PARTE PRIMA.
VINO VECCHIO IN BOTTIGLIE NUOVE.
Capitolo 1.
LA GRANDE IMPRESA DELLA CONQUISTA.
Le conquiste spagnolo-portoghesi si accompagnarono ad altrettanto drammatici eventi nella madrepatria. Nel 1492, la comunità ebraica di Spagna fu costretta a scegliere tra l'espulsione e la conversione. Milioni di Mori patirono la stessa sorte quando, nel 1492, la caduta di Granada pose fine ad otto secoli di dominio moresco e dette all'Inquisizione spagnola la possibilità di ampliare il proprio barbaro dominio. I conquistatori distrussero libri e manoscritti di inestimabile valore nei quali si era conservata la ricca tradizione del sapere classico e demolirono un'intera civiltà fiorita sotto il ben più tollerante e colto dominio dei Mori. In tal modo vennero gettate le basi del declino della Spagna e di quel razzismo e ferocia che caratterizzarono la Conquista del mondo: "la maledizione di Colombo", come la definì lo studioso dell'Africa Basil Davidson (4).
Ma la Spagna ed il Portogallo vennero presto private del loro ruolo guida. Il primo concorrente importante fu l'Olanda la quale, grazie soprattutto ai controllo dei commerci sul Baltico conquistato nel '500 e mantenuto in virtù della sua potenza militare, disponeva di risorse assai superiori di quelle dei suoi rivali. La "Voc" (Compagnia Olandese delle Indie Orientali), fondata nel 1602, godeva dei poteri tipici di uno stato, inclusi quelli di dichiarare guerra e di negoziare trattati. Formalmente si trattava di una società commerciale privata, ma la realtà era ben diversa. "L'evidente autonomia della Compagnia dal controllo politico della madrepatria", scrive M. N. Pearson, derivava dal fatto che questa "si identificava con lo stato", anch'esso controllato da mercanti e banchieri olandesi. Nella vicenda della "Voc" possiamo già intravedere, in una forma molto semplificata, un abbozzo delle strutture operanti nella politica economica moderna, dominata da una rete di istituzioni finanziarie ed industriali sovranazionali che gestiscono in proprio investimenti e commerci, mentre la loro ricchezza e potenza vengono create e difese dal potere di quello stato che esse stesse influenzano ed in larga parte controllano.
"La "Voc" integrava le funzioni di un potere sovrano con quelle di una società commerciale", sostiene uno storico del capitalismo olandese. "Sia le decisioni politiche che quelle commerciali venivano prese nell'ambito della medesima struttura gerarchica di dirigenti d'azienda e funzionari dello stato, mentre fallimenti e successi erano sempre in ultima analisi misurati in termini di profitto". Gli olandesi riuscirono a conquistare punti di forza in Indonesia (rimasta una loro colonia fino agli anni '40), in India, in Brasile e nei Caraibi, strapparono Sri Lanka al Portogallo e giunsero ai confini del Giappone e della Cina. Ma i Paesi Bassi, tuttavia, divennero presto vittime di quella che sarebbe stata definita in seguito 'la malattia olandese': la mancanza di un forte potere centralizzato che aveva reso la popolazione "forse ricca, considerando i singoli cittadini, ma debole come stato", come osservava Lord Sheffield d'Inghilterra nel '700 mentre metteva in guardia i suoi concittadini dal commettere il medesimo errore (5).
Gli imperi iberici subirono altri duri colpi quando iniziarono a correre per i mari i pirati inglesi, predoni e mercanti di schiavi, dei quali forse il più noto è Sir Francis Drake. Le ricchezze che egli così riportò in patria possono, come scrisse John Maynard Keynes, "giustamente considerarsi la fonte e l'origine degli investimenti esteri britannici". La regina "Elisabetta riuscì con questi proventi a pagare l'intero debito estero investendone poi una parte... nella "Levant Company" (Compagnia del Levante); grazie ai profitti di quest'ultima nacque la "East India Company" (Compagnia delle Indie Orientali) i cui utili a loro volta... costituirono le fondamenta dei rapporti internazionali dell'Inghilterra". Prima del 1630 la presenza inglese nell'oceano Atlantico non andava oltre le "attività predatorie di mercanti e banditi armati che miravano ad impadronirsi con le buone, o con le cattive, di una parte del patrimonio che le nazioni iberiche possedevano in quella regione" (Kenneth Andrew). Gli avventurieri che gettarono le basi degli imperi mercantili del diciassettesimo e del diciottesimo secolo "si inserirono nell'antica tradizione europea di unire guerra e commercio", sostiene Thomas Brady aggiungendo che "la crescita dello stato europeo come impresa militare" dette origine alla "figura, anch'essa essenzialmente europea, del mercante-guerriero". Lo stato inglese, una volta consolidatosi, si assunse poi in prima persona il compito di portare avanti le "guerre per la conquista dei mercati", togliendolo ai ""cani di mare" elisabettiani con le loro razzie saccheggiatrici" (Christopher Hill).
La "British East India Company" (Compagnia Britannica delle Indie Orientali) ricevette nel 1600 uno speciale statuto (esteso nel 1609 a tempo indeterminato) che dava alla Compagnia il monopolio sul commercio con l'Oriente per conto della Corona britannica. Seguirono guerre brutali tra i vari concorrenti europei, condotte frequentemente con inenarrabile barbarie, che coinvolsero anche popolazioni indigene spesso già impegnate nelle proprie lotte intestine. Nel 1622, l'Inghilterra cacciò i portoghesi dallo stretto di Hormuz, la 'chiave dell'India', conquistando così quest'ultima preziosa preda. Il resto del mondo fu poi spartito nel modo ben noto.
Il rafforzarsi del potere centrale dello stato aveva permesso all'Inghilterra di soggiogare la propria periferia celtica (l'Irlanda, N.d.C.) e poi di applicare, con ferocia ancora maggiore, le tecniche colà sperimentate alle nuove vittime d'oltre Atlantico. Il loro disprezzo per "gli sporchi vaccari celtici che vivono ai margini [dell'Inghilterra]", scrive Thomas Brady, rese più facile agli "inglesi prosperi e civili" di assumere una posizione di preminenza nella tratta degli schiavi mentre "il loro disprezzo... estese la sua ombra dai vicini cuori di tenebra a quelli all'altra estremità dei mari".
Dalla metà del '600 in poi, l'Inghilterra divenne abbastanza potente da poter imporre i "Navigation Acts" (Decreti sulla Navigazione) del 1651 e 1662, con i quali escluse i mercanti stranieri dalle proprie colonie e dette alla sua marina mercantile "il monopolio del commercio del paese" (importazioni), sia "tramite proibizioni assolute" sia con "pesanti obblighi" (come sostiene Adam Smith, considerando queste misure con un misto di riserve e approvazione). Secondo la "Storia Economica Europea di Cambridge" il "duplice obiettivo" di tali iniziative era il raggiungimento del "potere strategico e della ricchezza economica attraverso il monopolio sui commerci marittimi e delle colonie". In questa prospettiva, l'obiettivo britannico nelle guerre anglo-olandesi, combattute tra il 1652 ed il 1674, fu quello di limitare o distruggere il commercio ed i traffici marittimi olandesi, e quindi ottenere il controllo della redditizia tratta degli schiavi. A quei tempi l'area strategica più importante era l'Atlantico, dove si trovavano le colonie del Nuovo Mondo che offrivano enormi ricchezze. I Decreti sulla Navigazione e le guerre estesero progressivamente l'area dei commerci controllati dai mercanti inglesi, i quali poterono arricchirsi attraverso la tratta degli schiavi ed il loro "saccheggio-commercio con l'America, l'Africa e l'Asia" (Hill). In questo processo i mercanti vennero aiutati dalle "guerre coloniali patrocinate dallo stato" e dai vari stratagemmi di politica economica con i quali il potere centrale aprì la strada alla ricchezza privata e ad un tipo di sviluppo a questa subordinato (6).
Il successo dell'Europa, come osservò Adam Smith, fu dovuto alla sua padronanza dei mezzi ed alla cultura della violenza. "Quando la guerra in Europa era già divenuta scienza, in India era ancora uno sport", sostenne a questo proposito John Keay. Dal punto di vista europeo, le conquiste del mondo non erano altro che 'piccole guerre', e tali venivano considerate dalle autorità militari, ci ricorda Geoffrey Parker, rilevando come "Cortés conquistò il Messico con forse 500 spagnoli, Pizarro distrusse l'impero Inca con meno di 200 e l'intero impero portoghese [dal Giappone all'Africa meridionale] era amministrato e difeso da circa 10 mila europei". Robert Clive nella cruciale battaglia di Plassey del 1757 che aprì la via alla conquista del Bengala da parte della East India Company e, quindi, al dominio britannico sull'India, disponeva di un esercito dieci volte meno numeroso di quello dei suoi avversari. Qualche anno dopo i britannici poterono ridurre quel divario numerico reclutando mercenari indigeni, i quali arrivarono poi a costituire il 90% delle forze che controllavano l'India ed il nucleo degli eserciti che invasero la Cina alla metà dell'800. Una delle ragioni più importanti per le quali Adam Smith sostenne che l'Inghilterra dovesse "liberarsi" delle colonie nordamericane fu proprio il fallimento di queste ultime nel fornire "forze militari per il sostegno dell'Impero".
Gli europei "combattevano per uccidere" ed avevano i mezzi per soddisfare la loro sete di sangue. Nelle colonie americane gli indigeni rimasero esterrefatti per la ferocia degli spagnoli e degli inglesi. "Anche all'altro estremo del mondo - ricorda Parker - i popoli dell'Indonesia furono atterriti dalla cieca furia della scienza bellica europea". Erano finiti i tempi descritti da uno spagnolo del dodicesimo secolo, pellegrino alla Mecca, in cui "mentre i guerrieri sono impegnati in guerra, il popolo rimane tranquillamente a casa". Del resto gli europei saranno anche arrivati per commerciare ma sicuramente rimasero per dominare dal momento che, come scrisse uno dei conquistatori olandesi delle Indie Orientali nel 1614: "I commerci non possono svilupparsi senza la guerra, né la guerra si può sostenere senza di loro". Solamente la Cina ed il Giappone poterono respingere allora l'Occidente perché "già conoscevano le regole del gioco". Il dominio europeo sul mondo "si appoggiava soprattutto sull'uso costante della forza", scrive Parker. "Fu grazie alla loro superiorità militare, piuttosto che a qualsiasi dote morale, sociale o naturale, che i popoli bianchi di questo mondo riuscirono a creare ed a mantenere, per quanto brevemente, la prima egemonia mondiale della storia" (7). Quel 'brevemente' è comunque oggetto di discussione.
"Gli storici del ventesimo secolo sono concordi nel ritenere - scrive James Tracy riassumendo il suo studio sugli imperi mercantili - che furono usualmente gli europei ad irrompere, sconvolgendoli, nei sistemi commerciali dell'Asia, relativamente pacifici prima del loro arrivo". In tal modo i bianchi del Vecchio Continente introdussero il controllo statale sui commerci in una regione di mercati relativamente liberi, "aperti a tutti coloro che venivano in pace, sulla base di regole largamente conosciute e generalmente accettate". Il loro ingresso violento in questo mondo portò ad una "combinazione, tipicamente se non unicamente europea, tra poteri dello stato ed interessi commerciali, sia sotto forma di un braccio dello stato che gestisce i commerci, sia di compagnie commerciali che agiscono come uno stato". "L'aspetto principale che differenziava le attività economiche europee dalle reti di scambio indigene in varie parti del globo", conclude Tracy, è che gli europei "organizzarono le loro maggiori imprese commerciali o come un'estensione dello stato... o come compagnie autonome... che avevano molti dei caratteri tipici dell'autorità statale", ed erano sostenute comunque dal potere centrale della madrepatria.
Il Portogallo fu il primo ad aprire questa strada imponendo tributi sui commerci asiatici, "prima minacciando i traffici marittimi (di quella regione, N.d.C.)", poi vendendo semplicemente la sua protezione, senza fornire altri servizi in cambio. "In termini moderni", fa notare Pearson, "si trattava precisamente di un racket del pizzo". Ma ben presto i più potenti avversari europei del Portogallo s'impadronirono del giro delle estorsioni, usando in maniera più efficace la violenza ed introducendo forme più sofisticate di gestione e di controllo. Se i portoghesi non avevano "alterato radicalmente la struttura [del] sistema tradizionale di scambio", questa fu completamente 'distrutta' dagli olandesi. Le compagnie inglesi ed olandesi "usavano la violenza in modo molto più selettivo, e quindi razionale", dei loro predecessori portoghesi: "La forza veniva impiegata solo per fini commerciali... ed aveva come limite la disponibilità del bilancio". Oltre tutto le forze armate al loro comando, e la base economica in patria, erano di gran lunga superiori. I britannici, immuni dalla 'malattia olandese', progressivamente soppiantarono i loro maggiori rivali. Secondo quanto scrisse Adam Smith, un importante aspetto del 'decisivo' contributo dato dalle colonie alla 'potenza dell'Europa' ed al suo sviluppo interno, fu proprio il ruolo dominante del potere e della violenza di stato (8).
La Gran Bretagna è stata a lungo considerata un'eccezione rispetto alla regola della centralità del potere e della violenza di stato nello sviluppo economico, e la tradizione liberale britannica ha sempre ritenuto che questo fosse il segreto del suo successo. Ma tali ipotesi vengono messe in dubbio da un'accurata reinterpretazione storica della sua ascesa ad opera di John Brewer. L'emergere della Gran Bretagna, tra la fine del '600 e gli inizi del '700, "come il "wunderkind" ['bambino prodigio'] militare dell'epoca" che esercitava la sua autorità su popolazioni soggiogate in terre lontane "spesso in modo brutale e barbaro", sostiene Brewer, coincise con una "sorprendente trasformazione nel governo britannico, che aggiunse i muscoli alle ossa del corpo politico del paese". Contrariamente alla tradizione liberale la Gran Bretagna, in quel periodo, divenne uno "stato forte", "uno stato fiscal-militare", grazie ad "un forte aumento del prelievo fiscale" e ad "una vasta amministrazione pubblica dedita all'organizzazione delle attività tributarie e militari dello stato". Quest'ultima diventò così "il più importante protagonista della vita economica" ed uno degli stati più potenti d'Europa, "giudicato secondo il criterio della capacità di prelevare sterline dalle tasche della gente e di mettere soldati sul campo di battaglia e marinai sugli oceani". "Lobby, organizzazioni commerciali, gruppi di mercanti e di finanzieri, lottavano o si associavano tra di loro per trarre vantaggi da quella che era divenuta la più importante creatura del mondo economico, lo Stato".
Durante quegli anni, il prelievo fiscale in Gran Bretagna raggiunse un livello pari al doppio di quello della Francia (considerata tradizionalmente uno stato ultracentralizzato ed assoluto), ed il divario continuò a crescere. Parallelamente aumentò anche il debito pubblico. Alla fine del '600 le tasse assorbivano quasi un quarto del reddito individuale, per salire a più di un terzo durante le guerre napoleoniche. "I cittadini britannici erano sottoposti ad una forte pressione fiscale sia in termini assoluti che relativi". Nel periodo in cui emerse il "wunderkind" militare la crescita dei proventi delle tasse superò più di cinque volte quella dell'economia. Ciò fu dovuto in parte ad una maggiore efficienza; in un modo insolito per l'Europa del tempo, l'esazione delle tasse era diventata nel regno britannico un'importante funzione del governo. Altro fattore da considerare era anche la maggiore legittimità, agli occhi dei cittadini, di un sistema più democratico. Il ruolo dello stato, "la principale entità economica nella Gran Bretagna del '700", non si fermava alle conquiste militari ma arrivava a promuovere le esportazioni, limitare le importazioni e, in generale, perseguiva quelle politiche protezionistiche e di sostituzione delle importazioni che hanno sempre preparato il terreno al 'decollo' industriale, dall'Inghilterra alla Corea del Sud (9).
Al contrario di quanto avvenne in Gran Bretagna, fu proprio un eccessivo liberalismo a contribuire in gran parte al crollo del sistema imperiale spagnolo. Questo era infatti molto aperto all'esterno, concedeva ai "mercanti, spesso non spagnoli, di operare nelle viscere del proprio impero" e permetteva "il libero passaggio dei beni in entrata ed in uscita dalla Spagna". Gli olandesi invece, conclude Pearson, tennero i profitti "saldamente all'interno del paese", mentre i "mercanti locali si identificavano completamente con l'impero e lo stato". La Gran Bretagna, da parte sua, seguì anch'essa politiche di nazionalismo economico, concedendo a monopoli autorizzati dallo stato i diritti di commercio prima con la Turchia, poi con il Medioriente (1581), quindi con il resto dell'Asia e del Nordamerica. In cambio di tali diritti, le compagnie commerciali semistatali versavano regolarmente dei contributi alla Corona britannica. Questo sistema sarebbe stato successivamente sostituito da una maggiore presenza diretta dello stato nelle colonie. Nel corso del '700, mentre i commerci ed i profitti privati britannici crescevano rapidamente, la funzione regolatrice del governo continuava ad avere la sua importanza: "L'allentamento delle restrizioni ai commerci durante il diciannovesimo secolo", osserva Pearson, "fu conseguenza e non causa del predominio inglese".
Adam Smith avrà anche denunciato con forza, nella sua aspra requisitoria sulla "East India Company", gli effetti negativi sulla popolazione inglese del "meschino spirito monopolistico", ma il declino della Compagnia non fu certo frutto dell'analisi teorica del noto economista. L''onorevole Compagnia' fu piuttosto vittima dell'eccessiva fiducia in sé stessi degli industriali britannici, in particolar modo di quelli del settore tessile. Questi, in un primo momento, erano stati protetti dalla 'sleale' concorrenza dei tessuti indiani ma, successivamente, quando si sentirono in grado di poter vincere contro concorrenti 'leali' invocarono la "deregulation". I loro rivali nelle colonie erano stati intanto eliminati con l'aiuto della forza e della violenza di stato, mentre essi avevano investito la nuova ricchezza ed il potere acquisito per meccanizzare la produzione e migliorare le forniture di cotone. Praticamente, dopo aver stabilito 'regole del gioco' tutte a loro vantaggio, cominciarono a sostenere il nobilissimo ideale di un 'mondo aperto', privo di interferenze irrazionali ed arbitrarie nelle attività di onesti imprenditori che si prefiggono il benessere di tutti (10).
Non c'è da meravigliarsi quindi se coloro che si sentono più forti sostengono le regole della 'libera concorrenza'; regole che, comunque, non hanno mai mancato di piegare ai propri interessi. Basti ricordare come gli apostoli del liberismo economico non abbiano mai neppur preso in considerazione la possibilità di accettare quella "libera circolazione della manodopera... da un luogo all'altro" che costituisce, come fece notare Adam Smith, una delle basi del libero scambio.
A questo proposito, l'assai diffusa tesi di un presunto impatto delle dottrine di Adam Smith sulla politica economica britannica non sembra avere solide basi storiche; come, del resto, l'affermazione dell'economista di Chicago George Stigler secondo cui le teorie di Smith "convinsero l'Inghilterra [tra il 1850 ed il 1930] dei vantaggi dei liberi scambi internazionali". Ciò che 'convinse l'Inghilterra', o meglio gli inglesi che erano al potere, fa notare Richard Morris, fu l'intuizione che i 'liberi scambi internazionali' (entro certi limiti) avrebbero favorito i loro interessi: "E solamente nel 1846, quando ormai l'industria manifatturiera britannica era sufficientemente potente, il Parlamento fu pronto alla rivoluzione" del libero scambio. Molti anni dopo, nel 1930, l'Inghilterra si sarebbe convinta del contrario nel constatare che quei tempi erano ormai passati. Così, incapace di competere con il Giappone, la Gran Bretagna lo escluse con successo dal commercio con il Commonwealth, India inclusa; gli Stati Uniti, nel loro piccolo seguirono l'esempio di Londra ed altrettanto fecero gli olandesi. Queste misure protezioniste furono tra le cause che portarono alla guerra del Pacifico quando il Giappone, cercando di emulare i suoi potenti predecessori, adottò ingenuamente le loro dottrine liberiste per scoprire poi, a suo danno, quanto fossero fraudolente, imposte ai deboli ed accettate dai potenti solamente quando erano per loro convenienti. Così, del resto, è sempre stato (11).
Comunque Stigler potrebbe avere ragione sul fatto che "Smith convinse tutti gli economisti che sarebbero venuti dopo di lui". In questo caso ci troveremmo di fronte alla conferma di quanto sia pericolosa un'arbitraria idealizzazione che isoli un'analisi dai fattori che influiscono in maniera determinante sulla materia in esame, problema ben noto nelle scienze; in questo caso si tratta della separazione tra un'indagine astratta sulla ricchezza delle nazioni e le tematiche del potere: chi decide, e per chi? Ritorniamo così al centro del problema come lo stesso Adam Smith aveva ben compreso.
Le ricchezze delle colonie trasferite in Gran Bretagna crearono enormi fortune. Agli inizi del 1700, la "East India Company", come fece notare un critico contemporaneo, gestiva "più della metà del commercio del paese". Durante il mezzo secolo seguente, scrive Keay, le azioni della Compagnia diventarono "sinonimo di titoli supersicuri, molto ricercate dai consigli di amministrazione, dagli istituti di beneficenza e dagli investitori stranieri". La rapida crescita della ricchezza e del potere spianarono la strada alla conquista diretta ed al dominio imperiale. Funzionari britannici, commercianti ed investitori "accumularono enormi fortune", guadagnando "ricchezze maggiori di quelle sognate da un avaro" (Parker). Questo fu vero soprattutto nel Bengala che, continua Keay, "fu destabilizzato ed impoverito da un disastroso esperimento di governo a sovranità limitata" - uno dei tanti 'esperimenti' condotti nel Terzo Mondo che non si può certo dire siano andati a vantaggio di chi li ha subiti. Due storici inglesi dell'India, Edward Thompson e G. T. Garrett, hanno descritto i primi anni dell'India britannica come "forse il punto più alto mai raggiunto dal guadagno illecito", "una brama d'oro, paragonabile solo a quella degli spagnoli dell'era di Cortés e di Pizarro, si impadronì degli inglesi. Il Bengala, in particolare, non avrebbe ritrovato la pace finché non fosse stato dissanguato". Significativo il fatto, fanno notare, che una delle parole indù ad essere entrata nel vocabolario inglese sia stata proprio 'loot' (saccheggio) (12).
La sorte del Bengala sottolinea alcuni elementi importanti della Conquista. I guerrieri-mercanti europei a quel tempo avevano visto nel Bengala una delle prede più ricche del mondo, mentre ora Calcutta ed il Bangladesh sono veri e propri simboli della miseria e della disperazione. Uno dei primi visitatori inglesi lo descrisse come "una terra magnifica, la cui ricchezza e abbondanza non potrebbero essere eliminate da guerre, pestilenze o dominazioni". Molto tempo prima, il viaggiatore marocchino Ibn Battuta aveva descritto il Bengala come "un paese di vaste dimensioni, nel quale il riso è estremamente abbondante. Anzi, non ho visto nessuna regione della terra dove vi siano provviste in cosi gran quantità". Nel 1757, lo stesso anno (della battaglia) di Plassey, Clive descrisse il centro tessile di Dacca come "grande, popoloso e ricco quanto la città di Londra"; ma nel 1840, secondo la testimonianza di Sir Charles Trevelyan davanti al Comitato Ristretto della Camera dei Lords, il numero dei suoi abitanti era sceso da 150 mila a 30 mila: "La giungla e la malaria stanno guadagnando terreno... Dacca, la Manchester dell'India una volta fiorente, è ora divenuta una città molto piccola e povera". Oggi è la capitale del Bangladesh.
Il Bengala allora era rinomato per il suo cotone pregiato, adesso scomparso, e per l'eccellenza dei suoi tessuti, ora importati. Dopo la conquista britannica, come scrisse il mercante inglese William Bolts nel 1772, i commercianti inglesi, usando "ogni possibile trucco", "acquistavano le stoffe dei tessitori ad un prezzo molto inferiore al loro valore". "Vari ed innumerevoli erano i metodi usati per colpire i poveri tessitori... multe, arresti, fustigazioni, l'imposizione di dazi sulle merci, eccetera". "L'oppressione ed i monopoli" imposti dagli inglesi "sono stati la causa del declino dei commerci, della diminuzione delle entrate e dell'attuale rovinosa situazione del Bengala".
Adam Smith, forse basandosi su quanto sostenuto da Bolts, il cui libro faceva bella mostra nella sua biblioteca, scrisse quattro anni dopo che nello scarsamente popolato e "fertile paese" del Bengala, "tre o quattrocentomila persone muoiono di fame ogni anno". Questa situazione è il frutto delle "arbitrarie normative" e "sconsiderate limitazioni" imposte dalla potente Compagnia sul commercio del riso, che trasformano "la scarsità in carestia". "Non era insolito" che i funzionari della Compagnia, "quando il capo prevedeva che l'oppio avrebbe reso un maggiore profitto", facessero scassare "un fertile campo di riso o di grano... per sostituirlo con una piantagione di papaveri". Le condizioni miserevoli del Bengala "e di altre colonie inglesi" sono la conseguenza delle politiche della "Compagnia mercantile che opprime e domina le Indie Orientali". A queste ci si dovrebbe opporre, esorta Smith, con quello stesso "spirito della costituzione britannica che protegge e governa l'America del Nord" - proteggeva, cioè, i coloni inglesi, non i 'meri selvaggi', come egli tralascia di precisare.
La protezione dei coloni inglesi era anch'essa piuttosto relativa. Come fa notare Smith, la Gran Bretagna "impone un divieto assoluto di costruire impianti di lavorazione nelle sue colonie americane" e regola severamente il commercio interno "dei prodotti dell'America; un controllo che in realtà impedisce la nascita dell'industria manifatturiera [dei cappelli, dei tessuti e delle stoffe di lana] anche per l'esportazione, costringendo così i suoi coloni a produzioni scadenti e grossolane, come quelle familiari per uso proprio" o dei vicini. Questa, scrive Smith, è "una chiara violazione dei più sacri diritti dell'uomo", usuale nei domini coloniali.
Il "Permanent Settlement Act" del 1793 privatizzò le terre dell'India, portando ricchezza agli alleati locali di Londra e nuove entrate fiscali per i dominatori britannici. L'altra faccia dell'esperimento ci viene ricordata dalle conclusioni di una commissione d'inchiesta inglese del 1832: "Riconosciamo con dolore che la colonizzazione portata avanti con attenzione e saggezza ha sottoposto quasi tutte le classi inferiori ad una pesante oppressione". Tre anni dopo, il direttore della Compagnia riferiva: "Questa miseria non trova eguali nella storia dei commerci. Le ossa dei tessitori di cotone stanno imbiancando le pianure dell'India". Tuttavia l'esperimento non fu un fallimento per tutti. "Pur essendo necessarie appropriate misure di sicurezza contro sommosse o rivoluzioni popolari", osserva il Governatore Generale dell'India, Lord Bentinck, "direi che il "Permanent Settlement", anche se è stato un fallimento sotto molti altri importanti aspetti, ha avuto almeno il vantaggio di creare un gran numero di proprietari terrieri benestanti, profondamente interessati alla continuazione del Dominio Britannico, i quali sono in grado di controllare la massa del popolo", la cui crescente miseria diventa quindi un problema secondario. Mentre l'industria locale era in declino, il Bengala fu convertito alle colture da esportazione, prima dell'indaco, poi della iuta; il Bangladesh ne produceva nel 1900 più della metà dei raccolti mondiali, ma sotto il dominio britannico non vi fu mai costruito un solo stabilimento per la lavorazione di quelle materie prime (13).
Mentre era in corso il saccheggio del Bengala, l'industria tessile della Gran Bretagna veniva 'protetta' dalla concorrenza indiana; un fatto di non poca importanza, visto che i produttori indiani godevano nel settore dei tessuti di cotone stampati di un certo vantaggio sul mercato inglese allora in espansione. La "British Royal Industrial Commission" nel 1916-1918 ricordava come, al momento dell'arrivo dei "mercanti di ventura occidentali", lo sviluppo manifatturiero dell'India non fosse "inferiore a quello delle nazioni europee più avanzate" anzi, probabilmente, come osserva Frederick Clairmonte citando studi britannici: "Sino all'avvento della rivoluzione industriale le fabbriche indiane erano di gran lunga più avanzate di quelle dell'Occidente". Le leggi parlamentari del 1700 e del 1720 vietarono poi le importazioni di tessuti stampati dall'India, dalla Persia e dalla Cina; tutte le merci sequestrate in contravvenzione a queste leggi dovevano essere confiscate, vendute all'asta e riesportate. I tessuti di cotone stampati dell'India vennero così messi fuori legge, e con essi "qualsiasi indumento o accessorio... sopra o intorno a qualsiasi letto, cuscino, tenda o qualunque altro tipo di arredamento o mobili per la casa". In seguito, il sistema fiscale coloniale si accanì anche contro la produzione ed il commercio dei tessuti all'interno del paese, così che l'India fu obbligata a comprare tessuti inglesi di qualità inferiore.
Tali misure, come scrisse nel 1826 Horace Wilson nella sua "Storia dell'India Britannica", erano inevitabili: "Se così non fosse stato, gli stabilimenti tessili di Paisley e di Manchester si sarebbero fermati sul nascere e niente avrebbe potuto riavviarli, neanche la forza del vapore. Essi sono stati creati grazie al sacrificio dell'industria manifatturiera indiana". Lo storico dell'economia J. H. Clapham sostenne da parte sua che "queste misure restrittive diedero un importante, e si potrebbe dire determinante, stimolo all'industria dei tessuti stampati in Gran Bretagna", settore che fu all'avanguardia della rivoluzione industriale. All'inizio dell'800, l'India finanziava più di due quinti del disavanzo del commercio estero di Londra, forniva un mercato ai suoi prodotti manifatturieri, truppe per le sue conquiste coloniali e l'oppio, sul quale si basava il commercio inglese con la Cina (14).
A questo proposito Jawaharlal Nehru scrisse come "salta agli occhi il fatto, importante, che le zone dell'India rimaste più a lungo sotto il dominio britannico siano oggi le più povere", e ancora: "In effetti si potrebbe tracciare un grafico che mostri visivamente lo stretto rapporto tra la durata del dominio britannico e la crescita progressiva della povertà". Del resto, alla metà del '700, l'India era relativamente sviluppata, e non solo nel settore tessile; basti pensare che "l'industria delle costruzioni navali era così avanzata che una delle ammiraglie inglesi, usata durante le guerre napoleoniche, era stata costruita in India da un'azienda locale". Durante il dominio britannico entrarono invece in crisi, oltre al settore tessile, anche altre importanti industrie quali "la cantieristica navale, la metallurgia, la produzione del vetro, della carta ed altri settori dell'artigianato"; in tal modo, bloccando la crescita di nuove industrie, Londra impedì lo sviluppo dell'India facendola divenire "una colonia agricola dell'Inghilterra industriale". Mentre l'Europa conosceva il fenomeno dello sviluppo delle città, l'India "diventò sempre più rurale", con un rapido incremento percentuale degli abitanti che dipendevano dall'agricoltura. Secondo Nehru, sarebbe questa "la prima e vera causa della spaventosa povertà del popolo indiano". Nel 1840, uno storico britannico dichiarò davanti ad una commissione parlamentare d'inchiesta: "L'India è un paese sia manifatturiero che agricolo; il tentativo di limitare le sue attività economiche alla sola agricoltura significa voler degradare il livello della sua civiltà". E ciò, come osserva Nehru, fu esattamente quel che successe durante "il tirannico impero" britannico (15).
Lo storico dell'economia brasiliano Josè J. de A. Arruda conclude nel suo studio sulle "colonie come investimenti mercantili" che queste per alcuni furono un ottimo affare, soprattutto per gli olandesi, i francesi e specialmente i britannici, i quali poterono anche sfruttare i possedimenti coloniali del Portogallo; e così anche per i trafficanti di schiavi, i mercanti, gli industriali e le colonie della Nuova Inghilterra, il cui sviluppo venne stimolato dal commercio triangolare con la Gran Bretagna e con le colonie produttrici di zucchero delle Indie Occidentali. "Il mondo coloniale... giocò un ruolo importante come rete di scambi assicurando quella crescita economica necessaria per una prima accumulazione di capitali". Quel sistema operò "il trasferimento delle ricchezze dalle colonie agli stati europei, che si scontrarono poi tra loro per appropriarsi del surplus coloniale". "QUESTE COLONIE HANNO FRUTTATO MOLTO BENE", conclude Arruda. Ma, aggiunge, che dietro le sole cifre si nasconde un importante particolare: "I profitti andavano ai privati mentre i costi venivano socializzati". "L'essenza del sistema", sostiene ancora, sono le "perdite sociali" insieme alla "possibilità di una costante espansione del capitalismo" e "delle ricchezze della borghesia mercantile". In breve, finanziamenti pubblici, profitti privati; ovvio obiettivo di una politica creata da coloro che ne traggono vantaggio.
Quanto alle colonie che scivolarono nel sottosviluppo, Pearson solleva, senza dare risposte, la questione se vi sarebbe potuta essere "un'alternativa economica e politica tale da mettere quei paesi in grado di rispondere alla sfida europea". Cioè una diversa strada seguendo la quale la Cina, l'India e gli altri [paesi] oggetto della conquista dell'Europa, avrebbero potuto evitare "di essere incorporati come periferie nell'economia mondiale, di rimanere sottosviluppati, di patire tante sofferenze durante il processo di trasformazione degli imperi mercantili in ancor più minacciosi imperi territoriali, sostenuti da un'Europa Occidentale economicamente dominante" (16).
Adam Smith, nelle sue note critiche al potere monopolistico ed alla colonizzazione, fa delle interessanti osservazioni sulla politica della Gran Bretagna, simili in parte a quelle dell'economista brasiliano Arruda. Smith giudica quelle politiche in modo contraddittorio, arrivando a concludere che, malgrado le grandi ricchezze portate all'Inghilterra dalle colonie e dal monopolio sui loro commerci, quei metodi alla lunga non sarebbero risultati realmente vantaggiosi, né in Asia né in Nordamerica. Il suo ragionamento era essenzialmente teorico dal momento che allora non erano disponibili dati sufficienti.
Ma per quanto le sue singole argomentazioni possano essere convincenti, l'insieme del ragionamento di Smith non sembra aver centrato il problema. Egli sostiene che il ritiro dalle colonie "sarebbe più vantaggioso per la maggioranza del popolo" inglese, "ma non certo per i mercanti dell'attuale monopolio [sui commerci]". Quel regime monopolistico, "pur costituendo un pesante fardello per le colonie, e anche ammettendo che incrementi le entrate di certe categorie in Gran Bretagna, diminuisce più che accrescere i redditi della maggioranza della popolazione". Del resto le sole spese militari, senza contare le distorsioni causate negli investimenti e nei commerci, costituiscono di per sé un carico economico assai pesante per il popolo.
In realtà il controllo monopolistico sull'India Orientale e le colonie nordamericane sarà anche stato una "assurdità", come pretende Smith, per la maggioranza del popolo inglese ed un grave "peso" per gli abitanti britannici delle colonie, ma non certo per "coloro che avevano concepito nel suo insieme questo sistema mercantilistico". Non dobbiamo dimenticare che "i nostri commercianti ed industriali ne sono stati di gran lunga gli architetti principali", e che i loro interessi sono stati "particolarmente tutelati" dal sistema, a differenza di quelli dei consumatori e dei lavoratori. Inoltre, 'particolarmente tutelati' erano anche gli interessi dei proprietari dei titoli garantiti della Compagnia, e quelli dei molti altri che guadagnarono ricchezze inimmaginabili. I costi erano infatti socializzati, mentre i profitti si riversavano nelle casseforti degli 'architetti principali' di quel sistema coloniale. Le politiche da loro attuate quindi non erano affatto assurde dal punto di vista di un gretto interesse personale anche se altri, inclusa la popolazione dell'Inghilterra, ne potevano essere danneggiati (17).
La tesi di Smith secondo la quale "attualmente la Gran Bretagna non ricava altro che perdite dal dominio esercitato sulle sue colonie" rischia quindi di portarci fuori strada. Ciò perché dal punto di vista delle scelte politiche, è improprio considerare la Gran Bretagna come un'unica entità. La 'ricchezza delle nazioni' non interessa gli 'architetti della politica' i quali, come ricorda lo stesso economista inglese, non cercano altro che il proprio profitto. La sorte della gente comune non li interessava certo di più di quella dei 'meri selvaggi' che ostacolavano loro il passo nelle colonie. E se la "mano invisibile" qualche volta ha portato dei benefici ad altri, questo è stato del tutto incidentale. Il puntare tutta l'attenzione sulla 'ricchezza delle nazioni' considerate come entità uniche, su quanto 'ricava la Gran Bretagna' dalle colonie, è quindi un errore iniziale, frutto di un'arbitraria idealizzazione, anche se Smith avrebbe poi approfondito e corretto questa premessa.
Ma queste sue importanti precisazioni successive sono state però generalmente messe da parte, nel dibattito ideologico contemporaneo, dai seguaci dell'ultima ora di Adam Smith. Così nella sua introduzione all'edizione bicentenaria di Chicago dei classici dell'economista inglese, George Stigler scrive che "gli americani troveranno particolarmente interessanti i suoi giudizi sulle colonie americane. Egli credeva sì che esistesse uno sfruttamento - ma degli inglesi da parte dei loro compatrioti delle colonie". Adam Smith in realtà sosteneva che il popolo britannico era sfruttato da "quegli uomini" che erano gli architetti di politiche [coloniali] a loro vantaggiose e che, allo stesso tempo, vi fosse però anche "un gravoso peso fiscale sulle colonie". Togliendo l'enfasi posta da Adam Smith sul conflitto di classe, e l'influenza di questo sulle decisioni politiche, si travisa il suo pensiero e non si interpretano correttamente i fatti, contribuendo così ad ingannare l'opinione pubblica nell'interesse dei ricchi e del potere. Purtroppo oggi questi atteggiamenti sono assai diffusi nelle discussioni sui problemi internazionali. E non solo: ad esempio la denuncia dei dannosi effetti delle politiche del Pentagono sull'economia è per lo meno fuorviante se non si sottolinea il fatto che per l'Amministrazione, e per gli interessi che rappresenta (e cioè, i settori avanzati dell'industria), gli effetti sono stati tutt'altro che nocivi.
Non ci si deve stupire, quindi, che le politiche sociali ufficiali si configurino in realtà come un progetto di assistenza pubblica per i ricchi ed i potenti. I sistemi imperiali, in particolare, sono uno dei tanti stratagemmi con cui i poveri nella madrepatria sovvenzionano i loro padroni. E mentre le ricerche sulla redditività o meno dell'impero per 'la nazione' possono avere un qualche interesse accademico, in realtà non toccano il nodo dei processi di formazione delle politiche in società nelle quali la popolazione ne è tagliata fuori; cioè in tutte quelle esistenti.
Il discorso del resto può essere allargato. Come dimostrato dall'esempio del sistema del Pentagono, tali considerazioni sono valide anche nella politica interna. Il potere dello stato non solo è stato esercitato per permettere ad alcuni di arricchirsi 'in maniera inimmaginabile' mentre distruggevano le società delle colonie, ma ha avuto anche un importante ruolo nel rafforzare i privilegi della proprietà privata a livello nazionale. Nei primi tempi dell'età moderna in Olanda ed in Inghilterra, il governo fornì le infrastrutture per lo sviluppo capitalistico, diede protezione ai settori economici importanti ma vulnerabili (lana, pesca, eccetera) e li sottomise a severi controlli. Lo stato inoltre utilizzò il suo monopolio della violenza per imporre agli agricoltori, prima indipendenti, condizioni di lavoro salariato. Secoli fa, come afferma Thomas Brady, "anche le società europee furono colonizzate e saccheggiate, in maniera meno catastrofica delle Americhe ma in misura maggiore di gran parte dell'Asia". "Il rapido sviluppo economico su modello inglese si rivelò estremamente distruttivo, sia per i tradizionali diritti di proprietà a livello nazionale che per le istituzioni e le culture di tutto il mondo". Ciò che avvenne nei paesi europei in via di sviluppo fu un processo di violenta 'pacificazione rurale'. "L'espropriazione massiccia ai danni dei contadini, avvenuta pienamente solo in Inghilterra", potrebbe essere stata alla base del suo più rapido sviluppo economico dal momento che questi vennero privati di quei diritti di proprietà, che invece riuscirono a mantenere in Francia, e furono quindi costretti ad entrare nel mercato del lavoro salariato; "fu proprio l'assenza di [libertà e dei diritti di proprietà] a facilitare l'inizio dello sviluppo economico" in Inghilterra, spiega Robert Brenner nella sua acuta analisi sulle origini del capitalismo europeo. La gente comune aveva molte ragioni per resistere "alla marcia del progresso", o per cercare di deviarla in una direzione più compatibile con la difesa e lo sviluppo di valori diversi come "l'idea di comunità, di solidarietà, della preminenza del tutto sui singoli, e del bene comune che trascende sempre il bene individuale" (Thomas Brady).
Idee di questo tipo animarono i "grandi movimenti comunisteggianti" dell'Europa precapitalista, scrive Brady, e "riportarono nelle mani dell'Uomo Comune alcuni elementi dell'autogoverno", risvegliando "il disprezzo e a volte la paura delle élite tradizionali". Coloro che cercavano la libertà ed il bene comune non erano altro che "artigiani di merda", ""canaille"" che meritavano di "morire di fame". L'imperatore Massimiliano li condannò definendoli "contadini malvagi, rozzi, stupidi, privi di virtù, sangue nobile e giusta moderazione, pieni solo di un'indecorosa ostentazione, slealtà ed odio per la nazione tedesca" - gli 'anti-americani' della loro epoca. La spinta democratica nell'Inghilterra del '600 suscitò dure accuse contro le "moltitudini di canaglie", "bestie a forma di uomini", "depravate e corrotte". I teorici della democrazia del ventesimo secolo sostengono che "la gente comune deve rimanere al suo posto", in modo che "gli uomini responsabili" possano "vivere liberi dal calpestio e dal ruggito della massa smarrita", di "estranei ignoranti e impiccioni" il cui 'ruolo' dovrebbe solamente essere quello di "spettatori interessati degli eventi", non di protagonisti. Salvo poi esprimere periodicamente il loro sostegno all'uno o all'altro esponente della classe dirigente (con le elezioni), e quindi tornare ad occuparsi dei loro affari privati (Walter Lippmann). La gran massa della popolazione "ignorante e mentalmente ritardata" deve essere quindi tenuta al suo posto per il bene comune, nutrita di "illusioni necessarie" e di "semplificazioni dalla grande efficacia emotiva" (Robert Lansing, segretario di Stato sotto Wilson, e Reinhold Niebuhr). I 'conservatori' in fondo si caratterizzano solamente per la maggiore adulazione degli 'uomini saggi' che governano di diritto - al servizio dei ricchi e dei potenti, una piccola annotazione, questa, regolarmente dimenticata (18).
La plebaglia deve essere istruita nei valori della subordinazione e della gretta ricerca dell'interesse personale entro i parametri stabiliti dalle istituzioni padronali; una vera democrazia, con la partecipazione ed il protagonismo popolare, costituisce una minaccia da sopprimere. E' un tema ricorrente nella storia, sebbene si presenti sotto nuove forme.
Il riferimento di Adam Smith all'ingerenza dello stato nei commerci internazionali vale anche su scala nazionale. E' ben noto l'elogio, nelle sue note introduttive, della "divisione del lavoro": questa è la causa prima del "grandissimo sviluppo delle capacità produttive e, in gran parte, dell'abilità, della destrezza e del criterio con le quali viene nei vari posti diretta o applicata" ed il fondamento della 'ricchezza delle nazioni'. Il grande merito del libero scambio, secondo Smith, è costituito dal suo contributo allo sviluppo di queste tendenze positive. Meno nota, invece, è la sua denuncia degli effetti inumani della divisione del lavoro quando questa si avvicina al suo limite naturale. Scrisse Smith: "L'uso della ragione nella maggior parte degli uomini è frutto delle loro attività quotidiane". Di conseguenza, "l'uomo che trascorre la sua vita compiendo alcune semplici operazioni, i cui effetti sono, forse, sempre gli stessi, o quasi, non ha modo di usare il suo intelletto... e generalmente diventa tanto stupido e ignorante quanto più possibile per una creatura umana... Ma in ogni società civile e sviluppata questa è la condizione alla quale gli operai poveri, e cioè le grandi masse del popolo, sono necessariamente costretti, a meno che il governo non tenti di impedirlo". La società dovrebbe quindi trovare il modo di contrastare le diaboliche conseguenze della 'mano invisibile'.
Altri autori del liberalismo classico vanno anche oltre. Wilhelm von Humboldt, l'ispiratore di John Stuart Mill, sostenne che il "principio base" della sua teoria era "l'importanza assoluta ed essenziale che ha lo sviluppo dell'uomo nella sua massima diversità"; principio che viene indebolito non solo dalla gretta ricerca dell'efficienza, tramite la divisione del lavoro, ma dallo stesso lavoro salariato: "Tutto ciò che non scaturisce dalla libera scelta dell'uomo, o che è solamente frutto di ordini e istruzioni date da altri, non rientra nella sua vera natura; non viene eseguito con energia propriamente umana, ma solo con esattezza meccanica"; quando l'operaio lavora comandato da altri "possiamo anche ammirare ciò che fa, ma disprezziamo ciò che è" (19).
L'ammirazione di Smith per l'iniziativa individuale era limitata ancor più dal suo disprezzo per la "spregevole regola dei padroni dell'umanità": "Tutto per noi stessi, e nulla per gli altri". Se le "meschine" e "sordide" iniziative dei padroni possono portare casualmente beneficio ad alcuni, aspettarsi risultati del genere è un puro atto di fede, frutto anche di una ancor più grave mancanza di comprensione di quel 'principio base' del pensiero classico liberale sottolineato da Humboldt. A ben vedere, ciò che di queste dottrine sopravvive nell'ideologia contemporanea è una loro versione brutta e deformata, escogitata nell'interesse dei padroni (20).
Il potere centralizzato dello stato al servizio dei privilegi e dell'autorità privata, e l'uso razionale ed organizzato di una brutale violenza, sono tra le caratteristiche più durature della Conquista europea. Altre peculiarità sono la colonizzazione interna ai paesi del Nord, con la quale i poveri finanziano i ricchi, ed il disprezzo per la democrazia e la libertà. Ricorrente è anche l'ipocrisia con cui si giustificano i saccheggi, le stragi e l'oppressione.
Un eminente liberale che insegnava ad Oxford nel 1840, dinanzi alla situazione del Bengala e del resto dell'India, elogiava la "politica britannica di illuminismo coloniale" perché "a differenza di quella dei nostri avi", i quali mantennero le loro colonie "in uno stato di assoggettamento per trarne alcuni presunti vantaggi economici", "noi, tassandoci per loro, diamo a questi paesi dei vantaggi commerciali e nuovi motivi per rimanere sotto il nostro dominio, in modo da continuare ad avere il piacere di governarli". Noi "li amministriamo tramite l'influenza del nostro carattere e senza usare la forza", spiegò Lord Cromer, sovrano effettivo dell'Egitto dal 1883 al 1906: ciò perché i britannici "possiedono una notevole capacità di conquistarsi la simpatia e la fiducia di qualsiasi razza primitiva con cui vengano a contatto". Il suo collega Lord Curzon, viceré dell'India, sostenne: "Nell'Impero abbiamo trovato non solo la chiave della gloria e della ricchezza, ma anche il richiamo al dovere ed il modo di rendere un servizio all'umanità". I primi conquistatori olandesi erano del resto convinti che i mercanti di ogni nazione sarebbero accorsi in massa alla "Voc" (Compagnia Olandese delle Indie Orientali) perché "le buone ed antiche maniere della nostra nazione sono molto apprezzate". Il sigillo del governatore e della compagnia della baia del Massachussets, nel 1629, rappresentava un indiano in atteggiamento supplichevole come per dire: "Venite ad aiutarci". I documenti storici sono zeppi di appelli alla volontà divina, di missioni civilizzatrici, di interventi umanitari, di cause nobili, eccetera. Se si dovesse credere ai maestri dell'autoadulazione, il paradiso dovrebbe essere così pieno da straripare (21).
Le loro fatiche comunque non sono prive di risultati. Tra le classi istruite, le favole delle missioni umanitarie e degli aiuti sono da tempo ascese a livello di verità dottrinali, e gran parte dell'opinione pubblica sembra crederci. Nel 1989, la metà dei cittadini americani credeva che gli aiuti all'estero costituissero la voce più importante del bilancio federale mentre invece a quell'epoca gli Stati Uniti erano scesi, con un misero 0,21% del P.N.L., all'ultimo posto tra i paesi industrializzati. Coloro che prestano ascolto ai loro 'tutori' potrebbero persino credere che la seconda voce del bilancio dello stato sia costituita dalle Cadillac per le madri che usufruiscono dell'assistenza pubblica (22).
Le popolazioni sottomesse trovano però strani modi di esprimere la loro gratitudine. La figura principale del nazionalismo indiano moderno sosteneva che "l'unico paragone possibile" con il Viceré inglese "potrebbe essere Hitler". L'ideologia del dominio britannico "era quella della razza superiore e dominatrice", un'idea "inerente all'imperialismo" che "veniva sostenuta chiaramente dalle autorità" e si manifestava nel fatto che gli indiani "erano sottoposti ad insulti ed umiliazioni, e trattati con disprezzo". Scrivendo da una prigione britannica nel 1944, Nehru era consapevole delle intenzioni benevole dei sovrani:
"La sollecitudine dimostrata da industriali ed economisti britannici è stata per il contadino indiano fonte di soddisfazioni. Tenendo conto di ciò, come anche delle tenere cure di cui il governo britannico in India lo ha fatto oggetto, si può concludere che solo qualche fato onnipotente e maligno, qualche ente soprannaturale, abbia contrastato le intenzioni ed i provvedimenti [di Londra] e fatto di quel contadino uno degli esseri più poveri e miserabili della terra" (23).
E Nehru era in un certo senso piuttosto anglofilo. Altri sono stati meno cortesi di lui, anche se la cultura occidentale, forte delle armi e della ricchezza, è rimasta in gran parte insensibile a queste accuse.
Non sarebbe comunque giusto sostenere che le atrocità passino senza essere notate. Uno dei carnefici più noti del tempo fu il re Leopoldo del Belgio responsabile della morte di forse 10 milioni di abitanti del Congo. Le sue conquiste ed i suoi difetti sono debitamente registrati nella "Enciclopedia Britannica" che descrive "l'enorme fortuna" da lui accumulata tramite "lo sfruttamento di quel vasto territorio". L'ultima riga della voce, piuttosto lunga, recita: "Ma egli mostrava un duro cuore agli indigeni del suo lontano possedimento". Mezzo secolo dopo, Richard Cobban, nella sua "Storia della Francia Moderna", rimproverò a Luigi Sedicesimo di non aver protetto gli interessi della Francia nelle Indie Occidentali. Alla tratta degli schiavi, sulla quale questi interessi si basavano, è dedicato solo un piccolo inciso: "La sua moralità ancor oggi è a malapena oggetto di discussione". Più che vero (24).
Gli esempi non sono quindi difficili da trovare.
Note:
N. 4. Jan Carew in Davidson, "Race & Class", genn.-marzo 1992.
N. 5. Per Pearson vedi Tracy, "Merchant Empires", che cita Niels Steensgard.
Brewer, "Sinews", 15, p. 64.
N. 6. Keynes, "A Treatise on Money", citato in Hewlett, "Cruel
Dilemmas". Su Pearson e Brady vedi Tracy, "Merchant Empires"
(Andrews e Angus Calder [sui Celti] citati in Brady). Brewer, "Sinews",
11, p. 169 (per le guerre anglo-olandesi). Hill, "Nation". Smith,
"Wealth", lib. 4, cap. 2, p. i, 484n. (nota a p. 484); lib. 4, cap.
7, parte 3, p. ii, 110n.n. (note a pag. 110). Sull'utilizzo in Nordamerica dei
metodi sperimentati ùella periferia celtica dell'Inghilterra, vedi Jennings,
"Invasion"; "Empire". Per un resoconto pittoresco delle
guerre britanniche-olandesi-portoghesi, vedi Keay, "Honorable Company.
N. 7. Ibid, p. 281. Per Parker vedi K. N. Chaudhuri (citando Ibn Jubayr), in
Tracy, "Merchant Empires". Smith, "Wealth", lib. 5, cap.
3, p. ii, 486. Vedi anche cap. 1.2.
N. 8. Per Tracy e Pearson vedi Tracy, "Merchant Empires".
N. 9. Brewer, "Sinews", p. xiiin., 186, 89n., 100, 127, 167.
N. 10. Pearson, op. cit. Smith, "Wealth", cap. 7, parte 3, p. ii,
110n.n.; lib. 4, cap. 2, p. i, 483.
N. 11. Ibid, lib. 1, cap. 10, parte 2, p. i, 150. Stigler, prefaz. Morris, "American
Revolution", p. 34. Sulla guerra nel Pacifico, vedi cap. 10.
N. 12. Keay, "Honorable Company", p. 170, 220-221, 321. Parker, op.
cit. Thompson e Garrett, "Rise and Fulfillment of British Rule in India",
1935, citato in Nehru, "Discovery", p. 297.
N. 13. Hartman e Boyce, "Quiet Violence", cap. 1. "Bolts, Considerations
on Indian Affairs", 1772, citato in Hartman e Boyce e dal curatore di Smith,
"Wealth", p. ii, 156n. Ibid, lib. 1, cap. 8, p. ii 33; lib. 4, cap.
5, p. ii, 33, lib. 4, cap. 8, parte 3, p. ii, 153; lib. 4, cap. 7, parte 2,
p. ii, 94-95. Trevelyan e Bentinck sono citati in Clairmonte, "Economic
Liberalism", 86n., p. 98. Nehru, "Discovery", p. 285, 299, 304.
N. 14. De Schweinitz, "Rise and Fall", p. 120-121, citando lo storico
dell'economia Paul Mantoux (sui Trattati) e la 'cauta' storia economica della
Gran Bretagna di Clapham. Clairmonte, "Economic Liberalism", p. 73,
87 (Wilson). Jeremy Seabrook, "Race & Class", luglio-settembre
1992. Hewlett, "Cruel Dilemmas", p. 7.
N. 15. Nehru, "Discovery", p. 296-299, 284. Per numerose conferme,
vedi Clairmonte, "Economic Liberalism", cap. 2.
N. 16. Per Arruda e Pearson vedi Tracy, "Merchant Empires".
N. 17. Smith, "Wealth", lib. 4, cap. 7, parte 3, p. ii, 131-133, 147;
lib. 4, cap. 8, p. ii, 180-181.
N. 18. Per Brady vedi Tracy, "Merchant Empires". Per Brenner, Aston
e Philpin, "Brenner Debate", p. 62, vedi in particolare cap. 10. Chomsky,
"Deterring Democracy", cap. 12.
N. 19. Smith, "Wealth", lib. 1, cap. 1, p. i, 7; lib. 5, cap. 1, parte
3, Art. 2, p. ii, 302-303. Nell indice dettagliato, la voce 'divisione del lavoro'
non contiene la condanna di Smith per le sue conseguenze. Per Humboldt, vedi
Chomsky, "For Reasons of State".
N. 20. Smith, "Wealth", lib. 3, cap. 4, p. i, 437.
N. 21. Herman Merivale, citato in Clairmonte, "Economic Liberalism",
p. 92. Cromer e Curzon sono citati in de Schweinitz, "Rise and Fall",
p. 16. Per il governatore generale olandese J. P. Coen vedi Tracy, "Merchant
Empires", p. 10-11. Per il sigillo, Jennings, "Invasion", p.
228.
N. 22. David Gergen, "Foreign Affairs, America and the World", 1991-92.
N. 23. Nehru, "Discovery", p. 293, 326, 301.
N. 24. "Britannica", nona ed., 1910. Cobban, "History",
1963, vol. 1, p. 74, citato in Edward Herman, "Z Magazine", aprile
1992.