Capitolo 7

1943 L'annuncio della caduta di Mussolini

La mattina del 26 luglio 1943, mandandoci ad avvertire dal detenuto Palocco che voleva parlarci, il direttore del carcere di Pianosa, signor Mazzeo, che pochi giorni prima ci aveva mostrato i pugni perchè antifascisti, esclamò: "Vi annuncio che Maramaldo dei Maramaldi è caduto!". Nessuno di noi comprese subito ciò che volesse intendere e ci guardavamo in viso gli uni con gli altri, qualcuno forse, aveva compreso quello che egli avesse voluto dire, ma ciò che lo rendeva incredibile era proprio la figura del direttore, che con quella comunicazione operava un cambiamento di rotta di 180 gradi netti di ciò che aveva espresso fino a pochi giorni prima.

8 Settembre 1943Gli venne in aiuto Massimo Palocco che ci tenne a precisare: " Il signor direttore ha voluto annunciarvi che Mussolini è caduto, non è piò in carica. Il re ha nominato capo del Governo e primo ministro Pietro Badoglio" . Figuriamoci l'emozione, l'entusiasmo, la gioia tra di noi! Libero Boasso, un torinese, afferrò svolto un pezzo di carbone e scrisse sul muro di cinta, dirimpetto al direttore che se ne restava impalato, come un babbeo, senza che nessuno gli si facesse vicino, mentre rimaneva sulla soglia dell'ingresso che dal cortile portava alle camerate: "Viva il Comunismo!" E mentre in quel momento il direttore sembrava svegliarsi come se avesse ricevuto una mazzata sul capo alla vista di quella scritta, Enrico Minio, molto piò intelligente ed abile col pezzo di carbone in mano tracciò con mano sicura la scritta che da quel momento rappresenterà per noi l'indicazione strategica nostra: "Viva l'Italia libera!..." .

Tutti quanti eravamo in uno stato di eccitazione nervosa, si poneva all'ordine del giorno la liberazione di tutti noi da un momento all'altro, non solo, ma ci rendevamo conto piò o meno della situazione che avremmo trovato fuori; con i tedeschi in casa con i quali avremmo dovuto fare i conti e non solo con loro, ma anche con i fascisti che sarebbero stati i manutengoli dei tedeschi. Una frattura fra la classe dirigente nel nostro paese l'aspettavamo da un momento all'altro. Non si poteva pensare di andare avanti all'infinito con le batoste che prendeva su tutti i fronti di guerra l'esercito fascista. Uno sfaldamento all'interno della classe dominante doveva avvenire in un modo o nell'altro. Non poteva essere che tutti fossero d'accordo col proseguimento della guerra, del suo andamento. Noi pensavamo che il patatrac fosse successo al momento delle perdite della Libia e della Tripolitania. Ora, non vedevamo l'ora di essere fuori, facevamo continue pressioni sulla direzione affinchè richiamasse l'attenzione delle autorità per farci rimettere in libertà. Il direttore, signor Mazzeo, per tenerci buoni ci concesse i bagni al mare per qualche giorno la settimana, ma malgrado tutti i nostri reclami e soprattutto nonostante la pressione che i commissari, nominati dallo stesso maresciallo Badoglio su designazione delle correnti antifasciste, facevano e il compagno Roveda che pose la condizione, per accettare la carica, che si procedesse senza indugio alla liberazione dei detenuti politici, solo nella seconda metà d'agosto la maggior parte di essi tornarono alle loro case.

Le difficoltà della burocrazia sono tante e tali che vi sarebbero stati dei compagni che sarebbero rimasti sorpresi degli avvenimenti di settembre, senza aver recuperato la libertà. Tale – stata la situazione di molti compagni che erano con me nell'isola di Pianosa e ve ne erano senza dubbio anche a Porto Longone.

A prescindere dagli avvenimenti di luglio, io avrei dovuto essere liberato la mattina del 5 settembre 1943, per fine pena. Ora, a Pianosa, una quindicina di giorni prima del termine della pena, ci separavano dai compagni, facendoci trascorrere un giorno o due nei pressi di Preventozio e poi trasportandoci dall'isola di Pianosa all'isola d'Elba, ci facevano trascorrere gli ultimi giorni di carcere a Porto Longone. Aldo Fracastoro di Verona, venne trasferito da Pianosa a Carcere di PianosaPorto Longone una settimana prima di me. Enrico Minio fu il primo e il solo che venne liberato il 25 agosto. Il 26 agosto venni trasportato a Porto Longone. Avevo delle prove che Minio era passato da Porto Longone. Porto Longone sembra una sosta quasi obbligatoria per chi proviene da Pianosa. Ritrovai a Porto Longone Aldo Fracastoro, ci rivedemmo la mattina del 27 agosto all'aria, da lontano; ogni tanto dalla sua cella mi dava voce dicendomi: "Che in Italia vi sono molte fortezze da smantellare". La mattina del 29 agosto lo portarono via, lo avrei rivisto nell'estate 1959 a Roma, dove mi venne a trovare con un suo amico regista. La mattina del 4 settembre, vidi da lontano, all'aria, i compagni che avevo lasciato all'isola di Pianosa. Vi erano tutti: Cesare Manetti di Castelfiorentino, Ercole Bazzini di Como, un operaio della Breda di Milano, Libero Boasso di Torino, Marcello Canova di Bologna, Libero Malaguti di Anzola Bolognese, Cino Cioni di Empoli, Aldo Falchetti di Roma, Enrico Bonazzi di Bologna, Alcibiade Palmieri di Bologna, Angelo Chiaroni di Ferrara, Giuseppe Bigiardi di Biella e qualche altro ancora. Ma a Porto Longone non vi erano solo i compagni che avevano trasportato dall'isola di Pianosa, vi erano altri compagni detenuti a Porto Longone che non erano stati affatto scarcerati. La prova – data dal fatto che la mattina del 5 settembre, mentre ero chiuso in cella, in un attimo, vidi inquadrata nell'apertura dello sportello ove passavano la spesa, il viso di Vittorio Saltini di Reggio Emilia che mi disse svelto di stare molto attento ad una certa persona, perchè era una spia. E come c'era Saltini, c'erano anche altri, impossibile che fosse il solo. Questi compagni non furono affatto scarcerati, ma trasferiti nel Nord, nel carcere di Fossano e furono liberati dai partigiani, ma tre di essi sarebbero stati uccisi in uno scontro con i nazifascisti: Cesare Manetti, Ercole Bazzani e Aldo Falchetti. Vittorio Saltini divenuto un capo partigiano sarebbe poi stato ucciso da una squadra di fascisti che gli tesero un agguato nei pressi di casa.

Finalmente, la mattina del 6 settembre, dopo avermi lasciato protestare per tutta la giornata del 5, perchè in tale giorno avrei dovuto essere liberato, con un foglio di via e con un'auto simile ad una giardinetta, insieme con un altro compagno di Bologna, Corrado Colombari, ci condussero a Porto Ferraio, che riusciamo a raggiungere verso le 16 con le ossa tutte rotte: cinque ore aveva impiegato la macchina per fare il percorso. Appena scendemmo, ci avvicinarono dei compagni e chiesero di Severino Spaccatrosi. Mi dissero che Minio, era piò di una settimana che era passato, che sarei presto passato di lì. Ci portarono in trattoria e ci fecero mangiare abbondantemente, indi, dopo averci portato un pò in giro con loro, ci accompagnarono all'albergo, dicendoci che sarebbero venuto a prenderci l'indomani mattina per portarci all'imbarcadero per prendere il battello che ci avrebbe condotto a Piombino.

Ho commesso una gran stupidaggine a non aver chiesto un vestito, sia pure di cotone all'amministrazione carceraria. Ho rifiutato di richiederli anche a casa. Il vestito che indossavo allorchè ero stato carcerato 9 anni prima, lo avevo mandato a casa per farlo indossare a mio fratello Corrado, dal momento che era ancora nuovo. Accettai un paio di pantaloni di tela turchina e una giacca di stoffa inglese che mi volle offrire Aldo Fracastoro, ma lui era un pezzo d'uomo alto 1.80. Il sarto del carcere che avrebbe dovuto arrangiarmi un po i pantaloni li aveva solo accorciati e poi non riesco ancora a capire perchè, tendevano a scendermi sempre piò giò, malgrado stringessi tanto la cinghia; ogni tanto mi dovevo fermare un pò per tirarmi su i calzoni. La giacca, poi, era troppo pesante, mi teneva caldo e malgrado avessi cercato un pò di stringerla, mi stava ancora troppo larga, particolarmente le spalle: erano enormi. Le scarpe, poi, che "Bambolino" (Domenico Della Rosa) mi volle confezionare, in carcere mi sembravano bellissime: ora che ero fuori - erano di pezza - mi sembravano assolutamente ridicole.
La mattina deI 7 settembre i compagni di Portoferraio ci accompagnarono all'imbarcadero e mi additarono ad un marinaio gigantesco - doveva essere un compagno - che aveva al fianco un pistolone altrettanto gigantesco. Non sono mai riuscito a capire che funzione avesse quel marinaio, il quale, sul cassero del battello, non faceva altro che guardare a babordo, a prua, a tribordo come se dovesse emergere da un momento all'altro la torretta di un sottomarino. Ci tenne in ansia, col suo modo di fare, con quel pistolone in mano per tutta la traversata; cosa avrebbe mai potuto fare nel caso fosse emerso davvero un sommergibile, non lo so davvero!

A Piombino erano ad attenderci i compagni e prima ancora che scendessimo il marinaio ci aveva indicato ai compagni. Minio aveva detto che si era recato dagli zii che aveva a Torino, ma sarebbe ritornato presto a Roma. Anche i compagni di Piombino ci portarono a mangiare. Caspita! Del prosciutto e quanto! Quanti anni erano che non se ne mangiava! Quanta pasta asciutta! I compagni proprio sapevano che avevamo della fame arretrata. Ci fecero cucinare un coniglio arrosto ciascuno, perchè la parte che non riuscissimo a mangiare ci sarebbe dovuta servire durante il viaggio, il quale sarebbe durato ancora parecchie ore. Nel pomeriggio ci separammo dai compagni ringraziandoli conservando per loro e per quelli di Portoferraio un affettuoso e fraterno ricordo. Da Piombino raggiungemmo Campiglia. Marittima su carri bestiame, da lì Colombani attese il treno proveniente da Roma per Pisa, io invece, attesi quello che veniva da Livorno per Roma. Partito da Campiglia verso le 17 raggiunsi Roma verso la mezzanotte. Avevo una valigia pesantissima, piena di libri che mi dovetti portare oltre due chilometri, prima di giungere al bagagliaio della stazione Termini e depositarla.