Capitolo 8
8 settembre 1943, ritorno ad Albano
Roma mi offrì uno spettacolo poco edificante. Gente con enormi fagotti e in tutte le direzioni. Nei pressi della stazione la gente è coricata per terra. Come avrei passato la notte? Sarei andato da mia cugina Alfonsina: abitava in Via Alba n. 13. Tram non ne vedevo, mi misi in cammino nella direzione di S. Giovanni. Nelle sue vicinanze riuscii ad appollaiarmi al predellino di un tram stracarico che andava a Cinecittà. Non sapevo precisamente dove si trovasse via Alba, lo domandai ad uno che era vicino a me sulla vettura, mi rispose che era nei pressi di Piazza Re di Roma, seconda o terza via a sinistra dopo tale piazza. Scesi.
Di gente in giro se ne vedeva ben poca, ora: era l'una dopo la mezzanotte. Il semibuio non mi permetteva di vedere la targa ove era scritto il nome della via, grazie al lampo originato dal pantografo che scorre sotto la linea elettrica trasmettendo la forza motrice al tram. Al n. 13 sembrava quasi che mia cugina mi stesse aspettando. Tutta la giornata del giorno prima mia madre era stata ad attendermi! Alfonsina mi diede qualche informazione su Albano. Le dissi che nella mattinata mentre lei si sarebbe recata ad Albano, io avrei avuto da fare un'oretta per Roma. Mi ero impegnato con Aldo Falchetti di compiere una commissione presso sua moglie che abitava a via Capo d'Africa. Dopo aver visto la moglie di Falchetti, che egli non avrebbe rivisto mai piò, ritornai sulla via Appia, per trovare il primo mezzo che mi fosse capitato e raggiungere Albano.
A piazza Re di Roma mi sentii chiamare da un soldato che era sul tram dei Castelli che andava in direzione di S. Giovanni: era Giovanni Nardi, mio cugino, col quale ho trascorso molti anni della mia infanzia. Scese dal tram e corse ad abbracciarmi. La sua famiglia è stata considerata da me sempre come la mia, sua madre era sorella della mia. Volle condurmi da zio Armando, ma ero titubante ad accettare il suo invito; in nove anni che ero stato in carcere, non mi era venuto un saluto da lui. Ci mettemmo in strada per trovare un mezzo, ne trovammo due o tre, ma o si scansavano per strada o ci portavano avanti per un pezzo e poi prendevano un'altra direzione. Riuscimmo a raggiungere Frattocchie e qui aspettammo un pò, fino a che Giovanni riuscì a far fermare un fac-simile di furgone e per impietosire il conducente e convincerlo a farmi salire, gli disse che ero sul punto di rendere l'anima al Signore. A me questo sistema di procedere di Giovanni non piaceva affatto, ma non mi potevo mettere a discutere con lui e smentire ciò che aveva detto. Ad ogni buon modo quel conducente aprì la portiera posteriore e mi fece salire.
Arrivai ad Albano che saranno state le 17,30 circa dell'8 settembre
1943 . Rividi presto i miei, erano alquanto invecchiati, e dentro di me, vedendoli,
sentii qualche cosa che mi faceva male. Mia mamma poveretta, in occasione del
mio ritorno, esattamente dopo 12 anni e due mesi, aveva preparato le ciambelle
e le offrì a tutti i compagni che si affacciavano a casa di mia zia Ersilia,
presso la quale ci trovavamo, al vicolo del Sambuco. Rividi tutti i miei compagni:
Angelo Monti, Armando Marescialli, Domenico Catani, Filippo Borelli, Luigi Benedetti
e tanti altri. Dopo un pò mi appartai con Angelo Monti, il quale mi mise
al corrente per sommi capi della situazione locale. Alle 10,42, le stazioni
della radio misero in onda un comunicato straordinario del maresciallo Badoglio
che annunciava di aver chiesto l'armistizio al generale
Eisenhower e che tale richiesta era stata accettata, di conseguenza cessava
ogni atto di ostilitè nei confronti delle forze anglo-americane da parte
delle forze italiane in ogni luogo: "Esse, però, reagiranno all'evenienza
di attacchi da qualsiasi altra provenienza". Tale notizia ci colse mentre
eravamo riuniti nel bar della Sora Paolina, suocera del compagno Luigi Benedetti,
a dare fondo ad una bottiglia di liquore. Intervenne un compagno che portava
un pacco di manifestini di lingua tedesca rivolto ai soldati tedeschi. Era un
appello in cui si diceva che gli Italiani volevano la pace e volevano smettere
con la guerra; che essi non avevano nulla contro i soldati tedeschi e volevano
fraternizzare con loro e li invitavano a non impugnare le armi contro i soldati
italiani ma a tornarsene nel loro paese, perchè come a noi la guerra
costava gravi sacrifici e contributi di sangue, così era anche per loro.
"Sia noi che loro, abbiamo bisogno di pace!". Si formarono lì
per lì le squadre di compagni che sarebbero andati a distribuire i manifestini
fra i soldati tedeschi e le squadre che sarebbero andate a fare le scritte sui
muri: Armando Marescialli, Filippo Borelli, Biagio Moriggi, Innocenzo Brugnoli,
Giovanni Nardi ed altri. Intravidi appena Alfio Mandrella che stava parlando
con una certa fretta con Angelo Monti. Questi era stato messo al corrente che
si stavano conducendo trattative con il comando della divisione <Piacenza>
, par farsi consegnare armi, per poter armare parte della popolazione che sarebbe
intervenuta al fianco del nostro esercito, nel caso che i tedeschi l'attaccassero.
Per tutta la sera Angelo Monti ed io attendemmo che ci venisse qualche segno
da Genzano a casa del Monti stesso, e cercammo di compilare, nell'attesa sulla
carta, le eventuali squadre che avrebbero dovuto essere armate. Ma l'attesa
diveniva troppo lunga e snervante e per di piò ci accorgevamo che il
lavoro che stavamo facendo era proprio "sulla carta". Alla fine ci
separammo: egli sapeva bene dove trovarmi nel caso fosse avvenuto qualche cosa.
La mattina del 9 settembre, erano appena le cinque, venni svegliato da colpi
di cannone; nella stessa via dove abitavo sentii crepitare vicinissimi vari
colpi di arma da fuoco. Dovetti compiere un gesto quasi brutale nei confronti
di mia madre che voleva impedire a tutti i costi di uscire. Corsi a casa di
Angelo Monti che era vicinissima alla mia, anche qui si ripetè la stessa
scena che si era svolta pochi minuti prima a casa mia. Ci rendemmo subito conto
che i Tedeschi stavano realizzando un piano meticolosamente preparato da tempo.
Gli ufficiali del comando della divisione <Piacenza> , quegli stessi che
avevano risposto ai nostri compagni di non darsi pena perchè sapevano
loro cosa avrebbero dovuto fare in caso di un attacco tedesco, si lasciarono
sorprendere in un albergo, qualcuno di essi riuscì a svignarsela mezzo
nudo fuggendo attraverso i tetti, gli altri furono arrestati dai tedeschi. Una
caserma sita in fondo alla stessa via dove abitava, in via del Collegio Nazareno,
adibita al scuola dei pompieri, corpo militarizzato, fu presa d'assalto e in
men che non si dica, sbaragliata da pochissimi tedeschi armatissimi. Una compagnia
della divisione <Piacenza> non si lasciò sorprendere e nella Villa
Comunale rispose al fuoco dei tedeschi e se questi erano coadiuvati da qualche
fascista locale come Leonardo Bellagamba, vi erano dei popolani come Gioacchino
De Cesaris (Callararo), Achille Sbordoni (Basettone) entrambi comunisti che
combatterono insieme a David Tiroferri a fianco dei nostri soldati. Un'altra
unitè della divisione <Piacenza> di artiglieria divisionale, acquartierata
nei pressi di "Cataletto" nell'oliveto di Lorenzo Piervitale - podestè
del paese - all'ingiunzione di arrendersi, da parte dell'esercito tedesco, non
ebbe nessuna reazione e si diede alla fuga.
Per Albano non si vedeva nessuno, ci rifugiammo nella villa pontificia, dall'interno vedevamo tra le fessure dei cancelli sulla via che va a Castel Gandolfo, passavano di quando in quando qualche macchina con ufficiali tedeschi a bordo: sembravano ed erano i padroni. Mi separai da Angelo con il proposito di rivederci entro qualche giorno, ci consigliammo a vicenda di non farci prendere dai tedeschi e di cercare di mettere in guardia tutti i compagni. Andai da mio fratello Ferruccio che con sua moglie Leonina, sorella di Angelo Monti, conducevano un vigneto a mezzadria a circa un chilometro e mezzo dal paese, sulla stessa strada dove sulla sinistra c'era l'oliveto dove era accampata l'unitè divisionale di artiglieria, sulla destra, chiamato localitè "Cese" stava mio fratello. Il giorno 11 settembre ospitato da mio fratello, mi venne presentato il capitano dåartiglieria, Mario Acosto di Cuneo del comando dell'Unitè di artiglieria che era lì nei pressi. Mi chiese cosa avrei fatto se mi fossi trovato al suo posto. Gli risposi chiedendogli se avesse una pistola e alla sua risposta affermativa gli dissi che si sparasse! "Lei mi domanda" incalzai "Cosa avrebbe dovuto fare? Ma quali ordini ha dato al suo comando quando i tedeschi si sono presentati e vi hanno imposto di arrendervi. Vi siete lasciati sorprendere?". Allargò le braccia dicendo: "Che si poteva fare, se tutti cercavano di scappare?". Riconosco di essere stato un pò troppo brutale con quel giovane capitano, avrei dovuto aver maggior tatto nei suoi confronti e soprattutto non mi perdono che in quel momento non mi era per nulla balenata l'idea che lui poteva essere benissimo uno dei giovani ufficiali del risorgente esercito italiano di liberazione. Ero molto furioso ed amareggiato per aver veduto migliaia di soldati italiani guidati da comandi felloni, deporre, nella grande maggioranza dei casi, le armi senza combattere di fronte a poche centinaia di soldati tedeschi. Ciò mi aveva accecato ed impedito di distinguere immediatamente tra l'esercito inquinato di fellonia, fascismo e tradimento al vertice e giovani ufficiali onesti, che non avevano nessuna responsabilitè per quello che era accaduto. Salutandomi, quel giovane mi disse che avrebbe passato le linee per andare a combattere a fianco degli alleati contro i fascisti e volle regalarmi la sua pistola di ordinanza - una Beretta calibro nove - come suo ricordo.
L'11 settembre, con mia cognata Leonina, andai a dare una "guardata"
nell'oliveto dove era l'unitè di artiglieria comandata dal capitano Mario
Acosto, per vedere se si poteva recuperare qualche arma per noi. Scorsi pezzi
di mitraglia, fusti di cannone, pezzi vari di arma staccati e sparsi nell'ampio
oliveto, elmetti, lembi di coperte: era giè ben visibile che il campo
era stato rovistato dagli sciacalli. Vidi un mitragliatore Breda semicoperto
da un cespuglio. Esso fu la prima arma automatica pesante di cui avremmo disposto.
In seguito la venne a ritirare il compagno Salvatore Gabbarini e altri compagni
per armare le squadre di Genzano. In seguito l'arma l'avrebbero utilizzata i
soldati sovietici che sarebbero andati a stare qualche tempo nella contrada
"Muti" nei pressi di Genzano.
Immediatamente, dopo l'8 settembre sentiamo la voce del nostro partito e ricevemmo
le direttive che ci interessavano: "Nel momento in cui il nazismo tenta
di restaurare a Roma ed in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti
si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli Italiani
alla lotta e alla Resistenza per conquistare all'Italia il posto che le compete
nel consesso delle libere nazioni". "Oggi
per i figli d'Italia c'è un solo fronte: quello contro i tedeschi e contro
la quinta colonna fascista. Alle armi!".
Con i compagni di Albano decidemmo di convocare in assemblea tutti i compagni tramite le cellule composte da 25-30 persone, in questa o quella casa, per chiarire di fronte a tutti la situazione nuova in cui ci eravamo venuti a trovare e i compiti che si ponevano di fronte a tutto il Partito, di fronte a tutti i compagni: la lotta senza quartiere contro l'occupante tedesco e contro tutti i loro servi italiani. In questa lotta dovevamo far partecipare direttamente o indirettamente tutto il popolo di Albano.