PARTE SECONDA.
I SOMMI PRINCIPI.
Capitolo 5.
DIRITTI UMANI E PRAGMATISMO.
La reazione ufficiale dell'Occidente alla presa del potere da parte dei generali indonesiani fu di sollievo e di orgoglio. Il sottosegretario di Stato Usa, Alexis Johnson, celebrò "la sconfitta della marea comunista nell'importante Indonesia" come "un evento che probabilmente, insieme alla guerra del Vietnam, sarà ricordato come una delle svolte storiche più importanti dell'Asia di questo decennio" (ottobre 1966). Nel corso di un'audizione davanti ad una commissione del Senato, venne chiesto al segretario alla Difesa Robert McNamara se l'assistenza militare Usa all'Indonesia nel periodo precedente il golpe avesse "dato i suoi frutti". McNamara convenne di sì e che ciò ne dimostrava la giustezza - c'è da considerare a questo proposito che il frutto più importante fu un'enorme pila di cadaveri. In una comunicazione riservata con il presidente Johnson, nel marzo del 1967, McNamara andò oltre e sostenne che l'assistenza militare Usa all'esercito indonesiano lo aveva "incoraggiato a muoversi contro il P.K.I. non appena se ne presentò l'occasione". Particolarmente utile - continuò il segretario alla Difesa - era stato il programma di addestramento del personale militare indonesiano presso le università Usa, dove gli ufficiali di Giakarta avevano appreso quegli insegnamenti poi messi in pratica con tanto successo in patria. Questi, proseguì McNamara "furono fattori molto importanti nel determinare un orientamento a noi favorevole della nuova élite politica indonesiana (l'esercito)". Anche una relazione del Congresso affermò che l'addestramento e gli stretti contatti con gli ufficiali indonesiani "erano stati utilissimi". La stessa logica è stata a lungo applicata ai paesi dell'America Latina, con gli stessi risultati (9).
Molti commentatori, pur avendo differenti orientamenti politici, concordarono nell'attribuire all'intervento Usa nel Vietnam il merito di aver favorito la gradita svolta indonesiana, in quanto Washington in quel modo aveva dato un segnale dell'impegno americano nella causa anticomunista e fornito uno 'scudo' dietro il quale i generali potevano agire senza preoccuparsi della Cina, alleata di Sukarno. Una dichiarazione della "Freedom House", del novembre del 1966, firmata da "145 insigni cittadini americani" giustificò la guerra in Vietnam con il fatto che l'intervento Usa in Indocina "aveva contribuito a bloccare drasticamente la deriva indonesiana verso il comunismo", senza esprimere alcuna riserva sui mezzi impiegati. Nel novembre del 1966, il presidente Johnson parlando alle truppe Usa sostenne che le loro gesta in Indocina avevano fatto sì che oggi "in Indonesia 100 milioni di persone possono godere di una libertà mai avuta prima". Queste reazioni chiariscono bene quale fosse la logica della guerra Usa in Indocina (10).
In linea con il suo cinismo, Brands ritiene comunque che queste rivendicazioni siano esagerate. A suo parere: "I tentativi di appropriarsi del merito dell'ascesa al potere dei generali" da parte di McNamara sarebbero stati il frutto "dell'entusiasmo per il regime di Suharto" del presidente Johnson. Le assicurazioni Usa all'esercito indonesiano "ebbero certamente qualche effetto sulla valutazione di Suharto circa le sue possibilità di successo", ma non più di tanto dal momento che esse "si limitarono all'ovvio dato di fatto che gli Usa preferiscono la destra alla sinistra" - inclusa quella destra che si macchia di enormi massacri e dà vita ad un 'nuovo ordine' basato sul terrore. Del resto per quanto riguarda la guerra nel Sud-Est asiatico, la Cia espresse i suoi dubbi che "la dimostrazione di forza in Vietnam avesse avuto un'influenza determinante sull'esito della crisi indonesiana", scrisse il direttore dell'Agenzia, Helms, a Walt Rostow nel 1966. Come sostenuto da Brands, l'amministrazione Johnson era preoccupata che l'Indonesia potesse subire "il destino dal quale gli Usa allora stavano tentando di salvare il Vietnam del Sud". Per fortuna, l'Indonesia si salvò da sola.
Nel Congresso non si udì alcuna voce di condanna del massacro, e nessuna delle maggiori agenzie umanitarie americane offrì il suo aiuto. Al contrario la Banca Mondiale ridiede lo status di 'nazione favorita' all'Indonesia che in breve tempo la fece diventare il terzo maggior destinatario dei suoi prestiti. I governi e le grandi imprese occidentali si comportarono di conseguenza.
I protagonisti di quella vicenda forse trassero utili insegnamenti dai massacri di contadini indonesiani. L'ambasciatore Green lavorò in seguito al Dipartimento di Stato dove si occupò, tra l'altro, del bombardamento delle campagne cambogiane. Nel corso del 1973, quando gli attacchi aerei raggiunsero un'intensità senza precedenti, con decine di migliaia di vittime, Green sostenne davanti al Congresso che i bombardamenti dovevano continuare per soddisfare il nostro desiderio di pace: l'esperienza da noi avuta con "questi personaggi di Hanoi" - sostenne il diplomatico Usa - ci insegna che solo fiumi di sangue dei contadini cambogiani potrebbero portarli al tavolo dei negoziati. L''esperienza' a cui si riferiva erano i bombardamenti su Hanoi durante il Natale del 1972, intrapresi per costringere i vietnamiti a modificare gli accordi presi ad ottobre con l'amministrazione Nixon ma rifiutati da Washington, e poi accettati di nuovo senza modifiche dopo che gli Usa decisero di sospendere i bombardamenti, divenuti troppo costosi. Ma Green poteva essere sicuro che le colossali montature da lui create per poter continuare la strage non sarebbero state scoperte dal momento che quegli eventi, e le loro ripercussioni, erano stati nascosti dalla 'stampa libera' (11).
Ritornando all'Indonesia, i media si mostrarono soddisfatti, persino euforici. Mentre l'esercito prendeva il potere, il corrispondente del "Times", Max Frankel, descrisse la soddisfazione dei funzionari dell'amministrazione Johnson per le "nuove ed importanti opportunità" che si aprivano in Indonesia. I "militari hanno dimostrato la loro forza", così che "l'Indonesia può essere ora salvata da quello che sembrava l'inevitabile deriva verso una pacifica presa del potere [da parte del P.K.I.] dall'interno del paese" - un disastro inimmaginabile, visto che la politica interna indonesiana non era sotto il controllo Usa. I funzionari americani "sono certi che l'esercito paralizzerà e forse distruggerà i comunisti come forza politica di rilievo", portando alla "eliminazione dell'influenza comunista ad ogni livello della società indonesiana". Di conseguenza, "dove due settimane fa c'era solo disperazione, adesso vi è la speranza" (12).
Non tutti erano però così entusiasti dell'opportunità di far scomparire l'unica forza politica popolare dell'Indonesia. Un invito alla cautela venne dal principale giornale giapponese, l'"Asahi Shimbun": "Visto che l'influenza comunista è profondamente radicata nelle masse indonesiane, una dura repressione contro di loro potrebbe causare un'ulteriore deterioramento della situazione, già confusa, del paese" (13). Ma riflessioni così pessimiste furono assai rare.
Alla metà del 1966, quando già l'accaduto era noto, il settimanale "U.S. News & World Report" titolò così un lungo ed entusiasta articolo: "Indonesia: 'LA SPERANZA... DOVE UNA VOLTA NON CE N'ERA'". "Gli indonesiani adesso possono parlare e discutere liberamente, senza paura di essere denunciati ed incarcerati", scrisse il settimanale di fronte all'emergere di uno stato terroristico totalitario, con centinaia di migliaia di arrestati ed il sangue che ancora scorreva a fiumi. In una "cover story", il settimanale "Time" celebrò, sotto il titolo "Vendetta con un sorriso", "La migliore notizia per l'Occidente proveniente dall'Asia da molti anni a questa parte" e dedicò cinque pagine di testo e altre sei di fotografie al "ribollente bagno di sangue che, quasi inosservato, è costato 400 mila vite umane". Il nuovo regime militare è "scrupolosamente costituzionale", sentenziò sollevato il "Time". "Esso si basa sulla legge e non sulla semplice forza", nelle parole del suo leader Suharto "tranquillo e deciso" con la sua "faccia quasi innocente". Così l'eliminazione del P.K.I. con i suoi tre milioni di iscritti da parte del suo "unico rivale possibile", l'esercito, e l'allontanamento dal potere di un "vero eroe popolare" Sukarno, potrebbe considerarsi praticamente un trionfo della democrazia (14)
Il principale analista politico del "New York Times", James Reston, seguì il coro con un articolo così titolato: "Un raggio di luce sull'Asia". In esso Reston, solitamente espressione delle posizioni del Dipartimento di Stato, ammoniva gli americani a non lasciare che le cattive notizie provenienti dal Vietnam oscurassero "i più positivi sviluppi in Asia" e, in particolare, "il drastico cambiamento dell'Indonesia passata dalla politica filocinese di Sukarno a quella coraggiosamente anticomunista del generale Suharto".
"Anche se il governo di Washington è restio ad assumersi alcun merito per i profondi cambiamenti verificatisi nel sesto più popoloso paese del mondo [l'Indonesia, N.d.C.], e uno dei più ricchi, ciò non significa che non vi abbia avuto un ruolo. Prima e durante il massacro in Indonesia, i contatti tra le forze anticomuniste e almeno un alto funzionario a Washington sono stati assai più intensi di quanto non si creda. Le forze del generale Suharto, in alcuni momenti prive di cibo e munizioni, hanno ricevuto rifornimenti ed aiuti da qui [gli Usa, N.d.C.] tramite vari paesi terzi, e c'è da chiedersi se il golpe sarebbe scattato senza la dimostrazione di forza americana in Vietnam o se avrebbe potuto svilupparsi senza i nostri aiuti clandestini arrivatigli per vie traverse".
L'articolo di cronaca sull'Indonesia, quello stesso giorno, conteneva altre buone notizie. Sotto il titolo "Gli indonesiani vedono nuovamente film americani", descriveva "il più importante evento sociale di questi giorni nella capitale Giakarta", la proiezione di film made in Usa per un pubblico "elegante", "sceso da limousine di lusso", "segno del rifiuto da parte del paese della linea anti-americana e pro-comunista del governo indonesiano". Tutto ciò prima che il raggio di luce filtrasse tra le nuvole (15).
Occorre però ricordare che secondo il cinico punto di vista di Brands ed altri, l'orgogliosa celebrazione da parte di Reston dei meriti Usa nel massacro e nell'instaurazione del 'nuovo ordine' era esagerata, anche se comprensibile.
La reazione degli editorialisti dei principali giornali al bagno di sangue in Indonesia fu prudente. Il "Times" si compiacque che l'esercito indonesiano avesse "disinnescato la bomba ad orologeria del paese, il potente Partito comunista", ed elogiò Washington per essere "saggiamente rimasta nell'ombra durante i recenti tumulti" invece di inviare apertamente aiuti e mostrare la sua soddisfazione; non venne neppure presa in considerazione l'idea che gli Usa, o chiunque altro, avrebbero dovuto protestare e tentare di bloccare l''utile' massacro. Piuttosto gli editorialisti sostennero che Washington doveva continuare a comportarsi così saggiamente, sollecitando l'assistenza internazionale ai 'moderati indonesiani' che avevano diretto il massacro. Un commento del febbraio del 1966 elencò i probabili vantaggi per gli Stati Uniti derivanti dalla presa del potere da parte dell'esercito indonesiano e dalla "distruzione dell'intero apparato del P.K.I.". Un successivo articolo del mese di agosto ammise che vi era stato un "incredibile massacro di massa di comunisti e simpatizzanti", con centinaia di migliaia di morti. Questo "fatto... - sosteneva il giornalista - solleva importanti interrogativi per gli Stati Uniti" ai quali, fortunatamente, è stato risposto in modo corretto: Washington "saggiamente non si è intromessa nel tumulto indonesiano", "abbracciando pubblicamente i nuovi capi del paese", cosa che "avrebbe potuto comprometterli" - e questo è l'unico 'importante interrogativo' che venne posto. Un mese dopo gli analisti politici descrissero il sollievo di Washington perché "l'Indonesia che era stata perduta, è ora stata ritrovata". Il successo dei 'moderati' venne premiato con "promesse generose di riso, cotone e macchinari" e la ripresa degli aiuti economici sospesi prima che 'l'incredibile massacro di massa' avesse rimesso le cose a posto. Gli Usa "avevano sufficienti ragioni di stato per mettersi d'accordo con il nuovo regime", per non parlare delle più che rilevanti ragioni del profitto (16).
In pochi anni, nella storia ufficiale i ruoli dei generali e del P.K.I. vennero completamente rovesciati. George McArthur, un esperto sull'Asia del "Los Angeles Times", scrisse nel 1977 che il P.K.I. aveva "tentato di prendere il potere e sottoposto il paese ad un bagno di sangue" - forse mettendo le proprie teste sul ceppo, una delle solite efferatezze dei comunisti (17).
Intanto i generali indonesiani, oltre a battere all'interno del paese ogni primato nella violazione dei diritti umani, avevano intensificato, rasentando il genocidio, gli attacchi iniziati nel 1975 all'ex colonia portoghese di Timor-Est, compiendo un'altra 'incredibile strage di massa', paragonabile alle atrocità commesse in quegli stessi anni da Pol Pot. Nel caso di Timor-Est, l'impresa fu compiuta con il sostegno determinante dell'amministrazione Carter, detta 'dei diritti umani', e dei suoi alleati. Questi capiscono le 'ragioni di stato' altrettanto bene degli editorialisti del "Times" i quali, insieme ai loro colleghi nordamericani ed europei, fecero il possibile per facilitare la carneficina, sopprimendo notizie facilmente ottenibili a cui preferirono le favole raccontate dai generali indonesiani e dal Dipartimento di Stato. Gli articoli della stampa americana e canadese su Timor-Est, numerosi prima dell'invasione in quanto frutto delle preoccupazioni occidentali per il collasso dell'impero portoghese, scomparirono del tutto nel 1978, proprio quando le atrocità raggiunsero la punta massima in coincidenza con un sempre più consistente flusso di aiuti militari americani (18).
Gli editorialisti del "Times" non furono i soli a tessere le lodi dei 'moderati' responsabili di quel "ribollente bagno di sangue", come più tardi avrebbe scritto il "Christian Science Monitor". "Molti in Occidente erano desiderosi di avere buoni rapporti con il nuovo leader moderato di Giakarta, Suharto". Il corrispondente per l'Asia sud-orientale del "Times", Philip Shenon, aggiunse, con più cautela, che il passato di Suharto per quanto riguardava i diritti umani "presentava luci ed ombre". L'"Economist" di Londra arrivò a definire questo grande assassino e torturatore come un "buono di cuore", senza dubbio pensando alla sua compassione per le multinazionali. Ma, sfortunatamente, vi sono anche alcuni che mettono in dubbio la sua natura bonaria: "Coloro che fanno propaganda in favore della guerriglia" a Timor-Est e nella West Papua (Irian Java) "parlano della ferocia dell'esercito e dell'uso della tortura" - tra questi il locale vescovo ed altre fonti religiose, migliaia di profughi in Australia e in Portogallo, diplomatici e giornalisti occidentali che hanno deciso di non chiudere gli occhi, Amnesty International ed altre organizzazioni per i diritti umani. Sono tutti "propagandisti" e non coraggiosi difensori dei diritti umani, perché la loro versione della storia è quella sbagliata (19).
Sul "Wall Street Journal" Barry Wain, direttore della redazione per l'Asia, scrisse che il generale Suharto "si è mosso con audacia per sconfiggere i golpisti e consolidare il suo potere", usando "forza e astuzia" per assumere il controllo assoluto del paese. "Sotto molti aspetti, ha avuto successo", malgrado alcuni problemi, come il coinvolgimento del governo nell'assassinio di alcune migliaia di presunti criminali tra il 1982 ed il 1985. A parte alcune antiche questioni ancora aperte, poche settimane prima del commento di Wain, così pieno di lodi, "Asia Week" riferì di un'altra strage a Sumatra, dove truppe indonesiane incendiarono un villaggio di 300 persone, uccidendo dozzine di civili, nell'ambito di un'operazione per reprimere la ribellione della provincia. Suharto è "un garante della stabilità", titola il "Wall Street Journal", nel senso caro al sistema occidentale. L'articolo, dai toni ottimistici, non ha ignorato gli eventi del 1965. In un passaggio così li ricorda: Suharto "assunse il comando delle forze che si opposero al tentato golpe, ed ebbe successo" (20).
Quando le vittime non sono considerate esseri umani - ma bestie selvagge sotto forma di uomini, comunisti, terroristi, o qualunque sia il nome d'arte più in voga - il loro sterminio non suscita scrupoli morali. E gli agenti dello sterminio sono 'moderati' degni di lode - i 'nostri nazisti', per tradurre dal "Newspeak" (linguaggio propagandistico, dal libro "1984" di Orwell, N.d.C.). La prassi è sempre la stessa. Basta ricordare il 'moderato' generale Gramajo, per citare qualcuno che potrebbe essere paragonato a Suharto.
Note:
N. 9. Johnson citato in Kolko, "Confronting". McNamara e relazione
del Congresso citata in Wolpin, "Military Aid", p. 8, 128. McNamara-Johnson,
Brands, op. cit. cap. 7.3.
N. 10. "Public Papers of the Presidents", 1966 (Washington, 1987),
Vol. 2, p. 563.
"New York Times", 29 marzo 1973. Vedi cap. 10, nota 64.
N. 12. Frankel, "New York Times", 11 ottobre 1965.
N. 13. Citazione del "New York Times", 17 ottobre 1965.
N. 14. Robert Martin, "U.S. News", 6 giugno 1966. "Time",
15 luglio 1966.
N. 15. "New York Times", 19 giugno 1966.
N. 16. Articoli di fondo, "New York Times", 22 dicembre 1965; 17 febbraio;
25 agosto; 29 settemhre 1966.
N. 17. "International Herald Tribune", 5 dicembre 1977, in "Los
Angeles Times".
N. 18. Chomsky, "Political Economy and Human Rights", 1, cap. 3.4.4;
"Towards a New Cold War", cap. 13. Peck, "Chomsky Reader",
p. 303-13. Per un quadro generale, Taylor, "Indonesia's Forgotten War".
N. 19. John Murray Brown, "Christian Science Monitor", 6 febbraio
1987. Shenon, "New York Times", 3 settembre 1992; "Economist",
15 agosto 1987.
N. 20. Wain, "The Wall Street Journal", 25 aprile 1989; "Asia
Week", 24 febbraio 1989, citato in "TAPOL Bulletin", aprile 1989.
Richard Borsuk, "The Wall Street Journal", 8 giugno 1992.