Capitolo 6

Trasferimento di carcere in carcere

Nel reparto politici, dove venni messo con il mio compagno di viaggio - anche quelli condannati per spionaggio sono considerati politici - vi erano cinque o sei condannati per spionaggio, Luigi Delfini di Velletri e Ersilio Belloni di Milano (29); c'era un altro anarchico molto avanti con gli anni, Paolo Schicchi di Collesano (Palermo) (30). Di comunisti ne trovai soltanto quattro: Beniamino Feruglio, Vittorio Furias, Ermanno Solera, Ianco Manfreda (31).

Tra questi nostri compagni non esisteva un collettivo, praticamente tra di essi non vi era nessun legame. Vi erano celle abbastanza ampie ove al massimo ci potevano stare tre persone.

Feruglio era in una cella insieme a Lango ed a Manfreda. Il Solera ed il Furias erano in una cella e classificati tubercolotici, io ero in una cella con due condannati di spionaggio classificati dal punto di vista diagnostico cronici. Feci subito domanda per essere tolto dalla cella dove mi avevano messo per essere trasferito in quella di Solera e di Furias, preferivo stare con due compagni tubercolotici, piuttosto con degli elementi con i quali non avevo nulla in comune. Così, dopo qualche giorno venni accontentato. Già prima che giungessi a Turi di Bari, il Feruglio aveva preso un'iniziativa, quella di tenere un corso sulla storia della filosofia, per la quale utilizzava i tre volumi del Fiorentino. La mattina, all'aria, teneva una conferenza di un'oretta che non era altro che una dissertazione dello stesso Feruglio, secondo la sua interpretazione di ciò che sosteneva il Fiorentino. Ad esso vi partecipavano quei pochi compagni e qualche elemento di spionaggio. Io per un pò partecipai a questi corsi ma poi cominciai a mettere in dubbio sia il modo come esso veniva svolto - il Feruglio non faceva altro che ripetere senza nessun commento critico ciò che diceva il Fiorentino - sia la materia stessa per la quale non avevamo una partecipazione attiva dei compagni ma solo una partecipazione passiva, di conseguenza, bisognava vedere secondo me se vi erano altre materie che avrebbero potuto interessare di piò i compagni e stimolarli a partecipare attivamente. Solera e Furias, con i quali ero a piò diretto contatto, pure essendo convinti che era giusto fare corsi come dicevo io, mi facevano comprendere, però allo stesso tempo, che per loro andava bene anche così, in quanto essi non se la sentivano di studiare perchè erano troppo presi dalla loro malattia. Fu allora che approfittai di un vaglia di cinquanta lire che mi era stato trattenuto al momento del mio trasferimento da Roma e lo utilizzai per acquistare un libro. Non ricordo se il titolo esatto fosse "La Magna Carta" ove, oltre a riportare le carte dei diritti dei vari Stati moderni riportava anche il manifesto dei comunisti e un importante scritto di Antonio Labriola intitolato "In memoria del manifesto"(PDF). Naturalmente, per averlo, dovetti fare prima domanda al Ministro di Grazia e Giustizia e farmi dare l'autorizzazione e soltanto dopo averla avuta, potei acquistarlo. Avevo appena ricevuto questo libro che arrivarono due nuovi compagni: Giovanni Carai e Giuliano Silli (32).

L'arrivo di questi due compagni e la loro volontà di studiare provocò il mio trasferimento dalla cella dove mi trovavo alla loro e lì costruimmo il primo nucleo di collettivo e discutemmo un piccolo piano di studio. Mettemmo insieme il nostro denaro (disponevamo di circa 60 lire mensili) e di comune accordo stabilimmo da stanziare 10 lire al mese per acquistare dei libri ed il rimanente le dividevamo per tre affinchè ognuno potesse spenderli come piò gli piaceva. Il secondo libro che avremmo acquistato sarebbe stato il "Nuovissimo Melzi". Cominciammo lo studio del manifesto, le tre internazionali, la grammatica italiana. Da solo mi dedicai allo studio del tedesco, del francese e della matematica.

Dopo due o tre mesi, come una ventata di aria pulita arrivarono altri sette compagni: Marcello Canova, Bernardo Pancaldi, Ervè Ferrioli, Bruno Losi, Pietro Romanò, Paolo Erba (33).

Con Marcello Canova ci conoscevamo da tempo, da quando eravamo entrambi a Mosca. Egli è un compagno molto bravo e attaccato al partito, preciso che fa di tutto per elevare il suo livello politico e culturale generale. Proprio in quei giorni mi concessero di andare al magazzino per ritirare qualcosa che mi serviva, anche Ianco, l'irredentista sloveno, che poi sarebbe divenuto comunista, venne con me al magazzino. Questo Ianco, un giovane sui venticinque anni, era dotato di una forza erculea. Alle volte, al passeggio, dove ci conducevano due ore la mattina e un'ora il pomeriggio (un bel rettangolo lungo circa cinquanta metri e largo venti, pavimentato a piastrelle di cemento con un muretto perimetrale alto poco piò di un metro e cinquanta che ci lasciava scorgere a poca distanza delle case), si metteva lungo disteso con le braccia piegate all'altezza delle spalle, io gli salivo con le piante dei piedi su entrambe le palme delle mani, sostenendomi con le braccia a ridosso del muro, mentre egli mi sollevava e abbassava per venti, venticinque volte: piò di una volta mi ha chiamato nel tempo che rimasi a Turi per ripetere lo stesso esercizio.

Dunque, come ho già accennato, un giorno ci recammo al magazzino insieme. Egli mi fece vedere un grande baule pieno di libri e con grande espansività esclamò: "Severino, prendi il libro che piò ti aggrada, te lo regalo!". Siccome avevo già adocchiato vari volumi "Così parlò Zaratustra" di Nietzsche, "La filosofia a colpi di martello" di Flammarion. "Principi di psicologia" di Spencer, stavo per declinare la sua offerta perchè allora nutrivo una seria avversione per tutti i libri che non erano marxisti, allorchè, intravidi un grosso volume sotto quello di Nietzsche e le ultime sillabe di un nome di un autore da me conosciuto Vianovic. Pieno di ansia e di speranza alzai il libro di Nietsche e vidi due nomi di autori che fino a pochi attimi prima avevo ardentemente sperato che fossero. Era un grosso volume di 600-700 pagine di Economia Politica, i cui autori erano Lapidus e Ostrivianovic. "Ianco se veramente desideri offrirmene uno, ebbene, prendo questo!". "Prendilo, è tuo" mi rispose. Conoscevo gli autori del libro, li avevo studiati a Mosca tradotti maledettamente male dal russo in italiano lezione per lezione battute a macchina. Il grosso volume, invece era tradotto in francese. La gioia di possedere quel libro era immensa. Esso era un vero e proprio libro di testo. Il libro era nuovissimo, ancora con le pagine da tagliare. Ianco, per averlo, aveva dovuto ottenere l'autorizzazione ministeriale e dopo averla ottenuta lo aveva comprato ma il libro era rimasto sempre nel magazzino. Con questo libro in mano ritornai contentissimo in cella. Non solo avrei approfondito le mie conoscenze in una scienza essenziale per la conoscenza della società, ma ne avrebbero usufruito tutti i miei compagni perchè l'avremmo studiato in collettivo. Ci mettemmo subito d'accordo con Canova e gli altri. Si sarebbe proceduto in questo modo: avrei tradotto dal francese in italiano un paragrafo alla volta, scritto in stampatello sulla carta igienica che ci davano giornalmente nel carcere. Appena tradotto il paragrafo, nelle ore pomeridiane non sarei andato all'aria aperta ma avrei approfittato per spiegarlo per sommi capi ai compagni che erano in cella con me. Losi e Canova se lo studiavano tradotto in italiano e la mattina dopo all'aria l'avrei spiegato agli altri compagni che seguivano il corso: Pancaldi, Romanò, Ferrioli si sarebbero portato il paragrafo tradotto in italiano in cella e lo avrebbero studiato entro la giornata; il mattino dopo vi sarebbe stata la discussione generale sul paragrafo. Così facevamo un paragrafo, in media, ogni due giorni; certo la materia veniva un pò troppo frazionata, ma ad ogni fine capitolo lo riassumevamo tutto per avere uno sguardo d'insieme su di esso. Le guardie del carcere non mi hanno mai pescato a scrivere. La mia branda era proprio subito a fianco della porta e la guardia di custodia quando si metteva a guardare nella cella dallo spioncino, vedeva che stavo bocconi sul letto, ma egli vedeva solo la parte dalla schiena ai piedi e non poteva vedere che scrivevo, in quella posizione potevo stare anche per leggere; piò di una volta hanno aperto all'improvviso la porta per vedere quello che stavo facendo, ma sono riuscito a far sparire in tempo il foglietto sul quale scrivevo e la matita senza che mi muovessi affatto.

Eravamo alla conclusione del libro, vale a dire agli ultimi paragrafi, allorchè l'amnistia che venne data in occasione della nascita del terzogenito di Umberto e Maria Josè rompeva il nostro collettivo con la liberazione di molti compagni. Il primo ad essere chiamato fu Bruno Losi di Carpi, il quale non appena giunse a casa scrisse ai miei genitori dandogli mie notizie e si firmò "Lumicino" con il nomignolo che io gli avevo affibbiato perchè era sempre l'ultimo a giungere alle riunioni per la discussione della lezione di economia politica, però se era l'ultimo, il contributo che dava alla discussione non era da poco. In generale tutti quell'anno venimmo alla conoscenza delle leggi che Marx aveva scoperto nell'analisi della società capitalista e come Lenin ne avesse tratto delle nuove, sempre col metodo che Carlo MarxMarx aveva adottato, studiando la fase imperialista.
Dopo Bruno Losi, andarono via tutti gli altri e rimanemmo Canova, io, il repubblicano Delfini, Ianco e Agostino Lango, l'anarchico Belloni e i detenuti per spionaggio. Canova fece la domanda per essere trasferito nell'isola di Pianosa e anch'io la feci dopo poco tempo. Dopo neanche un mese e mezzo che il Canova era stato trasferito, accordarono anche a me il trasferimento e così, il 18 luglio 1937, nella giornata mi condussero nel carcere di Bari. La notte tra il 19-20 luglio la passai a Regina Coeli e rividi così il sesto braccio e la mattina del 20 verso le sette, mi condussero alla stazione di Trastevere. Riuscii a vedere la testata dei giornali che annunciavano la morte dello scienziato Guglielmo Marconi. Alla stazione mi fecero salire su di un vagone e verso le ore 16 raggiungemmo Livorno e passai la notte nelle carceri del luogo. La mattina successiva per tempo, mentre ci conducevano al porto vidi Cesare Manetti, un compagno operaio metallurgico che aveva dovuto rifugiarsi in Francia prima ancora delle Leggi Eccezionali perchè perseguitato. Cesare Manetti di Castelfiorentino (Firenze) fu condannato a 18 anni con sentenza n. 18 del 24 marzo 1937. L'incontro rese meno pesante e snervante il viaggio. Sosta alla Gorgona, indi alla Capraia e poi la notte la passammo in un grande camerone del carcere di Portolongone, e la mattina successiva, partenza per l'isola di Pianosa. Lì, ci tennero per quasi una settimana divisi dagli altri compagni, poi ci riunirono tutti. I compagni, a Pianosa, potevano essere una ventina, tra i quali esisteva un buon collettivo diretto da tre ottimi compagni: Guido Sola Titetto, Otello Putinati, Pietro Vergani (34).

Nel padiglione dei politici, come negli altri del resto, vi erano delle stanze per quattro persone ove non si vedevano piò le sbarre alle finestre, almeno fino al tempo in cui ci trasferimmo in una località assolutamente isolata da tutti i comuni, distante un paio di chilometri dal "SembolelloCarcere di Sembolello", ove ricomparvero i cameroni di 7-8 persone con tanto di inferriata, e questo avvenne un paio di anni dopo.
Appena arrivati il Manetti ed io apprendemmo la notizia che ci avrebbero condotti tre volte la settimana a fare il bagno al mare durante la stagione estiva. Certo, per noi ciò rappresentava una bella novità. Ma nel 1939 i bagni al mare furono tolti e nel 1940 ci trasferirono nella località di Sembolello che era un vero e proprio carcere. Però ci lasciavano le celle aperte affinchè potessimo recarci nel cortile, all'aria, come ci faceva piò piacere dalla mattina alle otto alla sera alle diciotto, un cortile che sarà stato un settanta metri per trenta-trentacinque, con un muro di cinta di tre metri e mezzo-quattro. Al nostro arrivo Manetti fu messo in mia stanza ove c'era il fratello di Ianco Manfreda che era rimasto a Turi di Bari, Andrea Manfreda (35). Anche Ianco Manfreda aveva fatto la domanda per essere trasferito nel carcere di Pianosa e quando glielo concessero, dopo sette-otto mesi, venne a Pianosa, non trovò piò il fratello trasferito nel carcere di Saluzzo non essendo ammesso che due fratelli potessero stare nello stesso carcere. Così, Andrea morì nelle carceri di Saluzzo due anni dopo. Il compagno Manetti ne commemorò la morte tra noi.

Dunque, nella camerata Manetti trovò Andrea Manfreda ed oltre a lui c'erano Luigi Hvalic di Piedimonte (Gorizia) (36).

Mi misero in una stanza dove c'era un irredentista istriano che stava andandosene perchè aveva scontato la pena e due compagni Renato Mistroni di Ferrara condannato a dodici anni con la sentenza n. 9 del 24 febbraio 1934 e Arturo Zamboni di Regiolo (Reggio Emilia) condannato a otto anni con la sentenza n. 16 del 15 febbraio 1936. Poi conobbi gli altri compagni, tra questi ve ne era uno che mi sembrava di averlo già conosciuto sei anni prima ad Empoli anzi, poi fui sicuro di conoscerlo: avevo fatto di tutto per farlo diventare il segretario della federazione giovanile. Era un pò che mi ero affiancato a lui e passeggiavamo e io mi chiedevo di tanto in tanto come faceva a non riconoscermi. Ad un certo punto mi misi davanti a lui e gli dissi: "Ma non ti sembra che ci siamo già visti in qualche posto?". E lui: "Oh, a me sembra che tu sia Vento, ma non può essere vero perchè mi hanno detto che Vento è morto". "Come vedi, però," soggiungo, "Vento è vivo e verde e faccio gli scongiuri contro la jella come dicono i romani". Nel 1931 nell'apparato della Federazione giovanile mi chiamavano Vento e siccome dovetti andare in Unione Sovietica per essere curato, qualche buona anima gli aveva messo la "giunta" e aveva ben pensato che essendo io, malato, dopo un pò di tempo sarei dovuto necessariamente morire.

Certo, a Pianosa si stava meglio che nel reclusorio di Turi di Bari e peggio si stava nei reclusori Engelsdi Civitavecchia, di Castelfranco Emilia, di Fossano. A Pianosa esisteva un buon collettivo da molti anni, si avevano dei buoni libri di Marx, di Engels, di Lenin, di Kautschy e altri, libri come il "Precis d'economie politique", "Il Capitale" di Carlo Marx. Eravamo inoltre, abbonati al "Sole", giornale della confindustria che riportava un notiziario politico abbastanza esteso, oltre tutto l'andamento economico finanziario del paese. Eravamo abbonati a riviste politiche come le "Relazioni internazionali". Ogni principio d'anno facevamo il nostro piano di studio che doveva essere completato durante l'anno. Esso comprendeva celebrazioni e commemorazioni come: la Comune di Parigi, il primo maggio, 7 novembre. Due relazioni l'anno erano dedicate all'andamento economico del nostro paese e un'altra sulla situazione politica. Infine vi erano le materie che costituivano il fondamento del nostro studio:


Per lo studio del Partito, utilizzavamo un materiale particolarmente elaborato dai compagni nel carcere e comprendeva otto lezioni: i principi del Comunismo, il programma del Partito Comunista, la natura del Partito Comunista, la sua funzione, il suo carattere, la sua composizione, la sua tattica, la sua politica;
il Materialismo storico di Bucharin.
Però, sul materialismo storico avevamo anche l'ottimo materiale di Federic Engels "Il punto di approdo della filosofia classica tedesca";

Negli ultimi due anni che soggiornammo a Pianosa, abbiamo studiato la "Questione Agraria" di Kautschy, vero libro di testo per lo studio delle forme come il capitale penetra nell'agricoltura, sconvolge i vecchi rapporti di produzione e ne impone dei nuovi.
A Pianosa si stava meglio che in altre carceri e si potevano organizzare corsi di studio come un vero anno scolastico. Per ogni corso se ne stabiliva il programma e il responsabile.
Quando giunsi a Pianosa vi trovai già dei compagni: Enrico Bonazzi, Francesco Raffaelli, Bruno Cattini, Marcello Canova, Primo Martinini, Armando Attolini, Romeo Nadalino (37).
Dopo qualche ora che mi trovavo nella cella, i compagni Renato Mistroni e Arturo Zamboni mi comunicarono che non facevano parte del collettivo: l'ammissione o meno al collettivo era subordinata al contegno tenuto dal compagno di fronte alla polizia. Guai ad aver fatto dei nomi o denunciato qualche compagno sotto la violenza della polizia, guai essere stato la causa dell'arresto di compagni: costoro non avevano cittadinanza nel collettivo. Così tutti coloro che avevano fatto domanda di grazia non avevano alcuna possibilità.

Prima di essere ammessi nel Collettivo bisognava riferire al comitato di cellula come si era prodotto il proprio arresto, bisognava consegnare le carte processuali, e se queste non erano state conservate si sarebbe richiesto al ministero di Grazia e Giustizia l'estratto della sentenza ove si parlava per sommi capi del proprio comportamento, e a seconda di come risultava dall'esame si poteva non essere ammessi nel collettivo. Momentaneamente, senza sapere cosa i due compagni avessero combinato per non essere stati ammessi, non mi sorrideva l'idea di stare insieme a loro, nè ero stimolato dalla curiosità di domandare loro quale era la colpa di cui erano colpevoli; d'altra parte io non potevo mettermi a discutere di cose già giudicate, non sarebbe stato davvero onesto. Ma ora non voglio parlare di Arturo Zamboni, al quale la cosa non gli interessava molto, parlerò invece di Renato Mistroni, della sua forza d'animo. Tra tutti i compagni che ho incontrato è stato quello che piò mi è rimasto impresso nella mente. Dopo qualche ora che mi trovavo nella stanza mi accorsi che questo compagno aveva impressi sul volto i segni di sofferenza. Aveva appena 27 anni, si vedeva che soffriva internamente, e quando gli si chiedeva qualcosa, rispondeva umilmente e si sforzava di sorridere. Passò qualche giorno e mi accorsi che Mistroni stava armeggiando per delle ore con un grosso volume in mano e credetti subito di riconoscere quel volume per averlo tenuto tanto tempo fra le mie mani. Gli chiesi se non stava studiando l'economia politica, mi rispose di sì, ma che per lui era molto difficile perchè non conosceva la lingua: il francese. "Ma come fai, da solo, se non comprendi. il francese?", "Ecco, faccio ciò che posso" mi rispose sempre umilmente. Questo compagno che non comprendeva una parola di francese, in arretrato anche in italiano, dal momento che non era andato al di là della quinta elementare, pure, aveva compreso l'importanza dello studio della economia politica marxista in quanto essa lo avrebbe messo nelle condizioni di comprendere meglio i problemi della società contemporanea, i problemi assillanti della propria classe, la classe operaia, della quale si sentiva prepotentemente parte. Vedere questo compagno così attaccato a quel libro, con quanta perseveranza e costanza cercava di scavare in esso, mi commosse. "Ma Mistroni!" gli feci io "Se tu vuoi, ti posso ben aiutare io!". Ed incominciai subito, lì nella stanza. Glielo leggevo in italiano, traducendo dal francese e glielo spiegavo: era un compagno che apprendeva subito.
Dopo qualche mese, il compagno Mistroni fu ammesso nel collettivo. Nuovi compagni, intanto, si aggiungevano al collettivo, ricordo alcuni di loro: Giuseppe Bigiorde, Secondo Pezzi, Lucio Rossi, Enrico Minio, Luigi Babbanini, Alcibiade Palmieri, Romolo Di Giannantonio, Nicola Crocicchio, Angelo Bleve, Giulio Rabagliati, Libero Boasso, Ercole Bazzoni, Ferdinando Brusco, Vittorio Godia, Angelo Chiarioni, Libero Molegrati, Sante Bonacci, Aldo Falchetti, Armando Marecchi (38).
Nei nomi citati vi sono due romani Luigi Babbabini e Aldo Falchetti.
Non appena giunsero a Pianosa destarono in me molta curiosità e speranza. La curiosità di come potessero essere stati arrestati questi compagni e che mi potessero dire qualche cosa sulla organizzazione del Partito nei Castelli Romani. Coltivavo la segreta speranza che la vasta retata operata dalla polizia nel gennaio 1932 (39) (circa mille arresti e solo ad Albano piò di 100) non avessero intimidito i compagni, ma li avessero stimolati, piuttosto.

Dal primo colloquio che ebbi con i miei genitori, nei primi di gennaio 1935 a Regina Coeli, benchè essi non potessero parlare liberamente, pure mi avevano fatto intendere non solo il grande numero degli arrestati - tra i quali mio fratello Ferruccio e per qualche settimana, anche mio padre - ma anche la sfiducia e la diffidenza che era subentrata fra i compagni. Ricordo che espressi loro il desiderio di voler regalare la mia penna stilografica ad uno di essi, ma mia madre con amarezza mi risposte che il Tizio era diventato un confidente della polizia. Era impossibile! Non ci volevo credere! Ma con la voce che quel compagno era divenuto un confidente, dovetti fare i conti anche quando uscii nel settembre 1943 e non solo fra i compagni di Albano. La polizia spesso metteva in giro queste voci per inculcare il germe della dissoluzione e della sfiducia, ciò non significava che la polizia non era riuscita a corrompere quel compagno di cui si parlava ma un altro che la polizia aveva tutto l'interesse a coprire e a far circolare voci, invece su chi confidente non era. Certo in mezzo al centinaio e piò di elementi arrestati, la polizia può aver fatto la proposta di mettersi al suo servizio a piò di un compagno; ma questi che tale proposta respinsero come la cosa piò disonorevole, non si diedero da fare, non si misero alla ricerca tenace e paziente, come forza organizzativa, di colui che poteva aver accettato l'infame mercato di farsi agente del nemico nel seno del movimento operaio, ma si rinchiusero in se stessi, si appartarono rifiutando la propria collaborazione alla creazione di una organizzazione superiore a quella esistente fino al gennaio 1932. Ogni tanto da casa, mi giungeva notizia che qualche compagno era stato arrestato, soprattutto mi veniva segnalato l'arresto del "Bassotto" (Angelo Monti), di "Concetto" (Vincenzo Gasbarri), di "Penna" (Pennazza Elvezio), di "Cacini" (Fernando Pasquali) dell'"Asfaltista" (Armando Fabbri) ed altri, ma gli arresti di questi compagni erano sempre ricorrenti, quindi venivano fatti non perchè membri di un'organizzazione operante, ma come compagni sospetti e poter operare in determinate circostanze ed occasioni e quindi la polizia preventivamente li arrestava. Questo non significa che i comunisti avessero cessato di esistere nè che non esistesse piò fra di essi un legame, anzi sotto certi aspetti essi hanno sempre svolto opera encomiabile di soccorso verso i compagni arrestati e le famiglie colpite dalla reazione, ma questo non era il solo compito di un'organizzazione del Partito Comunista e non è neanche il piò importante. Compito suo fondamentale era quello di saper, allora, condurre una vasta opera di propaganda e di agitazione politica sui grandi problemi che assillavano le grandi masse del popolo italiano che erano poi, la lotta contro la dittatura fascista, espressione piò feroce, piò reazionaria dei gruppi del capitale finanziario e la denuncia continua nel periodo di guerra che il fascismo andava preparando: fare conoscere il punto di vista del Partito su tutti i problemi ed in ogni circostanza, sapere sfruttare tutte le possibilità legali che offriva la situazione per difendere gli operai, i braccianti, i contadini poveri sui luoghi di lavoro, lì dove non venivano rispettati neanche contratti fascisti stipulati dai sindacati, organizzare e convogliare il malcontento verso bersagli precisi: contro i funzionari fascisti che non facevano rispettare i contratti da essi stipulati con i padroni, contro i padroni per i quali i funzionari fascisti agivano.

Questo non poteva essere messo in pratica non solo perchè parte dei compagni si rinchiudevano in se stessi, ma perchè un'altra parte pur non rifiutando la propria collaborazione, poneva la condizione al compagno che per primo prese la iniziativa di voler ritessere le file dell'organizzazione, di voler conoscere e farsi conoscere solo da lui e da nessun'altro. Con questa condizione essi non facevano altro che esprimere l'esigenza della salvaguardia dell'organizzazione e dei compagni e quindi la creazione di un organizzazione che non avrebbe piò dovuto condurre a quel crollo del gennaio 1932, in cui fu sufficiente l'arresto iniziale di un paio di persone per farne arrestare la stragrande maggioranza. Questo grande fatto negativo doveva servire di esperienza, l'organizzazione doveva essere di tipo nuovo e l'organizzazione fu trovata: quella funzionante sulla base dell'ordinamento a catena. Ma questo, di attuare un tipo nuovo di organizzazione, si poteva creare solo con l'apporto di tutti i compagni e non delegando il compagno Angelo Monti o Vincenzo Gasbarri o qualcun altro. Non facendolo, non solo si creava un'organizzazione inefficiente, con tutte le conseguenze che una tale carenza può comportare, ma si facilitava in modo enorme il lavoro della provocazione. La polizia aveva corrotto qualcuno ad Albano, come ciò era avvenuto a Marino ed in seguito anche a Genzano, ma colui che la polizia era riuscito a corrompere e a trasformare in un agente provocatore ebbe subito il compito facile, perchè immediatamente individuò il compagno piò attivo: Angelo Monti. Solo il provocatore, contrariamente agli altri era dispostissimo a farsi conoscere da tutti e a voler conoscere tutti! Ma il Monti pur ignorando completamente di trovarsi di fronte ad un rinnegato restava fedele alla promessa fatta al compagno che voleva essere conosciuto solo da lui e rispondeva involontariamente al provocatore che voleva sapere chi fossero gli altri: "Ma quelli vogliono conoscere solo me e vogliono essere conosciuti solo da me". E il provocatore di fronte a tale muro non poteva far altro che raccontarlo alla polizia ed ecco spiegato perchè essa continuamente rinfacciasse al Monti la sua attività senza poter specificare nulla di particolare, ma facendogliela pagare cara, non solo tallonandolo continuamente in paese e sottoponendolo ad ogni sorta di soprusi e di angherie, ma sottoponendolo al continuo stillicidio degli arresti preventivi. Ma questo stillicidio non era solo per il Monti, ma per tutta una serie di compagni e perciò l'organizzazione di Partito ha sempre difettato per lunghi anni peggiorando ancora allorchè il Monti fu mandato al confino.
  Gli arresti del gennaio 1932, la sfiducia che essi generarono fra i compagni, la concezione che si manifestò in molti a non voler conoscere che uno solo e solo da questo farsi conoscere, il germe della dissoluzione che la polizia riuscì ad infiltrare impedì sia la creazione di una vera e propria organizzazione operante, funzionante sull'ordinamento a catena, sia il proseguimento di una attività politica efficace. Quello che non riuscì ad Albano, riuscì a Genzano. E' vero che a Genzano mai è successo che un arresto assumesse le proporzioni che assunse ad Albano nel gennaio 1932 e per questo l'organizzazione a Genzano dopo gli arresti del maggio 1928 potè proseguire il suo lavoro come se nulla fosse avvenuto. Benchè la polizia operasse molti arresti e deferisse 7 compagni al Tribunale Speciale, l'organizzazione di Genzano seppe sempre riprendersi. Il funzionamento dell'ordinamento a catena permise ai compagni di Genzano di proseguire il loro lavoro. Nel 1937 essi in stretto contatto con quelli di Roma, subirono un grande colpo: ci fu una grande retata e 46 compagni di quelli arrestati tra genzanesi e romani vennero deferiti al Tribunale Speciale, ecco la sentenza n. 83 e n. 86 del 15 novembre 1937 e del 18 novembre 1937 (40).

L'organizzazione comunista di Genzano funzionante sulla base dell'ordinamento a catena è diretta nel 1936-37 da due comitati uno per i giovani e uno per gli adulti.

Certo, nel 1937 l'organizzazione di Genzano subì un colpo grave. Malgrado questo, l'organizzazione del Partito non fu stroncata: ciò che dai compagni era stato seminato, continuava a germogliare. Per quanto la polizia si affannasse non riuscì piò a stroncare l'organizzazione di Genzano: ormai si era formato un quadro dirigente che era in grado di ritessere in qualsiasi momento; il quadro dell'organizzazione che avrebbe continuato l'attività del Partito. Due altre sedute e sentenze del Tribunale Speciale saranno dedicate ai Castelli Romani, pur tuttavia, pur dimostrando la vivacità e lo spirito di lotta coloro che saranno condannati non erano aderenti ad una organizzazione specifica, eccetto i condannati di Ariccia di cui 10 si dichiararono comunisti (41).

Dott. GoebelsEravamo, Cino (Enrico Bonazzi) ed io, in un canto dell'ampio cortile del "Sembolello" a tradurre uno dei tanti articoli "Editoriali" del Dr. Goebels (Ministro della propaganda di Hitler) scritti sul "Das Reich" giornale, al quale, ci eravamo abbonati per fare pratica di lingua tedesca alla quale dedicavamo, da qualche anno, piò di un'ora al giorno, allorchè sentimmo la voce di Polacco, un triestino irredentista che gridava a pieni polmoni: "Adunata, adunata! Il signor direttore ci vuol parlare!".
Tutti ci chiedevamo cosa avesse mai da dirci quel mascalzone. Giorni prima ci aveva mostrato i pugni mugugnando che se fosse dipeso da lui... Non era molto tempo che il direttore, signor Mazzeo, aveva sostituito quell'altra buona pezza di Liccione. Una volta avevo chiesto a quest'ultimo l'autorizzazione per acquistare la monografia "Il lazio": le avevamo di tutte le regioni d'Italia, ma mancava proprio quella del Lazio, e a me questa, interessava piò di tutte le altre. Non era stata acquistata da noi perchè ancora non era stata pubblicata, quando lo fu, elaborata da un certo Turbati, ne feci dunque domanda al direttore per acquistarla. Mi mandò a chiamare e volle sapere in cosa consistesse il contenuto di tale libro. Dopo che glielo ebbi spiegato replicò che un tale "libro non poteva esistere". Avevo la netta sensazione che dicesse così per provocarmi. Obiettai dicendo che noi avevamo già altri libri che riguardavano tutte le altre regioni di Italia, cercando di usare tutta la pazienza che avevo a disposizione. Mi rispose che non era possibile, "Ma posso andare a prendergliene qualcuna e mostrargliela, così ne resterà convinto!" ribattei "Ebbene, tornate, vi attendo". Tornai in fretta nella camerata e presi le prime monografie che mi capitarono sotto mano: quella del Piemonte, della Lombardia, dell'Emilia Romagna. Con queste tra le mani mi ripresentai al direttore.

Egli cominciò a guardarle, a rigirarle tra le mani, a sfogliarle e poi concluse che se volevo acquistarle dovevo chiedere l'autorizzazione al Ministro di Grazia e Giustizia. Risposi che certo, lo avrei fatto immediatamente. Un mese dopo mi venne comunicata la risposta dei Ministro che era positiva. Con questa autorizzazione ministeriale, spedii con un vaglia l'importo alla casa editrice con la preghiera di inviarmi la monografia. Quando arrivò, altra chiamata del direttore. Cosa vorrà ancora? mi chiedevo. Non appena mi trovai alla sua presenza mi investì: "Ma a voi questo libro a cosa serve?". "Mi serve per sapere quali e quante sono le proprietà fondiarie, la loro ampiezza, a chi esse appartengono, le imprese che vi sono impiantate sopra, cioè in che modo esse sono condotte e da chi viene lavorata questa terra, vale a dire la mano d'opera e i rapporti che intercorrono e che si stabiliscono tra questa mano d'opera e le imprese e le proprietà fondiarie. Questo nel Lazio, in particolare, e a conoscere il mio paese in generale, credo di averne pienamente il diritto, mi pare!". Gli risposi. "Conoscete Socrate?" Mi domandò improvvisamente. "A pranzo con lui, veramente non ci sono mai stato". Risposi con scherzo. "Ebbene, vi dirò io, chi era Socrate". E incominciò a sciorinarmi chi secondo lui era Socrate. "Basta basta!" intervenni per non lasciarlo proseguire. "Che Socrate era un filosofo non occorre che me lo venga a dire lei". "E allora, saprete, che Socrate diceva che il buon cittadino rispetta e osserva sempre le leggi del suo paese, siano esse giuste, siano esse ingiuste". Con veemenza intervenni e la mia voce si sovrappose alla sua "Non sono d'accordo con Socrate e me ne infischio altamente delle sue convinzioni politiche". Appena pronunciate queste parole, il direttore, signor Liccione, rimase letteralmente a bocca aperta e non seppe aggiungere piò parola, solo dopo qualche attimo, allargando le braccia proseguì che egli non poteva farci nulla. Ma la monografia "Il Lazio" che era ciò che piò mi interessava, egli non me la dava "Perchè lo studio di quella mi avrebbe reso ancora piò pericoloso per lo Stato" Cercai di convincerlo dicendogli che era un sopruso ed un abuso di potere dal momento che c'era l'autorizzazione ministeriale. Ma egli continuò a ribattere ostinato: "Il ministro di grazia e giustizia ve l'ha concessa ed io invece non ve la concedo, quindi se avete veramente intenzione di leggere questo libro, lo farete a casa vostra". A vedere la sua figura minuta, con una barbetta a punta, con gli occhiali inforcati mentre mi guardava al di sopra di essi, con una gioia maligna, non contenuta, invece di eccitarmi, mi fece scoppiare in una fragorosa risata e ... "Va bene, signor direttore, si è voluto divertire!" Me ne andai, ero chiaramente consapevole che prima me ne fossi andato, meglio sarebbe stato.