deve essere perpetrato "in maniera da evitare qualsiasi impressione di un intervento Usa". A questo scopo le istituzioni ideologiche devono occultare questa lunga storia di aggressioni, attacchi terroristici, strangolamenti economici e tutti gli altri metodi impiegati dal Signore dell'emisfero votato a realizzare i 'veri interessi del popolo cubano'.
Quella direttiva è stata applicata con una diligenza forse anche eccessiva. In ambienti accademici rispettabili, il terrorismo Usa contro Cuba è stato cancellato dalla documentazione storica con una manifestazione di servilismo al potere che impressionerebbe anche un convinto sostenitore del totalitarismo. Nei media, la penosa situazione di Cuba viene regolarmente attribuita al demone Castro e al 'socialismo cubano'. Il leader cubano è interamente responsabile della "povertà, dell'isolamento e dell'umiliante dipendenza" dall'Urss, ci informano gli editorialisti del "New York Times", concludendo poi trionfalmente che "il dittatore cubano si è messo in un vicolo cieco", e senza alcun nostro intervento. Tutto ciò è diventato vero in virtù delle necessità della ideologia ufficiale del sistema, la massima autorità in materia di media. Secondo i giornalisti Washington non dovrebbe intervenire direttamente, come hanno proposto alcuni 'combattenti Usa della guerra fredda': "Il regno di Fidel Castro merita di finire per un crollo interno, non con un martirio". Spingendosi verso posizioni pacifiste estreme, i direttori dei giornali ci consigliano di continuare a rimanere apparentemente in disparte, osservando in silenzio, come abbiamo fatto da trent'anni a questa parte, in modo che il lettore ingenuo possa trarre utili lezioni da questa (abbastanza tipica) versione della storia, modellata per soddisfare le esigenze del potere Usa.I notiziari solitamente osservano le stesse regole. Cuba è un caso disperato, scrive dai Caraibi il corrispondente del "Times" Howard French, "una stranezza comunista in un mondo sempre più dedito al libero mercato", "un vicolo cieco comunista" che lotta invano contro le "realtà economiche". Queste 'realtà,' ci è dato di capire, sono i fallimenti della sterile dottrina comunista, indipendentemente dal terrorismo Usa e dalla guerra economica. Sul primo si sorvola. La seconda viene menzionata, ma solo per porre un problema tattico: dobbiamo decidere se stringere l'embargo, oppure se mantenerlo com'è oggi, nella convinzione che le 'realtà economiche' da sole spingeranno "inesorabilmente verso una trasformazione drammatica" della realtà di Cuba. Qualsiasi opinione al di fuori di questi parametri è una "stranezza", che non può essere sostenuta da un giornalista serio che opera nel libero mercato delle idee.
L'esperta sull'America Latina del "Boston Globe", Pamela Constable, segue la stessa strada. In una recensione del libro "L'ultima ora di Castro" del corrispondente del "Miami Herald" Andres Oppenheimer, Constable spiega che l'autore è "lungi dall'essere un anticomunista fanatico, ma le sue credenziali di esperto giornalista osservatore dell'America Latina fanno del suo [libro], una assai convincente ed inflessibile denuncia dei meccanismi cinici ed ossessivi del vecchio regime socialista di Castro". L'autore descrive Cuba come "una classica dittatura al tramonto, dominata da un uomo i cui ideali hanno ceduto da tempo alla dura logica del potere", "aggrappato ad un sistema fallito con una forte ma fatale determinazione". Con dettagli 'tragicomici', Oppenheimer dimostra che la "vita per il cubano medio è diventata una continua sfida alle sventure ed alle assurdità", e la Constable lo racconta con gran divertimento. "Oppenheimer non ha dubbi che, al pari di altri messianici tiranni, Castro ha piantato i semi della propria distruzione". Le parole 'Stati Uniti' non appaiono; non c'è alcun riferimento a qualsivoglia contributo dato dagli Usa ad eventi come le 'comiche' sofferenze del cubano medio, al 'fallimento del sistema' o alla folle corsa autodistruttiva di Castro. La 'dura logica del potere' è un fatto del tutto naturale, che non provoca quella passione suscitata invece dalla presunta natura malvagia di Castro.
Le norme sono universali, Cuba è l'eccezione. Esaminando il terribile declino del Nicaragua dopo l'ascesa al potere del governo appoggiato dagli Stati Uniti, Constable scrive che "i problemi alla base del disastro nel quale si dibatte questa povera nazione tropicale sono due": "la permanente ostilità" tra i sandinisti e la destra, e la corruzione. Possono forse le campagne terroristiche di una superpotenza aver avuto qualche marginale effetto sul disastro di una "economia socialista" e sui successivi tentativi (Usa) di riportare il paese alle glorie del passato? Un'ipotesi questa che non può essere espressa, né forse pensata, anche tra i dissidenti della cultura di regime.
Una recensione dello stesso libro, scritta da Clifford Krauss, apparve sul "New York Times". Ancora una volta, la situazione di Cuba viene attribuita ai delitti ed alle follie di un solo demone. Agli Usa allude, indirettamente, una sola frase: Castro (non Cuba) "è sopravvissuto ad una serie di calamità come la crisi dei missili, l'embargo, l'esodo dei "marielitos", il ripetersi di raccolti insoddisfacenti e gli infiniti razionamenti". E questo esaurisce il ruolo giocato dagli americani. Oppenheimer viene elogiato perché descrive il travaglio di Cuba con "intuizione ed umorismo" - incredibile quanto sia divertente veder soffrire le nostre vittime - ma principalmente per aver scoperto iniquità fino adesso impensate. Insaziabile nella sua brama di potere ed amore per la violenza, Castro ha mandato 'esperti ufficiali' per addestrare i nicaraguensi nella resistenza ai gruppi terroristici che, su comando degli Usa, partivano dalle loro basi nell'Honduras con l'ordine di attaccare 'obiettivi facili' come le cliniche e le cooperative agricole (in quest'ultimo caso, con l'esplicita approvazione del Dipartimento di Stato e dell'opinione liberal e di sinistra). Castro, il mostro, avrebbe persino preso in considerazione l'ipotesi di una rappresaglia "nel caso che gli Stati Uniti sotto Ronald Reagan invadessero il Nicaragua", ed era "molto più coinvolto di quanto credessimo" nei rifornimenti all'esercito panamense "in vista dell'invasione degli Stati Uniti".
Ma vi è ancora dell'altro per convincere coloro che credono vi siano dei limiti a quel che una mente criminale può escogitare: "Il signor Castro, inviando soldati cubani in Angola per appoggiare il governo marxista, ha ostacolato i negoziati per un accordo che ponesse fine alla guerra civile di quel paese negli anni '80". Gli esperti che rimpiangono la "Pravda" dei bei vecchi tempi, ne avranno riconosciuto lo stile in questo rovesciamento della realtà operato dal "Times" a proposito del sostegno di Cuba ad un governo riconosciuto praticamente da tutti tranne che dagli Usa, e del successo dell'Avana nel respingere l'invasione statunitense-sudafricana dell'Angola. Un evento che creò così le condizioni per quell'accordo negoziato che Washington immediatamente tentò di silurare continuando ad appoggiare i suoi beniamini, i terroristi dell'"Unita", per far sì che la guerra, in cui centinaia di migliaia di persone avevano già perso la vita e che aveva distrutto il paese, avrebbe lasciato quel che resta dell'Angola nelle mani del Sudafrica e degli investitori occidentali (16).
Qualunque cosa si pensi di Cuba, tali deformazioni della realtà operate dai media forniscono un'illuminante "denuncia dei meccanismi cinici ed ossessivi" di un sistema propagandistico, dalla disarmante prevedibilità, diretto da una classe intellettuale caratterizzata da un'impressionante vigliaccheria morale. Poco è cambiato dai giorni in cui, sessant'anni fa, gli editorialisti del "New York Times" celebravano i fasti della nostra presenza nei Caraibi, dove agivamo con "le migliori intenzioni del mondo" mentre i marines inseguivano "l'inafferrabile bandito Sandino" tra gli applausi dei nicaraguensi, contrariamente a quanto lamentano i "liberal di professione" - anche se sfortunatamente, scrivevano i giornali, il conflitto "viene proprio nel momento in cui il Dipartimento di Stato sta diffondendo la grazia, la misericordia e la pace nel mondo intero". A Cuba, fummo allora in grado di "salvare i cubani da loro stessi ed istruirli nell'autogoverno", cedendo loro "una indipendenza, limitata solo dal protettivo emendamento Platt" - che "tutelava" le società Usa ed i loro alleati locali. "Cuba è molto vicina ed a portata di mano", sostenevano gli editorialisti del "Times", "per negare" l'esistenza di una "minaccia da parte dell'imperialismo americano": e noi siamo stati "chiamati" dal popolo cubano che ha, finalmente, "imparato il segreto della stabilità" sotto la nostra discreta tutela. E se "i nostri interessi commerciali nell'isola non hanno certo sofferto", "in realtà abbiamo prosperato insieme al libero popolo cubano", così che "nessuno a Cuba parla di imperialismo americano" (17).
Molti commentatori mostrano una grande angustia per i delitti e gli abusi di Castro. Fossero almeno credibili. In realtà i fatti dimostrano che nella maggior parte dei casi si tratta di puro cinismo. Ciò è evidente se paragoniamo le sdegnate reazioni per le violazioni dei diritti umani a Cuba con la prassi di ignorare, o persino nascondere, atrocità ben più gravi commesse proprio dietro l'angolo dai paesi satelliti degli Usa, con l'appoggio ed i consigli americani. La storia ci fornisce a questo riguardo rilevanti esempi (18).
La dichiarata preoccupazione per i "veri interessi del popolo cubano" e per la "democrazia" non deve certo sviarci. Ben più sincera, invece, la sollecitudine verso i 'veri interessi' economici americani. Lo stesso vale per la presunta sollecitudine nei confronti dell'opinione pubblica a Cuba e nell'America Latina. Kennedy sapeva quello che faceva quando tentò di bloccare i viaggi e le comunicazioni da e per Cuba. Timori, questi, comprensibili alla luce dei già citati sondaggi d'opinione effettuati nell'isola, o della reazione popolare alla Legge di Riforma Agraria del maggio 1959, salutata da un'organizzazione dell'Onu come un "esempio da seguire" in tutta l'America Latina. Oppure alla luce di quanto sostenuto nel 1980 da un rappresentante sull'isola caraibica dell'Organizzazione Mondiale per la Sanità secondo il quale "senza dubbio Cuba può vantare le migliori statistiche sanitarie dell'America Latina", con un'organizzazione sanitaria "tipica di un paese molto più sviluppato", e questo malgrado la sua povertà. O del rapporto Unicef sulle "Condizioni dei bambini nel mondo nel 1990", recensito in una rivista della chiesa peruviana, che cita una lunga serie di paesi latinoamericani tra quelli con la più alta mortalità infantile del mondo, anche se Costa Rica e Cile hanno indici relativamente bassi per la regione mentre "Cuba è l'unico paese alla pari con le nazioni sviluppate". Timori giustificati, quelli americani, anche alla luce dell'interesse del Brasile e di altri paesi latinoamericani per la biotecnologia cubana, insolito, se non unico, caso del genere per un paese piccolo e povero. Oppure del tipo di dibattiti che possiamo leggere nella stampa australiana, lontana e quindi poco pericolosa, a proposito degli sforzi per raggiungere "l'obiettivo storico strategico" di reintegrare Cuba "nella sfera d'influenza di Washington":
"Che Cuba sia sopravvissuta in queste circostanze è di per sé un trionfo. Che, nel periodo 1981-1990, abbia registrato il più alto aumento del prodotto sociale lordo pro capite (salari e indennità) rispetto a qualsiasi economia dell'America Latina - e quasi il doppio del paese che la segue nella classifica - è veramente straordinario. Inoltre, malgrado le difficoltà economiche il cubano medio ha alimentazione, casa, istruzione e servizi sanitari migliori degli altri latinoamericani, e - di nuovo cosa non certo usuale - il governo cubano ha cercato di dividere equamente tra la popolazione il peso delle nuove misure di austerità".
Inoltre, cosa ancor più preoccupante per gli Usa, questi punti di vista sono piuttosto diffusi nella regione latinoamericana, grazie all'esperienza diretta ed alla relativa libertà dalle rigide regole dottrinarie che imbrigliano l'ortodossia Usa ed i suoi seguaci europei. Spesso, inoltre, tali idee sono sostenute da autorevoli figure latinoamericane. Un esempio assai doloroso è costituito da padre Ignacio Ellacuria, rettore dell'università gesuita del Salvador ("Uca"). Questi scrisse in una rivista religiosa latinoamericana, nel novembre del 1989, che malgrado i suoi abusi "il modello cubano è riuscito a soddisfare i bisogni primari [della popolazione] meglio degli altri paesi dell'America Latina, ed in un periodo relativamente breve", mentre "la situazione attuale... [della regione] mette in luce profeticamente l'intrinseca criminosità del sistema capitalistico e la falsità ideologica dell'apparente democrazia che lo accompagna, lo legittima e lo avvolge".
Fu per aver espresso tali pensieri che, proprio mentre l'articolo veniva pubblicato, Ellacuria fu assassinato da truppe scelte addestrate dagli Usa e sepolto sotto uno spesso velo di silenzio anche da parte di chi, da noi, finse una grande indignazione (19).
Come in tanti altri casi, non sono certo gli eventuali abusi di Castro a turbare i sovrani dell'emisfero, abituati ad appoggiare a cuor leggero i Suharto, i Saddam Hussein ed i Gramajo, oppure a girarsi dall'altra parte fintanto che essi "assolvono il loro compito principale". Sono invece proprio gli aspetti positivi, i successi di Cuba a suscitare paura, rabbia ed appelli alla vendetta. Un fatto questo che gli ideologi devono nascondere - compito non facile, date le prove schiaccianti a conferma di questo principio base della cultura dominante.
Negli anni '80, gli Usa intensificarono la loro guerra economica contro l'Avana e misero al bando i prodotti industriali contenenti anche la più piccola quantità di nichel cubano, una delle maggiori esportazioni del paese. Forse coloro che non sono ancora affetti da una forma di Alzheimer's politico ricorderanno la direttiva emessa, nell'aprile del 1988, dal Dipartimento del Tesoro americano che vietava l'importazione del caffè nicaraguense lavorato in paesi terzi se non era stato "sufficientemente trasformato da perdere la sua identità nicaraguense" - espressioni che, come fece notare un redattore del "Boston Globe", ricordano il linguaggio del Terzo Reich. Gli Stati Uniti proibirono persino ad una compagnia svedese di prodotti sanitari di fornire a Cuba una certa apparecchiatura perché una delle componenti era fabbricata negli Usa. Inoltre l'assistenza economica alla ex Unione Sovietica è stata condizionata da Washington alla sospensione di ogni sostegno a Cuba. L'annuncio fatto da Gorbaciov sulla cancellazione dei programmi di aiuti all'Avana fu salutato con titoli a caratteri cubitali: "Baker saluta con soddisfazione il cambiamento", "I sovietici rimuovono l'ostacolo che si frapponeva all'aiuto economico Usa", "Il rapporto cubano-sovietico: fonte di irritazione per gli Usa da 31 anni". Finalmente, la grave offesa fattaci potrà essere cancellata.
All'inizio del 1991, gli Usa ricominciarono le manovre militari nei Caraibi che comprendevano, con tipica tattica intimidatoria, una invasione simulata di Cuba. Alla metà di quello stesso anno gli Stati Uniti inasprirono ancor più l'embargo riducendo tra l'altro l'entità delle rimesse che i cubani americani possono mandare ai loro parenti in patria. Nell'aprile del 1992, in vista delle elezioni, il presidente Bush vietò inoltre i porti Usa alle navi che facevano scalo a Cuba. Nuove leggi proposte dai liberal del Congresso, cinicamente chiamate 'Cuban Democracy Act', estendono l'embargo anche alle sussidiarie estere di società americane e consentono il sequestro, nel momento in cui entrano nelle acque territoriali Usa, delle navi da carico che hanno fatto scalo nell'isola caraibica. La ferocia dell'odio verso l'indipendenza cubana è estrema, e varia di poco tra le varie sfumature del mondo politico ufficiale (20).
Del resto non vi è mai stato alcun tentativo per nascondere il fatto che la scomparsa del deterrente sovietico (come la fine di quello inglese un secolo prima), ed il declino dei rapporti economici del blocco orientale con Cuba, avrebbe facilitato il raggiungimento da parte di Washington dei suoi obiettivi di lungo periodo attraverso la guerra economica ed altri mezzi. La sincerità è all'ordine del giorno: solo l'anti-americano più bieco, dopotutto, contesterebbe il nostro diritto ad agire come vogliamo. Se, per esempio, scegliamo di invadere un paese indifeso per catturare uno dei nostri agenti che ha disubbidito agli ordini, come Noriega, per poi processarlo per delitti commessi mentre era al nostro servizio, chi potrebbe dubitare della maestà del nostro sistema giuridico? E' vero, in occasione dell'intervento a Panama l'Onu espresse i suoi dubbi, ma il nostro veto mise fine a quel capriccio infantile. Persino la Corte Suprema Usa, da allora, ci ha accordato il diritto di rapire sedicenti criminali all'estero per processarli negli Stati Uniti. Noi siamo ormai immuni persino dalle remore che ebbe Adolf Hitler quando, nel 1937, restituì un emigrato tedesco, sequestrato dai banditi di Himmler in Svizzera, in seguito alle proteste di quel governo che si era appellato ai più elementari principi del diritto internazionale (21).
In un tipico commento sulla favorevole occasione che ci si presenta a Cuba, i redattori del "Washington Post" hanno invitato gli Usa a cogliere l'opportunità di schiacciare Castro: "Se il suo grande antagonista, gli Stati Uniti, dovesse ora dare respiro e legittimità a questo rudere logorato ed ormai sulla via del tramonto, rinnegherebbe la promessa fatta al popolo cubano ed a tutti gli altri democratici dell'emisfero". Durante gli anni '80, seguendo la stessa logica, gli editorialisti dei giornali americani chiesero agli Usa di fare pressioni sul Nicaragua affinché tornasse a quel "modello centroamericano" tipico dei governi terroristici quali il Guatemala ed il Salvador, in considerazione degli ammirevoli "risultati raggiunti [da questi paesi] a livello regionale"; inoltre quegli stessi commentatori disprezzarono il 'nuovo pensiero' di Gorbaciov perché questi non aveva ancora dato a Washington il via libera per usare, nel raggiungere i suoi obiettivi, mezzi quali il minamento dei porti del Nicaragua, condannati dalla Corte Internazionale dell'Aia (con una sentenza che, secondo la stampa e i giornalisti liberal, l'avrebbe screditata). Il "Post" parla a nome del popolo cubano esattamente come faceva il Dipartimento di Stato negli anni di Eisenhower e di Kennedy; come William McKinley faceva a nome della "stragrande maggioranza del popolo" filippino (il quale "saluta con gioia il nostro dominio") che lui "difese... da una minoranza intrigante" massacrando centinaia di migliaia di persone; come il proconsole Leonard Wood parlava per il buon popolo cubano (cioè, i ricchi europei), favorevole alla dominazione o all'annessione Usa, che doveva essere protetto dai "degenerati" (22). Gli Usa hanno sempre avuto una gran buona volontà a difendere i sofferenti del mondo dalle trame dei malfattori. In quanto all'amore per la democrazia del "Post", la carità ci induce al silenzio. Lo stesso dicasi per i suoi pari.
La storia cubana dimostra con grande chiarezza come la guerra fredda sia stata poco più di un pretesto per occultare l'usuale rifiuto degli Usa ad accettare l'indipendenza dei paesi del Terzo Mondo, qualunque fosse il loro orientamento ideologico. Questa politica tradizionale non è mai stata realmente contestata all'interno del sistema dominante. Anzi, le domande più ovvie sono considerate illegittime, se non impensabili. Quindi possiamo prevedere che anche nel futuro continueranno i soliti sforzi per far sì che il 'frutto maturo' di Cuba o cada nelle mani dei suoi veri padroni, o sia colto con forza dall'albero.
Una politica prudente suggerirebbe di intensificare la stretta mortale, ricorrendo alla guerra economica e ideologica, per punire la popolazione ed allo stesso tempo dissuadere gli altri paesi dall'interferire. A mano a mano che aumenteranno le sofferenze si può prevedere che vi sarà anche una crescita della protesta, quindi della repressione e dei disordini, eccetera, in un prevedibile circolo vizioso. Ad un certo punto il collasso interno sarà tale da rendere possibile l'invio dei Marines, senza pagare alcun prezzo, per 'liberare' ancora una volta l'isola e restaurare il Vecchio Ordine mentre i fedeli intonano odi ai nostri grandi leader e alla loro rettitudine. Interessi tattici congiunturali potrebbero accelerare il processo, se vi sarà la necessità di suscitare nell'opinione pubblica fanatiche passioni nazionalistiche. Ma in ogni caso è improbabile che Washington segua una rotta diversa da quelle politiche dell'amministrazione Bush, delineate dalla "National Security Policy Review", nei confronti di 'nemici assai più deboli' di noi che devono essere sconfitti 'del tutto e rapidamente' perché 'il sostegno politico' per queste operazioni è negli Usa piuttosto esiguo.
Note:
N. 1. Jennings, 'The Indians' Revolution'; Berlin, 'The revolution in black
life'; entrambi in Young, "American Revolution". Morris, "American
Revolution", p. 72. Higginbotham, "In the Matter of Color". Hamilton,
citato da Vine Deloria, in Lobel, "Less than Perfect". Vedi riferimenti
della nota 32, cap. 1.
N. 2. Gleijeses, 'The Limits of Sympathy: the United States and the Independence
of Spanish America', m.s., Johns Hopkins, 1991.
N. 3. Lawrence Kaplan, "Diplomatic History", estate 1992. Vedi cap.
1.2.
N. 4. Vedi Bernal, "Black Athena".
N. 5. "North American Review", 12 aprile 1821, citato in Gleijeses.
Crossette, "New York Times", 18 gennaio. Stephen Fidler, "Financial
Times", 29 gennaio 1992.
La citazione di Jefferson si trova in van Alstyne, "Rising American Empire",
p. 81.
N. 7. Gleijeses, 'Limits of Sympathy'. Drinnon, "White Savage", p.
158. Anche "On Power and Ideology", 12n., 71n., e fonti citate.
N. 8. Ibid.
N. 9. Green, "Containment", p. 13-18. Sulla 'politica del buon vicinato'
ed i suoi retroscena, vedi LaFeber, "Inevitable Revolutions". Krenn,
"U.S. Policy". Vedi anche Salisbury, "Anti-Imperialism".
N. 10. Benjamin, "U.S. and Origins", 186n.n. Paterson, in Paterson,
"Kennedy's Quest"; il diplomatico messicano viene citato in Leacock,
"Requiem", p. 33.
N. 11. Chomsky, "Necessary Illusions", p. 177, 101. Shirley Christian,
"New York Times", 4 settembre 1992.
N. 12. 'Patriotic America', 1903. Zwick, "Mark Twain's Weapons", p.
161.
N. 13. "Envio", Jesuit Central American University (UCA), Managua,
genn.-febbraio 1992. Chomsky, "Necessary Illusions", 176n., p. 647-8;
"On Power and Ideology", 22n.
N. 14. Per un esame delle operazioni terroristiche, vedi Blum, "CIA".
Nixon, Garthoff, "Détente", 76n. Vedi McClintock, "Instruments",
per le più recenti discussioni e per l'intervista a Gilpatric. Anche
Garthoff, "Reflections" e Smith, "Closest of Enemies", per
resoconti da fonti ben informate del governo Usa.
N. 15. Paterson, op. cit. Martin Tolchin, "New York Times", 15 gennaio
1992. Garthoff, "Reflections", p. 17.
N. 16. Vedi, tra gli altri, Chomsky, "Necessary Illusions", app. 5.2
(su Walter Laqueur), e vari articoli in George, "Western". Articolo
di fondo del "New York Times", 8 settembre 1991. French, "New
York Times", 19 aprile. Constable, "Boston Globe", 15 luglio,
26 ottobre. Krauss, "New York Times Book Review", 30 agosto 1992.
Vedi anche cap. 3.5.
N. 17. Vedi Chomsky, "Deterring Democracy", p. 280-1.
N. 18. Per un esempio particolarmente vergognoso, vedi Chomsky, "Necessary
Illusions", app. 1. 1. In generale, vedi "Political Economy and Human
Rights", "Manifacturing Consent", ed altra letteratura. Sulla
copertura di Cuba da parte dei media, vedi Platt, "Tropical Gulag".
N. 19. "Envio", op. cit. Stavrianos, "Global Rift", p. 747.
"Latinamerica Press", 5 aprile 1990. Morris Morley e Chris McGillion,
"Sydney Morning Herald", 7 gennaio 1992. Ellacuria, 'Utopia and Prophecy
in Latin America' (1989), in Hassett & Lacey, "Towards a Society".
N. 20. Smith, "Closest of Enemies". Gillian Gunn, "Current History",
febbraio 1992. Thomas Friedman, "New York Times", 12 settembre 1991.
Michael Kranish, "Boston Globe", 19 aprile. "New York Times",
19 aprile 1992. Sul caffè nicaraguense, Chomsky, "Necessary Illusions",
p. 98.
N. 21. Detlev Vagts, 'Reconsidering the Invasion of Panama', "Reconstruction",
vol. 1.2, 1990. Vedi Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 5.
N. 22. "Washington Post Weekly", 20-26 gennaio 1992. Per il "Post",
vedi Chomsky, "Deterring Democracy", p. 103, 141; "Necessary
Illusions", per una discussione approfondita dei dogmi del "Times-Post".
Benjamin, "U.S. and Origins", p. 59. Chomsky, "On Power and Ideology",
p. 72.