PARTE PRIMA.
VINO VECCHIO IN BOTTIGLIE NUOVE.
Capitolo 2.
I CONFINI DELL'ORDINE MONDIALE.
Il sistema internazionale disegnato dagli Usa, all'indomani della Seconda guerra mondiale, richiedeva che anche nel 'club dei ricchi' l'ordine regnasse sovrano. I soci di minoranza potevano perseguire i loro "interessi regionali" ma all'interno della "struttura complessiva dell'ordine" gestito dagli Stati Uniti, l'unica potenza con "interessi e responsabilità globali", come disse Kissinger all'Europa nel 1973 ('L'Anno dell'Europa'). Per cui nel dopoguerra gli Usa non erano disposti a tollerare che l'Europa diventasse una terza superpotenza. La creazione della Nato, osserva Leffler, fu motivata in gran parte dal bisogno "di inserire l'Europa Occidentale e l'Inghilterra in un'orbita sensibile al comando americano". "Né un'Europa integrata, né una Germania unita, né un Giappone indipendente devono emergere come terza forza o blocco neutrale". Secondo il segretario di Stato Dean Acheson la neutralità sarebbe stata "una scorciatoia per il suicidio". Lo stesso valeva al di fuori delle società industriali. Pur riconoscendo che i russi non erano responsabili dei conflitti nel Terzo Mondo, Acheson avvertiva nel 1952 che essi avrebbero potuto sfruttare quelle crisi per cercare di "costringere la maggior parte dei paesi non comunisti a seguire una politica neutrale e negare le loro risorse alle principali potenze occidentali" - rifiutandosi, cioè, di venderle alle condizioni imposte dall'Occidente. Anche il generale Omar Bradley, riferendosi al Giappone, metteva in guardia contro il "suicidio a cui avrebbe portato la neutralità" (18).
Gli strateghi occidentali "non si aspettavano e non si preoccupavano di un'aggressione sovietica", scrive Leffler riassumendo una posizione assai diffusa nel mondo accademico. "L'amministrazione Truman sosteneva l'Alleanza Atlantica soprattutto perché era indispensabile al mantenimento della stabilità europea attraverso l'integrazione della Germania". Questa fu la vera ragione del Trattato del Nord Atlantico, firmato a Washington nell'aprile del 1949, che portò alla formazione della Nato e, per reazione, del Patto di Varsavia. Preparandosi a quell'incontro, il governo Usa "si convinse che i sovietici forse erano realmente interessati ad un accordo che unificasse la Germania e mettesse fine alla divisione dell'Europa. Questa possibilità era vista non come una favorevole opportunità ma piuttosto come una minaccia al "prioritario obiettivo della sicurezza nazionale": "sfruttare il potenziale economico e militare tedesco a favore della comunità atlantica" - ed impedire "l'emergere di una terza forza neutrale" (19).
Bisogna notare che il termine 'sicurezza nazionale' è qui usato nel senso della propaganda ufficiale, senza alcun rapporto con l'effettiva sicurezza della nazione che poteva, piuttosto, essere messa in pericolo solamente da iniziative che andavano coscientemente nella direzione di uno scontro tra superpotenze. Ugualmente, con 'comunità atlantica' si intendono le classi dirigenti, non le popolazioni, i cui interessi sono sacrificati volentieri quando lo esigono il potere ed i profitti; come, ad esempio, quando si sposta la produzione in paesi oltreoceano dove la violenza di stato mantiene una forza lavoro docile ed a buon mercato.
"Il vero problema", concludeva la Cia nel 1949, "non è la questione della Germania" che, si credeva - e si temeva - si sarebbe potuta risolvere attraverso un accordo con il Cremlino, ma piuttosto "il controllo a lungo termine della potenza tedesca". Questa 'grande officina' deve essere sotto il dominio degli Usa e dei suoi alleati, senza alcun coinvolgimento sovietico e senza tener conto dei comprensibili problemi di sicurezza di quel paese che, per la seconda volta in trent'anni, era stato praticamente distrutto dalla Germania e che si era battuto in prima linea nella guerra contro i nazisti. Inoltre l'esclusione della Russia infrangeva gli accordi raggiunti in tempo di guerra su un ruolo sovietico in Germania che, come osserva Leffler, erano già stati violati dagli Stati Uniti nel 1946. Secondo Acheson il ritiro delle truppe sovietiche dalla Germania poteva essere un obiettivo auspicabile, ma "il ritiro delle truppe americane ed inglesi avrebbe comportato un prezzo troppo alto". La "nostra posizione", riconosceva George Kennan, "è tale che... in questo momento non desideriamo realmente una Germania unificata e non esistono le condizioni che potrebbero rendere accettabile una simile soluzione". L'unificazione potrebbe essere lo scopo ultimo, ma "solo nelle giuste circostanze", rilevò il Dipartimento di Stato. Le truppe Usa quindi sarebbero rimaste in Germania anche se i sovietici avessero proposto un ritiro bilaterale; anzi, questo paese sarebbe stato integrato in funzione subalterna nel sistema economico globale controllato dagli Usa ed i russi non avrebbero avuto più voce in capitolo sul problema tedesco, né ricevuto risarcimenti o influenzato lo sviluppo industriale (e militare) della Germania.
In tal modo si sarebbero raggiunti due importanti obiettivi: indebolire l'Unione Sovietica e rafforzare il controllo Usa sui propri alleati. Qualsiasi gesto per mettere fine alla guerra fredda, invece, avrebbe ostacolato questo progetto, e dunque gli Stati Uniti non hanno mai avuto alcuna seria intenzione di raggiungere questo obiettivo.
Una terza ragione per impedire l'unificazione della Germania, come osserva Leffler, era il timore del "fascino della sinistra", rafforzato dalla "forte ripresa e dalla maggiore partecipazione politica nella zona sovietica", compreso il ruolo parzialmente cogestionario dei consigli di fabbrica nelle imprese epurate dai nazisti e l'organizzazione dei sindacati. Washington temeva che un movimento operaio unificato ed altre organizzazioni di base avrebbero potuto compromettere i progetti Usa per la restaurazione del tradizionale potere dell'impresa. Anche il Ministero degli Esteri britannico temeva "un infiltrazione economica ed ideologica" dall'Est, vissuta come "qualcosa di molto simile ad un'aggressione"; i successi politici delle persone sbagliate nella nostra pubblicistica nazionale sono comunemente definiti come 'aggressioni'. In una Germania unificata, avvertiva il Ministero degli Esteri britannico, "l'equilibrio delle forze si sarebbe spostato a tutto vantaggio dei russi", i quali avevano "una maggiore capacità di attrazione". Era quindi preferibile la divisione della Germania con l'esclusione di qualsiasi influenza sovietica sul fulcro dell'economia tedesca, il ricco complesso del bacino della Ruhr (21).
Per varie ragioni gli Usa hanno preferito il conflitto al compromesso. Se quest'ultimo fosse realmente possibile o meno è pura speculazione. L'unico vero obiettivo, allora, fu di integrare le società industriali del Nord in un Ordine Mondiale dominato dall'intreccio tra stato e grandi imprese americane.
Dieci anni dopo l'Europa si era sostanzialmente ripresa, in gran parte grazie alla politica di 'keynesismo militare internazionale' intrapresa da Washington poco prima della guerra di Corea - utilizzata come prova a sostegno della tesi, indiscussa, che i russi erano sul punto di conquistare il mondo. Ma, con la ripresa economica, aumentarono anche i timori che l'Europa potesse diventare più indipendente e che si potessero moltiplicare le spinte al neutralismo.
L'ambasciatore di Kennedy a Londra, David Bruce, vedeva come un 'pericolo' la possibilità che l'Europa "andasse per conto proprio cercando di avere un ruolo indipendente dagli Usa"; come altri, commenta Frank Costigliola, Bruce voleva "un'alleanza - ma con gli Stati Uniti in posizione predominante".
Il 'gran progetto' di Kennedy in fondo fu un tentativo per controllare meglio gli alleati, ma ebbe risultati contraddittori. La Francia suscitava a Washington forti preoccupazioni: Kennedy temeva che il presidente Charles de Gaulle potesse raggiungere con i russi un accordo "accettabile anche dai tedeschi" ed era, ricordano alcuni suoi collaboratori, estremamente preoccupato per i rapporti dei servizi segreti che paventavano la possibilità di un'intesa franco-russa che avrebbe escluso gli Usa dall'Europa. Altre fonti di preoccupazione erano le turbative sul mercato dell'oro, che si pensava fossero di ispirazione francese, e la posizione presa da de Gaulle sull'Indocina. Su questo scacchiere la proposta di una soluzione diplomatica con una neutralizzazione del paese, formulata dal presidente francese, era del tutto inaccettabile per l'amministrazione Kennedy, decisa ad ottenere una vittoria militare e, in quel momento, impegnata a silurare qualsiasi iniziativa vietnamita per risolvere il conflitto. Nell'Indocina, come nell'Europa e nel Terzo Mondo, il neutralismo era un anatema per i dirigenti Usa, 'una scorciatoia per il suicidio' (22).
Le difficoltà crescenti nel controllare gli alleati spinsero Kissinger, nel 1973, a richiamare all'ordine gli alleati. Il "problema principale" dell'alleanza occidentale, a suo parere, era "l'evoluzione in senso nazionalistico di molti paesi europei", che avrebbe potuto portare alla scelta di una rotta autonoma dagli Usa. Lo sviluppo dell'eurocomunismo aggravò questi timori - che Kissinger confidò a Breznev, anch'egli non certo entusiasta della "via democratica al socialismo" contraria ad "ogni intervento straniero". Kissinger ricordò successivamente come la situazione del Portogallo e dell'Italia, all'indomani della caduta dei rispettivi regimi fascisti, "pur non essendo certo il risultato della distensione o della politica sovietica" poneva seri problemi politici agli Usa: "Non possiamo incoraggiare il dialogo con i partiti comunisti all'interno dei paesi Nato", sostenne Kissinger ammonendo le ambasciate americane perché, indipendentemente dal fatto che quei partiti seguissero o meno "la linea di Mosca", "l'impatto di un Partito comunista italiano che governi con efficacia sarebbe disastroso - per la Francia, ed anche per la Nato". Per la stessa ragione gli Usa dovevano ostacolare il progresso del Partito comunista in Portogallo, dopo la caduta della dittatura fascista (che non aveva creato alcun problema agli Stati Uniti), anche nel caso il P.C.P. si fosse ispirato al modello del P.C.I. italiano. Infatti gli Usa "temevano che l'eurocomunismo avrebbe reso i partiti comunisti dell'Occidente più accettabili ed attraenti agli occhi dell'opinione pubblica", scrive Raymond Garthoff nella sua dettagliata ricerca su quel periodo; inoltre gli Stati Uniti "davano una maggiore importanza al... mantenimento dell'alleanza occidentale e, al suo interno, dell'influenza americana" più che all'"indebolimento dell'influenza sovietica nell'Est" (23).
Anche allora il problema di fondo era costituito dall'intreccio tra un allargamento della democrazia non più sotto il controllo delle imprese ed il declino della potenza Usa. Entrambi i fenomeni, se già singolarmente venivano contrastati da Washington, insieme costituivano un serio pericolo alla 'sicurezza' ed alla 'stabilità'.
Con gli anni '70, la situazione diventò sempre più difficile da gestire, costringendo gli Stati Uniti a cambiare rotta, ma su questo ritorneremo nel prossimo capitolo. Comunque negli anni '90 quei problemi sono ancora aperti. Un esempio ne è la controversia sorta a proposito di un documento segreto sulle Direttive di Pianificazione della Difesa elaborate dal Pentagono nel febbraio del 1992, il cui contenuto venne divulgato dalla stampa. Il documento intitolato "Indirizzi del segretario alla Difesa" per la politica di bilancio fino all'anno 2000 espone la linea ufficiale dell'Amministrazione: gli Usa devono mantenere il "potere mondiale" ed il monopolio della forza militare. Solo così potranno "proteggere" il Nuovo Ordine lasciando, allo stesso tempo, che gli altri paesi perseguano "i loro legittimi interessi", decisi da Washington. Gli Usa, comunque, "devono tener conto degli interessi delle nazioni industriali avanzate per scoraggiare ogni sfida al nostro dominio o qualsiasi tentativo di rovesciare l'ordine politico ed economico stabilito", e persino impedire il sorgere negli alleati dell'"aspirazione ad assumere un maggiore ruolo regionale o mondiale". In quest'ottica non deve esistere un sistema di sicurezza europeo indipendente; piuttosto la Nato, sotto il controllo Usa, deve rimanere lo "strumento principale per la difesa e la sicurezza occidentale ed il canale per l'influenza e la partecipazione americana alla sicurezza europea". "Noi manterremo comunque una particolare responsabilità di reagire selettivamente a quei torti che minacciano non solo i nostri interessi, ma anche quelli dei nostri alleati ed amici"; gli Stati Uniti decideranno quali siano i 'torti' e quando è il caso di 'reagire selettivamente'. Il documento presta particolare attenzione al Medioriente. Qui "il nostro obiettivo è quello di rimanere la potenza esterna predominante nella regione e di difendere l'accesso americano ed occidentale al petrolio", impedendo (selettivamente) le aggressioni, mantenendo il controllo strategico e la "stabilità regionale", e proteggendo le "proprietà private e nazionali Usa". Nell'America Latina, il pericolo principale è "una provocazione militare contro gli Stati Uniti o un alleato americano" da parte di Cuba, il solito modo 'orwelliano' per indicare un intensificarsi degli attacchi Usa all'indipendenza cubana.
"I diplomatici dell'Europa Occidentale e del Terzo Mondo hanno criticato aspramente alcuni aspetti del documento", riferì Patrick Tyler da Washington. "Anche alcuni alti funzionari della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato hanno espresso severe critiche", sostenendo che esso "in nessun modo rappresenta la politica Usa". Il portavoce del Pentagono, da parte sua, "ha esplicitamente sconfessato alcuni dei punti politici qualificanti" contenuti nel documento, pur riconoscendo che "in fondo riflette quanto sostenuto pubblicamente dal segretario alla Difesa Dick Cheney". Ciò costituisce una "ritirata tattica" del Pentagono, commenta Tyler, provocata "dalle reazioni del Congresso e di importanti funzionari dell'Amministrazione". Reazioni anch'esse in parte frutto dell'allarme suscitato dal documento in molti paesi e quindi di natura tattica. Alcuni alti funzionari hanno riconosciuto comunque che Cheney ed il sottosegretario per gli affari politici Paul Wolfowitz avrebbero "approvato l'asse teorico" del documento. Voci contrarie vennero anche dalla stampa, in particolare dall'esperto di politica estera del "Times" Leslie Gelb che criticò "quel sogno ad occhi aperti di considerarsi i gendarmi del mondo" e rilevò una "preoccupante omissione": "Il documento sembra tacere sul ruolo americano per garantire la sicurezza di Israele" (24).
Difficile prevedere fino a che punto gli altri soci del 'club dei ricchi' accetteranno il potere sovrano del gendarme Usa impegnatosi a 'tener sufficientemente conto dei loro interessi'. Nel frattempo, in seguito alle proteste ed alle preoccupazioni sui costi di quel progetto, l'Amministrazione riesaminò il piano alcuni mesi dopo, sostituendone i punti centrali con più neutri luoghi comuni - ad uso e consumo dell'opinione pubblica. Intanto la Francia e la Germania, nonostante una ferma opposizione Usa, dettero vita ad un reparto militare franco-tedesco indipendente dalla Nato. Parigi inoltre bloccò anche il tentativo americano di estendere la Nato (incluso il "North Atlantic Cooperation Council") all'Ungheria, la Polonia e la Cecoslovacchia. Secondo il "Wall Street Journal", funzionari Usa avrebbero sostenuto che "i francesi non vogliono che una Nato a guida americana assuma ulteriori impegni nell'Europa dell'Est" perpetuando l'esistenza dell'alleanza (25).
Il dibattito riflette un vero e proprio dilemma di politica estera. Con un'economia in relativo declino ed una base sociale pericolosamente disastrata, soprattutto in seguito ad un decennio di prestiti e di forsennate spese reaganiane, sono gli Stati Uniti in grado di mantenere il ruolo egemonico che hanno avuto per mezzo secolo? E ancora: saranno gli altri paesi pronti ad accettare un ruolo subordinato? Saranno gli alleati disposti a pagarne i costi, nel momento in cui gli Stati Uniti sfruttano la loro superiorità militare per mantenere un Ordine Mondiale a loro vantaggio, e proprio quando Washington non ha più la possibilità di sobbarcarsi quelle spese? Non è poi così sicuro che gli altri 'uomini ricchi' acconsentano a fare dei soldati Usa i loro mercenari, come richiesto dalla stampa economica durante la campagna per la guerra del Golfo, magari insieme al loro 'tenente' britannico. Anche quest'ultimo sta attraversando un periodo di declino sociale ed economico ma, secondo il corrispondente per gli affari militari dell'"Independent", la Gran Bretagna "è ben qualificata, motivata e, probabilmente, assumerà un alto profilo militare come forza bellica al servizio della comunità internazionale" - un tema ricorrente durante la guerra del Golfo, accompagnato dall'orgoglioso 'battersi il petto', alla Tarzan, degli sciovinisti inglesi che sognavano i bei vecchi tempi in cui avevano "il diritto di bombardare i negri" senza proteste da parte dei 'fascisti di sinistra' (26).
Per capire meglio il problema è necessario decodificare i cifrati eufemismi ('responsabilità', 'sicurezza', 'difesa', eccetera) delle verità ufficiali. Le parole in codice nascondono la vera questione di fondo: chi dirigerà l'orchestra?
Note:
N. 18. Kissinger, "American Foreign Policy". Leffler, "Preponderance",
p. 17, 449, 463.
N. 19. Ibid, 282n.
N. 20. Ibid, p. 284, 156. Acheson e Kennan sono citati in Gaddis, "Strategies",
p. 76.
N. 21. Leffler, "Preponderance", p. 117, 119. Chomsky, "Deterring
Democracy", cap. 11. Sulla 'aggressione', vedi Chomsky, "For Reasons
of State", 114n.
N. 22 Per Costigliola vedi Paterson, "Kennedy's Quest", citando Theodore
Sorenson; anche George Ball. Wachtel, "Money Mandarins", 64n. Su Kennedy
ed il Vietnam, vedi Chomsky, "Rethinking Camelot". Sull'effetto del
'keynesismo militare internazionale' in seguito al fallimento dei progetti di
assistenza, vedi in particolare Borden, "Pacific Alliance". Chomsky,
"Deterring Democracy", cap. 1 per altre fonti e commenti.
N. 23. Garthoff, "Détente", 487n.
N. 24. "New York Times", 8 marzo. Patrick Tyler, "New York Times",
8, 11 marzo. Barton Gellman, "Washington Post Weekly", 16-22 marzo
1992.
N. 25. Patrick Tyler, "New York Times", 24 maggio 1992. Frederick
Kempe, 'U.S., Bonn Clash Over Pact with France', "The Wall Street Journal",
27 maggio 1992.
N. 26. Vedi Chomsky, "Deterring Democracy", introd. Christopher Bellamy,
"International Affairs", luglio 1992.