PARTE QUARTA.
AMNESIE OCCIDENTALI.
Capitolo 10.
QUANDO SI UCCIDE LA STORIA.
Le nuove punizioni inflitte al Vietnam dagli Usa per i suoi crimini, le inascoltate
voci delle vittime, le ricerche sugli oscuri meandri dell''animo umano' (ma
non oltre) per spiegare alcune deviazioni dalla nostra purezza originaria, ed
infine gli studi sulla 'mentalità giapponese' - tutto ciò ha coinciso
con il 50esimo anniversario di Pearl Harbor, insieme ad una nuova autocommiserazione
per il nostro tragico destino.
Chi pensa che la questione dei soldati dispersi rifletta i profondi impulsi
umanitari dei nostri leader si ricrederà subito considerando alcuni precisi
dati di fatto. Walter Wouk, veterano del Vietnam, presidente del Consiglio dei
Veterani per lo Stato di New York, scrive:
"Alla fine della Seconda guerra mondiale gli Usa avevano 78.751 dispersi, il 27% dei militari morti in combattimento. La guerra di Corea registrò 8177 dispersi, pari al 15,29% degli americani uccisi. Dei 2,6 milioni di americani che prestarono servizio nel Vietnam, 2505 - meno del 5,5% dei morti in battaglia - sono registrati come dispersi. Ma anche quella cifra non è esatta. Dei 2505, esattamente 1113 furono uccisi in combattimento, ma i loro corpi non poterono essere recuperati. 631 sono considerati probabilmente morti per via delle circostanze in cui sono scomparsi - ad esempio piloti schiantatisi in mare - e 33 sono morti in prigionia. Solamente i rimanenti 728 possono essere considerati effettivamente dispersi. Bisogna però notare che 590 (81%) erano piloti e che per 442 di loro (il 75%) vi sono forti elementi per poter dire che siano precipitati con i loro aerei".
I dispersi del Vietnam sarebbero forse un caso a parte per via del rifiuto dei feroci comunisti di permettere approfondite ricerche? Nella sua vasta indagine sul problema dei dispersi in guerra, Bruce Franklin ricorda che i resti dei soldati dispersi durante la Seconda guerra mondiale vengono trovati quasi ogni anno nelle campagne europee, dove nessuno ha mai impedito alcuna ricerca da 45 anni a questa parte. Inoltre le spoglie mortali dei protagonisti della battaglia del generale Custer del 1876 sono state rinvenute ancora per tutti gli anni '80, come anche gli scheletri dei soldati della Confederazione e dell'Unione, morti in Canada durante la guerra del 1812 (50).
Non è difficile capire quale sia la verità. Il complesso delle istituzioni e dei media sta in realtà facendo ricorso al vecchio trucco noto a tutti i piccoli delinquenti e avvocati di decima categoria: quando vieni sorpreso con la mano nella tasca altrui, urla 'al ladro! al ladro!' Non tentare di difenderti, ammettendo così l'esistenza di una plausibile accusa contro di te: piuttosto, sposta l'onere di difendersi su coloro che ti accusano. La tecnica può essere estremamente efficace quando si ha il controllo dei media e del sistema culturale. Il metodo è ben noto ai propagandisti ed è praticamente divenuto un riflesso incondizionato. L'operazione di propaganda contro la sinistra costruita sulla 'correttezza politica' ne è un chiaro esempio.
Tale espediente viene anche usato regolarmente dai dirigenti delle grandi imprese multinazionali, i quali si presentano sempre miseri e sulla difensiva perseguitati dagli attacchi dei media liberal, dei potenti sindacati e delle ostili forze di governo che gli impediscono di guadagnare onestamente. I loro uomini nei media fanno lo stesso gioco. Durante lo sciopero dei minatori a Pittston del 1989-1990, il presidente dell'azienda teneva conferenze stampa giornaliere, malgrado non vi fosse alcuna novità, per soddisfare i media così impazienti di lavorare per lui. Inoltre nel primo (ed unico) caso di vera cronaca televisiva, Robert Kulwich della C.B.S. annunciò che il presidente del "Pittston Coal Group" "Mike Odom è disposto a riconoscere che il sindacato ha condotto un'abile campagna di pubbliche relazioni, e che l'azienda dovrà recuperare il terreno perduto". Questo servizio ci fa capire come i media nazionali - nei loro rari cenni a questa storica lotta operaia - avessero adottato automaticamente il punto di vista dell'azienda fuorviando, con la loro usuale efficacia, i tentativi sindacali di presentare la realtà dal punto di vista dei lavoratori (51).
Lo stesso avviene sempre nel dibattito sui media. E' un gioco da ragazzi dimostrare la loro sottomissione al potere a proposito della guerra in Indocina, del Centroamerica e del Medioriente. Eppure, l'unica questione che ci è permesso discutere è se per caso non abbiano esagerato nel loro zelo contestatario, rischiando di compromettere le basi stesse della democrazia (gravi interrogativi soppesati nelle solenni deliberazioni della "Trilateral Commission" e della "Freedom House"). Tipico il fatto che una ricerca accademica su come i mezzi di comunicazione seguono il Centroamerica ed il Medioriente, condotta da un esperto con ottime credenziali liberal, si soffermi unicamente sul fervore anti-establishment dei giornali e delle T.V.: si è forse esagerato in questo senso o piuttosto gli accenti critici si sono mantenuti entro limiti accettabili? L'espediente di gridare per primo 'al ladro! al ladro!' risulta particolarmente efficace quando l'esperto ha fama di collocarsi nell'area estrema della dissidenza. E' questo il caso del noto corrispondente per il Medioriente della "National Public Radio", Jim Lederman, e della sua approfondita inchiesta sul sostegno caloroso dei media Usa per la causa palestinese, la loro strumentalizzazione da parte di Yasser Arafat ed il loro corrosivo odio per Israele - così evidenti anche ad uno sguardo superficiale. Esibendo le sue credenziali di liberal di sinistra, Lederman conclude che, malgrado le apparenze, non esistono prove di una consapevole congiura antisemita (52).
Così montagne di fatti possono essere occultate da un piccolo tratto
di penna. Una tecnica che richiede una lealtà assoluta da parte dei manager
della cultura. Ma qualche volta le masse sono più difficili da manipolare.
Nel caso del Vietnam, verso la fine degli anni '60, settori significativi dell'opinione
pubblica si unirono a coloro che il consigliere per la Sicurezza Nazionale di
Kennedy e Johnson, McGeorge Bundy, chiamò "i selvaggi dietro le
quinte" nel contestare la "squadra titolare" che dirigeva la
guerra, e persino la giustezza della causa Usa (53). Nonostante tutti gli sforzi
dei mass media, si arrivò così al punto in cui la barbarie omicida
della guerra Usa non poté più essere nascosta né difesa.
La prevedibile reazione del governo fu quella di gridare 'al ladro! al ladro!'.
Naturalmente, nulla di nuovo in tutto questo. Ma la situazione della guerra
in Indocina aveva ormai raggiunto un livello tale da richiedere l'adozione di
misure eccezionali per sviare l'opinione pubblica.
Così, verso la fine degli anni '60, gli scolari ricevettero il compito tramite il "Weekly Reader", il bollettino che raggiunge le scuole elementari di tutto il paese, di scrivere ad Ho Chi Minh supplicandolo di rilasciare gli americani da lui catturati - insinuando l'idea che i comunisti malvagi li avessero rapiti mentre i nostri soldati passeggiavano pacifici per qualche strada dell'Iowa e portati ad Hanoi per torturarli. La campagna raggiunse il suo apice nel 1969, per due motivi: innanzi tutto le atrocità Usa avevano raggiunto un livello tale da non poter essere più nascoste e, vista l'impossibilità di difendersi dalle accuse, l'unica cosa da fare era di sviare l'attenzione puntando i riflettori sulla natura malvagia del nemico: sui suoi crimini contro di noi; in secondo luogo, l'America finanziaria ed industriale aveva deciso che era ormai tempo di porre fine alla guerra. Quindi non sarebbe stato più possibile bloccare l'avvio di trattative. Ma la dottrina Eisenhower - Kennedy - Johnson teneva ancora duro: l'opzione diplomatica era fuori questione perché gli Usa ed i loro alleati locali erano troppo deboli politicamente per poter vincere nell'ambito di una concorrenza pacifica. Di conseguenza, Nixon e Kissinger intensificarono la guerra cercando in ogni modo di evitare gli indesiderati negoziati. L'espediente escogitato fu quello di porre come pre-condizione il ritorno dei prigionieri americani, una richiesta mai formulata prima da alcun paese belligerante, nella speranza che Hanoi, attenendosi alla tradizionale prassi occidentale, la respingesse. Washington avrebbe allora colto due importanti risultati: la possibilità di denunciare l'infamia dei comunisti ed un ulteriore rinvio del negoziato.
Dopo la fine della guerra vennero trovate altre scuse. La distruzione dell'Indocina non fu considerata una vittoria sufficiente: era necessario continuare a soffocare e schiacciare il nemico vietnamita con altri mezzi - il non ripristino dei rapporti diplomatici, la guerra economica ed altri metodi sempre a disposizione del più forte. L'operazione venne lanciata dal presidente Carter ed ulteriormente estesa in seguito alla 'svolta filocinese' del 1978. La stessa politica venne poi seguita da tutte le successive amministrazioni, con il sostegno della classe politica e dei media.
L'espediente di gridare per primi 'al ladro! al ladro!' ha avuto sempre pieno successo grazie all'acquiescenza degli istituti deputati all'indottrinamento della popolazione. Franklin esamina la questione in modo dettagliato, dimostrando come la stampa saltasse a comando nella mischia, mentre registi e giornalisti televisivi seguivano l'ingegnosa strategia di selezionare le più note atrocità degli Usa e dei loro alleati locali per trasformarle in crimini del nemico. L'estremo cinismo dell'impresa è sottolineato dai veri e propri salti mortali che furono necessari per passare dal dichiarato sdegno per le orrende atrocità di Pol Pot - in realtà del tutto fittizio nelle élite al potere, come dimostrato dalle loro non-reazioni alle atrocità Usa in Cambogia di pochi anni prima ed a quelle perpetrate, proprio in quel periodo, a Timor-Est dall'Indonesia, alleata degli Usa 54 - ad un giudizio più sfumato secondo il quale Pol Pot veniva sì condannato come simbolo dell'orrore comunista, ma l'invasione vietnamita (che salvò la Cambogia dalle sue atrocità) era presentata come un ancor più mostruoso crimine dei comunisti; così da giustificare in qualche modo il discreto sostegno americano a Pol Pot. Anche questo obiettivo fu raggiunto senza alcuno sforzo. Poi, dopo aver perso il pretesto della Cambogia con il ritiro vietnamita, le istituzioni ideologiche cambiarono tranquillamente marcia e si concentrarono, per giustificare le torture inflitte ai popoli indocinesi, sulla questione dei militari Usa dispersi.
Michael Vickery fa notare come ogni volta si sia presentata al Vietnam una possibilità, per quanto minima, di sfuggire alle misere condizioni nelle quali era stato lasciato dal crudele e distruttivo colonialismo francese, gli Usa abbiano fatto di tutto per farla svanire. Quando l'accordo di Ginevra del 1954 gettò le basi per l'unificazione del Vietnam, con la convocazione di elezioni in tutto il paese, gli Usa bloccarono il progetto sostenendo che così avrebbe vinto sicuramente la 'parte sbagliata'. Successivamente, la Repubblica Democratica del Vietnam (il Nord), nonostante non potesse contare più sulla ricca produzione agricola del Sud, con il 1958 era riuscita a raggiungere l'autosufficienza alimentare e a dar vita ad un processo di industrializzazione - con buone prospettive di successo che lasciarono sgomenti gli analisti Usa e li spinsero a suggerire, segretamente, di fare il possibile per ritardare il progresso economico degli stati comunisti asiatici in quanto questo poteva costituire un pericoloso esempio. Gli Stati Uniti erano particolarmente preoccupati dei progressi fatti dal Vietnam del Nord ai quali corrispondeva, peraltro, il fallimento del regime da loro imposto nel Sud: i servizi segreti americani nel 1959 avevano previsto che lo sviluppo nel Sud sarebbe "rimasto indietro rispetto a quello nel Nord", dove invece continuava la crescita economica "indirizzata a costruire le basi per un ulteriore progresso futuro". L'"escalation" bellica di Kennedy, con i suoi tragici effetti, risolse il problema.
Dopo la guerra il Vietnam fu ammesso a far parte del Fondo Monetario Internazionale e, in una relazione segreta del 1977, la Banca Mondiale "elogiò gli sforzi del governo vietnamita tesi a mobilitare le sue risorse ed a sfruttare il suo enorme potenziale". Gli Usa risolsero bruscamente anche questo problema, bloccando ogni assistenza ed imponendo il soffocamento economico del paese. Nel 1988-90, osserva Vickery, "malgrado un atteggiamento internazionale estremamente sfavorevole, il Vietnam riuscì ad avere un sorprendente successo economico" tale da spingere, secondo la "Far Eastern Economic Review", il F.M.I. a redigere un "rapporto entusiasta" sui progressi fatti. La risposta degli Usa si concretizzò nel rinnovo dell'embargo deciso da George Bush e, a livello delle istituzioni ideologiche, in un rinnovato fervore nel denunciare gli abusi che subiamo per mano dei criminali aggressori vietnamiti (55).
Esiste una razionalità nella pazzia. A parte l'opposizione di principio
ad uno sviluppo del Terzo Mondo fuori dal controllo Usa, le popolazioni sottomesse
devono capire che in presenza del loro padrone non devono alzare la testa. Altrimenti,
non solo quei paesi saranno devastati con incredibile violenza, ma dovranno
continuare a soffrire, finché lo riterremo vantaggioso per i nostri interessi.
Esempi classici sono il Nicaragua e, per altro verso, l'Iraq dove l'alleato
e amico di Bush, Saddam Hussein, ha osato trasgredire agli ordini Usa e così
con l'embargo abbiamo dovuto fare in modo che decine di migliaia delle sue vittime
morissero per fame e malattia dopo la fine della guerra. Secondo due specialisti
del problema della fame nel mondo, l'Occidente in Iraq sta smantellando con
severità quelle armi di distruzione di massa che lui stesso avrebbe fornito,
quando tutto ciò era redditizio e vantaggioso, a colui che ora definisce
un mostro, mentre allo stesso tempo scatena "la potenza devastatrice di
un'altra arma di distruzione di massa - il privare del cibo e di altri generi
di prima necessità il popolo iracheno" (56). I popoli assoggettati
devono capire quale sia il loro posto in un mondo di ordine e 'stabilità'.
Nel loro editoriale sul Vietnam in occasione dell'anniversario di Pearl Harbor,
i redattori del "Washington Post" notano:
"E' un'ironia della storia il fatto che gli Usa, pur avendo perso militarmente la guerra, abbiano imposto, da vincitori, le condizioni della normalizzazione. Lo hanno potuto fare perché sono tuttora il paese che rappresenta i valori mondiali dominanti ed influenza in maniera determinante gli equilibri regionali e l'economia internazionale. Questa la ragione per cui fu il Vietnam a dover fare tutte le concessioni".
Una dichiarazione, questa, di un certo valore ma che merita una piccola aggiunta.
I 'valori mondiali dominanti' celebrati dai redattori del "Post" sono
quelli di coloro che hanno il coltello dalla parte del manico e quindi decidono
le regole del gioco (57).
Nel corso dei 500 anni della Conquista sarebbe difficile trovare qualche cosa
di altrettanto sordido, disonesto e vigliacco quanto la propagandata, falsa,
autocommiserazione degli aggressori omicidi che hanno distrutto tre paesi, lasciando
montagne di cadaveri e innumerevoli mutilati ed orfani, tendente ad ostacolare
un accordo politico che i loro alleati erano troppo deboli per sostenere - un
fatto che emerge chiaramente dai documenti Usa, che è stato analizzato
in dettaglio dagli storici militari ed ammesso anche dagli 'studiosi' governativi
più di parte (58). La vera 'ironia della storia' è data dal fatto
che questo spettacolo vergognoso continui, tranquillamente, mentre noi riflettiamo
sui difetti della 'mentalità dei giapponesi'.
Note:
N. 50. Wouk, "Chicago Tribune", 2 giugno 1992. Franklin, "MIA".
N. 51. Puette, "Through Jaundiced Eyes", cap. 7.
N. 52. Per una discussione di questi esempi, vedi Chomsky, "Towards a New
Cold War", 68n., 89n.; "Manifacturing Consent", sez. 5.1, 5.5.2,
app. 3.; "Necessary Illusions", app. 1, sez. 2. Lederman, "Battle
Lines"; vedi la mia 'Letter from Lexington', "Lies of Our Times",
settembre 1992, per approfondimenti.
N. 53. Bundy, "Foreign Affairs", gennaio 1967. Vedi "Manifacturing
Consent", p. 175.
N. 54. Su questi paragoni illuminanti e quindi intollerabili, vedi Chomsky,
"Political Economy and Human Rights", vol. 1, 2; "Manifacturing
Consent".
N. 55. Vickery, "Cambodia After the 'Peace'". Sui documenti interni
Usa, vedi "For Reasons of State", 31n., 36n.
N. 56. Drèze e Gazdar, "Hunger and Poverty".
N. 57. Vedi nota 32. Sulla convinzione che gli Usa 'hanno perso la guerra',
e l'importanza di questo, vedi Chomsky, "Manifacturing Consent", 241n.n.
N. 58. Per esempio, Douglas Pike. Per fonti e approfondimenti, vedi "Manifacturing
Consent", 180n. "Political Economy and Human Rights", vol. 1,
338n. Vedi "Rethinking Camelot", cap. 2.3 .