Mercoledì 17 settembre si è aperta la prima udienza del processo d'appello Silocchi; riportiamo qui una breve storia di questo procedimento infame a carico anche di alcuni anarchici che sono successivamente stati 'inseriti' nell'inchiesta Marini per banda armata. Il processo procederà al ritmo di un'udienza al giorno almeno fino al 24 settembre.

Ricordiamo che il 20 ottobre si aprirà a Roma nell'aula bunker del carcere di Rebibbia (ore 9) il processo Marini. L'INGRESSO E' CONSENTITO A TUTTI.

Per ulteriori info contattare Comitato Difesa Anarchici


Il 18 Dicembre 1996, la Corte di Cassazione di Roma ha deciso l’annullamento del processo Silocchi, quindi ha cancellato le condanne contro Orlando Campo, Gregorian Garagin, Giovanni Barcia, Rose Anne Scrocco, Francesco Porcu, Bachisio Goddi, Giovanni Sanna ed Antonio Staffa, accusati e condannati in primo e secondo grado per il rapimento di Mirella Silocchi.


Il processo di primo grado - durato oltre tre mesi (dopo una istruttoria di tre anni e mezzo) - dette inizio al nuovo modo di gestire la giustizia ("strage del Pilastro", "processo Pacciani", "processo sull’Autoparco di Milano") da parte di magistrati come, ad esempio, ex Procuratore Capo della Repubblica di Firenze PierLuigi Vigna. Da notare che proprio Vigna figurava anche fra i conduttori dell’indagine del sequestro Silocchi e che da uno stralcio di una sua inchiesta si è sviluppata la recente montatura giudiziaria portata avanti dal P.M. di Roma Antonio Marini. In secondo grado l’anarchico Giovanni Barcia, che era stato assolto, è stato condannato al carcere a vita ed Antonio Staffa si era visto ridurre la pena dall’ergastolo a 30 anni.


Questi sono i fatti più significativi di questo "affaire" giudiziario. Nel luglio del 1989 viene rapita Mirella Silocchi, moglie di un facoltoso industriale del ferro di Parma. Nel corso dei primi venti mesi le indagini non approdano a nulla. Poi, il questore Improta (nel 1969 capo della squadra politica della questura di Roma, distintosi come uno dei responsabili dell’incriminazione dell’anarchico Pietro Valpreda per la strage di Piazza Fontana) delinea una sua tesi, in base alla quale i responsabili si devono cercare all’interno delle comunità sarde, con l’implicazione di anarchici italiani e armeni.
Un bricolage di montature le quali si intersecano l’una con l’altra grazie al contributo di personaggi soggiogati e ricattati, senza una sola prova di riscontro. Alcuni imputati si frequentavano prima del fatto, questo è considerato l’elemento connettivo necessario a tenere in piedi la tesi di Improta.

Il processo di primo grado tenuto a Parma nel 1993 in un clima di terrore, a suo tempo era stato poco più di una farsa con testimoni dell’accusa non presentati, oppure lasciati nell’anonimato più assoluto. A sostegno della tesi accusatoria sostenuta dal P.M. Brancaccio, soltanto testimonianze e verbali di poliziotti. Un processo da inquisizione: la difesa non poteva provare l’estraneità degli imputati al processo dato che l’accusa non forniva prova alcuna della loro implicazione.

Nel processo di appello, la Corte di Bologna presieduta da Giudice Mariano Ferrigno, ha accettato qualche richiesta marginale della difesa, ma ne ha negato le più importanti. Solo per citare alcune delle "macroscopiche" incongruenze emerse nei due gradi in quel procedimento c’è da ricordare, per esempio, il fatto che sia stata negata la presenza dei componenti della famiglia Sforza, che in primo grado avevano avuto un ruolo fondamentale nell’accusa; poi venne ritenuta valida come prova una macchina da scrivere sequestrata a casa di uno degli imputati (secondo l’accusa era servita per mandare i messaggi alla famiglia della rapita) che risultò essere stata costruita e commercializzata in epoca successiva a quella del rapimento.

Inoltre sembrano non avere alcun peso le dichiarazioni portate in secondo grado dal fratello di Mario Giau, il quale ha testimoniato che quest’ultimo veniva ricattato dalla polizia la quale lo aveva utilizzato per reperire i frammenti di ossa e l’anello "trovati" nel podere di Bachisio Goddi, per poter intascare la somma di lire 200 milioni che il marito della rapita aveva promesso a chi gli facesse avere almeno le ossa della consorte, premio diviso con chi gli aveva fatto la richiesta, resti che gli furono forniti da un pentito di mafia e dalla sua donna (pentito che gode di grande rispetto presso gli inquirenti e i magistrati, faccenda questa che anche costoro hanno confermato davanti alla Corte di Bologna). I reperti vennero depositati nel pozzo del podere Goddi dopo che gli imputati erano già in stato di arresto dopo che tale podere e relativo pozzo, erano già stati minuziosamente perquisiti più volte dagli investigatori senza trovare nulla. Ciònonostante in sede processuale un perito dimostrò, dopo un esame del fango che ricopriva il sacchetto contenente detti reperti, che lo stesso non poteva essere stato depositato più di tre giorni prima del ritrovamento.

E ancora, perché non si è mai verificato se le ossa ritrovate, come anche alcuni capelli che sono stati rinvenuti nella presunta prigione, appartenevano realmente a Mirella Silocchi? La possibilità di fare questo esame c’era, dal momento che i familiari della rapita erano in possesso di un lembo di orecchio e di alcuni capelli che gli erano stati fatti pervenire dai rapitori.

Vennero quindi ritenute attendibili le testimonianze di un altro pentito, Marcello Mele, nonostante costui continui a giurare ancor oggi di non aver mai fatto le dichiarazioni che gli addebitano in merito al sequestro Silocchi e che peraltro non sono mai state verbalizzate ne da lui firmate, come invece sono state verbalizzate e sottoscritte dallo stesso le sue confidenze riguardanti altri fatti di cui era a conoscenza. E non è finita: un’altra delle cosiddette prove sarebbe una fotografia che venne fatta recapitare dai rapitori ai familiari della rapita come prova che quest’ultima era ancora in vita, in cui era ritratta, oltre alla signora Silocchi, un’arma che sarebbe poi stata rinvenuta in un cosiddetto covo anarchico ed una bisaccia che secondo una testimonianza sarebbe stata vista in possesso di uno degli imputati. Peccato che tale fotografia non sia stata oggetto di riscontro poiché, su autorizzazione della magistratura, venne consegnata dal marito della rapita ad un "rabdomante" o qualcosa del genere e da questi, ....semplicemente perduta!

Questi sono solo alcuni dei "lati oscuri" di questo procedimento, e probabilmente sono risultati troppi anche per una Corte di Cassazione.


Comitato Difesa Anarchici c/o El Paso Occupato
Via Passo Buole 47, 10127, Torino
elpaso@ecn.org
http://www.ecn.org/zero/anarchy.htm