Capitolo 3

Trasferimento dai Castelli ad attività di partito in Italia e all'estero

Già dall'aprile, il compagno Giancarlo Paietta, mi fece la proposta di cessare la mia attività di operaio sarto e dedicarmi interamente alla attività del Partito.documenti Non chiedevo di meglio! Alla mia risposta positiva il compagno mi pregò di tenermi pronto perchè entro poco tempo, il Partito mi avrebbe fatto sapere ove avrei dovuto recarmi a lavorare e il genere di lavoro che avrei dovuto svolgere. Fu così che agli ultimi del giugno 1931 il compagno Marino Mazzetti, mi diede le istruzioni e i documenti per recarmi a Parigi.
Mia madre non poteva darsi pace, non voleva neanche salutarmi e mio padre che non avevo mai visto versare una lacrima piangeva. Io ho voluto sempre bene ai miei, non so che avrei dato per non vederli piangere, ma in quel momento io consideravo l'attività del Partito al di sopra di qualsiasi cosa e tutto avrei sacrificato per esso. Così partii di casa il 3 luglio 1931 e giunsi a Parigi passando per la Svizzera tedesca. Nel mese e mezzo circa di permanenza a Parigi si viveva come tanti altri compagni, con uno stipendio che piò o meno percepiva un operaio medio Francese. I pasti li prendevamo generalmente nei ristoranti a prezzo fisso, l'alloggio lo prendevamo in modesti alberghi ove si prendeva una camera per una sera, ma generalmente per una settimana. Con la permanenza un pò troppo a lungo in uno, si poteva correre il rischio di vederci recapitare l'invito del commissario di polizia del quartiere a presentarsi al Commissariato e siccome era sempre meglio stare alla larga da certi inviti, non si stava piò di una settimana nello stesso albergo. Alle volte, la stanza si prendeva insieme ad un compagno conosciuto in quei giorni, si stava qualche giorno insieme, poi ci si salutava e non ci si vedeva piò . Di tanti, con i quali ho diviso la camera d'albergo, siamo andati a prendere qualche pasto insieme e fatto anche qualche passeggiata, solo di una piccola parte ho saputo chi era e di dove venisse: quando ho visto la loro foto sui giornali perchè arrestati. Così è stato per Felice Cassani, Aristo Papazzi, Antonio Budicin, Venceslao Usay.

L'attività fondamentale svolta in questo periodo a Parigi era lo studio dei rapporti che i compagni funzionari facevano sull'attività da essi svolta in un determinato periodo presso una data località in Italia, la situazione di questa località, lo stato della nostra organizzazione ed in base a ciò quello che si era riuscito a concludere con quella organizzazione nell'applicazione della direttiva generale del Partito. Ogni compagno poteva, se lo credeva opportuno, intervenire nella discussione sulla relazione del compagno funzionario, che veniva fatta in una riunione e portarvi il proprio contributo critico. Si partecipava altresì, a brevi corsi di studio su questioni di politica del nostro paese, la politica del Partito nei sindacati, la posizione del Partito nella questione agraria, ecc.; questi brevi corsi della durata alle volte di due o tre lezioni, a volte meno o piò , erano presieduti dai compagni migliori che non erano stati arrestati: Togliatti, Longo, Grieco, Di Vittorio. Tutte queste riunioni si tenevano, generalmente, nei retrobottega dei bar, trattorie di proprietà dei compagni francesi. Oltre a queste attività, vi era l'attività individuale che ciascuno esplicava per cercare di elevare le sue cognizioni, poi c'era anche da imparare la lingua francese ed altri studi che ognuno desiderava. Dopo un mese e mezzo circa di permanenza a Parigi, il Partito mi incaricò di andare a prestare la mia opera presso due importanti organizzazioni della Toscana: Empoli e Prato, nella provincia di Firenze. Nell'esplicazione della mia attività nell'organizzazione di partito di queste due città mi sono accadute due cose abbastanza curiose che vale la pena di riportare.

A Prato, avrei dovuto recarmi in una casa di un compagno, sita in una lunga via nel mezzo della quale vi era una piazza. Nel lasso di tempo in cui fu preso nota dell'indirizzo di tale casa e la sua pratica utilizzazione, la toponomastica della cittadina cambiò. Restò il nome della piazza, così come pure è restato il nome di una strada che partiva dalla piazza, ma è cambiato il nome dell'altra strada che rappresentava il proseguimento della prima, tenendo conto della numerazione impari, la iniziale, tenendo invece conto della numerazione pari. Ora non piò , quest'ultima era diventata una strada con un nome diverso e non vi era nessuna indicazione che prima avesse avuto un altro nome. Insomma, per piò volte percorsi, passo passo, entrambe le strade, l'una col vecchio nome, l'altra con il nuovo, poste l'una al di là, l'altra al di qua della piazza per cercare di spiegarmi come mai il numero 149 non c'era.

Intanto, incominciò ad introdursi in me il dubbio che mi si era potuto dare un numero sbagliato o che io lo avevo ricopiato male. Non sapevo proprio, come si suoi dire, che pesci pigliare, allorchè una voce: "Che cerca qualcuno signore, le posso essere utile?". Era un barbiere sulla soglia del suo negozio del quale non mi ero neanche accorto, ma che aveva capito osservandomi, che stavo cercando qualcuno o qualcosa. "Mah", rispondo io prendendo tempo "a dir la verità, cerco il numero della casa di uno che ha fatto il soldato con mio fratello, Barni...Peppino Barni". "Peppino" esclamò trionfante il barbiere í "Ma si proprio lui" ribattei molto perplesso io "Peppino Barni" "Si, vede egregio signore, prima Peppino abitava in questa via ma ora ha cambiato, è andato ad abitare in Via della Stufa 36, secondo piano". Ringraziai il buon uomo e mi avviai in via della Stufa che non era distante neanche un paio di centinaia di metri. Salii al secondo piano e dopo aver bussato e atteso qualche secondo venne ad aprire una ragazza sui 25 anni. Alla mia domanda: "scusi signora, abita qui Peppino Barni?" Ella rispose di si e stavo per replicare e pronunciare la parola d'ordine, allorchè apparve dietro a lei una signora anziana. La parola d'ordine, avrei dovuto pronunciarla solo nel caso che la ragazza fosse stata sola, quindi mi limitai a domandare se Peppino era in casa. No, Peppino non c'era; ma se fossi tornato verso le tredici senza dubbio l'avrei trovato. Tornai alle tredici e trenta, la stessa ragazza venne ad aprirmi, seguita ora, non solo dalla signora anziana, ma anche da un uomo sui trent'anni; mi disse subito che Peppino, contrariamente alle sue abitudini non era tornato ed era per loro una cosa alquanto strana perchè di solito avvisava sempre quando sarebbe dovuto rincasare con qualche ritardo. Ora, se proprio avrei voluto vedere e parlare con Peppino, sarei dovuto ritornare, per essere sicuro di trovarlo, verso le ore venti. "Non disturbo, se vengo così tardi?". "Ma no signore, non disturba, venga, venga pure, non farà piacere solo a Peppino ma anche a noi". Me ne andai e tornai alle venti e quindici. Questa volta venne da sola, la ragazza ad aprirmi un pò turbata mi disse che Peppino non era ancora tornato e non sapeva spiegarsene la ragione. Fu a questo punto che pronunciai la mia parola d'ordine - La sorella di Peppino era una compagna e mi avrebbe subito riconosciuto ribattendo alla mia parola d'ordine - "Ma scusi non è lei la sorella di Peppino?" Invece della risposta: "per l'appunto", mi sento rispondere: "Io sorella di Peppino? Oh no! Peppino non ha sorella io sono sua cognata". Rimasi come un allocco e quasi impossibilitato di pronunciare alcunchè, alla fine le chiesi scusa dell'equivoco e ... visto che ancora non era tornato avrei cercato di ritornare l'indomani e, in quel momento che la vidi come se si fosse ricordato una cosa, battendosi sulla fronte esclamava: "Oh, me smemorata, io che l'ho fatta venire qui piò volte, ora che ci penso oggi Peppino è a Firenze per sostenere come ufficiale dei Carabinieri un esame speciale!". A queste parole balbettai smozzicate parole d'augurio, assicurando che l'indomani contavo di felicitarmi con lui; non vedevo l'ora di andarmene, il suolo mi scottava letteralmente sotto i piedi, la salutai e uscii in fretta da quel palazzo facendo le scale a quattro a quattro. Tirai un forte sospiro di sollievo quando ero già una cinquantina di passi lontano. Inveii contro quel compagno che aveva preso in modo sbagliato nota dell'indirizzo, maledii tutti i suoi antenati prossimi e lontani e, se l'avessi trovato quell'ufficiale dei carabinieri cosa gli avrei raccontato? Sai che bella figura da imbecille che avrei fatto! Poi cominciai a riflettere sul caso dell'esistenza di due Peppino Barni, non solo in una stessa città, ma abitanti in una stessa via, di cui uno era comunista, l'altro ufficiale dei carabinieri. Ed io avevo avuto un fiuto veramente da segugio, se invece di andare a casa del compagno ero andato a finire in quella dell'ufficiale! Dapprima volevo andarmene da Prato, ma poi cosa avrei raccontato ai compagni? Erano già passate le ore 21 allorchè affiancandomi ad un uomo che poteva avere oltre i sessanta anni, gli domandai se prima c'era un'altra strada che portava lo stesso nome di quella che stava a destra della piazza; al che l'uomo rispose che si, quella che stavo cercando, era la strada che ora si trovava alla sua sinistra; ma il cambiamento risaliva a piò di un anno prima. Ringraziai il buon uomo e ripercorsi la strada il cui nome non era cambiato e prendendo nota dell'ultimo numero impari, attraversai la piazza e imboccai il proseguimento che ora portava un nuovo nome e calcolavo mentalmente la numerazione impari finchè non trovai una casa che portava un numero: il 37, ma secondo i miei calcoli quella dovrebbe essere stata la casa che prima aveva il numero 149. Bussai e venne ad aprirmi un giovane sui vent'otto anni, al quale non feci in tempo a chiedere se quella era la casa dove abitava Peppino Barni, che mi riconobbe immediatamente come un Funzionario del Partito. Mi fece entrare in casa e gli raccontai subito cosa mi era capitato, che ero stato tre volte in casa dell'ufficiale dei carabinieri e lui invece di mostrarsi preoccupato al pari di me scoppiò in una grande risata e piò mi guardava e piò rideva, si vede che la mia faccia era diventata estremamente buffa, alla fine il suo riso ha contagiato anche me e insieme abbiamo riso a crepapelle.

L'altro fatto strano mi capitò a Firenze, in un albergo nei pressi della stazione. Ebbi due giorni di intenso lavoro a Prato che per due notti non ritornai all'albergo. vi ritornai la sera del giovedì, ne ero partito il lunedì mattina. La sera del giovedì allorchè vi ritornai ero abbastanza stanco ed affamato che decisi di mangiare un boccone ed andarmene subito dopo a riposare. Così mangiai nel ristorante dell'albergo che era al pianterreno. Mi accingevo a salire la scala che conduceva alla porta della mia stanza quando mi sentii chiamare dalla signorina che era al bureau:
"Signor Laboranti, vuoi essere tanto gentile da ripetermi il nome della sua mamma?" "La mia mamma si chiama Anna Birobbini" risposi io. "Ma scusi, signorina", proseguii "non ne ha preso nota quando le presentai i miei documenti?". "Certo, signore, ma vede, lei è stato due notti senza tornare e noi, non vedendolo, ce ne siamo preoccupati tanto, che abbiamo ritenuto nostro dovere avvisare del fatto la polizia, ora la polizia ci ha chiesto nuovamente il nome di sua madre, perchè così ci ha comunicato, il nome che gli abbiamo dato noi non risulta". "Non risulta che cosa?" Ribattei io sorpreso "Oh, questa sì che è bella!". E le rimostrai i documenti. "Sì, è come già mi ha detto e come io avevo già ricopiato dal suo documento, tenga e grazie, signore. Trasmetterò alla polizia che sua madre si chiama proprio Anna Birobbini, proprio come a lor signori non risulta". Salutai e mi incamminai verso la scala per andare nella stanza, come avrei voluto avere le ali in quel momento. Ma come fare per sparire immediatamente? Ero già segnalato alla polizia? Già sorvegliato? Andai nella mia stanza ed in poco tempo rifeci la mia valigia, spensi la luce e fra le persiane mi misi ad osservare la strada abbastanza stretta e buia. Avevo già consultato l'orario ferroviario, un treno sarebbe partito per Roma dopo un'ora, e un altro sarebbe partito per Livorno a mezza notte precisa. Uscii dalla stanza lasciando la valigia pronta e me ne andai a fare una passeggiatina nei dintorni per osservare, se tutto era normale.
Dopo una ventina di minuti rientrai nell'albergo e mentre salivo la scala che conduceva alla mia stanza vidi un inserviente e lo chiamai pregandolo di portarmi la valigia alla stazione, al deposito, "Ma come se ne và?" Mi chiese. "Si" risposi. "Ho incontrato or ora un parente che mi ha detto che mio padre sta male e di conseguenza voglio andare subito via". "Abbia pazienza un minuto, sono stato comandato per un servizio" ribatt’ lui "Ah no!" Soggiungo io pronto, mettendogli cinque lire in mano: "Se tardo un minuto il treno parte ed allora dovrò attendere fino a domani mattina". Prese la valigia e lo vidi sgattaiolare in strada e rasentare il muro per non farsi vedere da coloro che lo avevano comandato, lo seguii un po con lo sguardo dalle persiane socchiuse e con la luce spenta fino a che lo vidi sveltissimo, quasi di corsa, dirigersi verso la stazione: feci passare ancora qualche secondo e poi uscii, chiusi la stanza lasciando la chiave nella toppa. Guadagnai la strada e passo passo mi avviai incontro all'inserviente: infatti lo vidi che veniva quasi correndo, mi consegnò la ricevuta della valigia in deposito nel bagagliaio e ci salutammo. Finsi di dirigermi verso la stazione, ma poi imboccai una via traversa e me ne andai in un cinema. Non ebbi l'impressione di essere osservato, tanto meno seguito. Dopo una mezz'ora uscii dal cinema e me ne andai in un altro sempre badando bene di non essere inseguito da qualcuno. Ricordo che a questo secondo cinema i nervi si erano placati tanto che riuscii a vedere un pezzo di film che si stava proiettando "Settimo cielo", me ne stetti buono nel cinema fino alle 23,40, uscii e mi diressi verso la stazione, la gente per strada molto poca e facile da controllare, al deposito bagagli non cera nessuno, ritirai la valigia, alla biglietteria preso un biglietto per Livorno ove giunsi alle due dopo la mezzanotte, scesi e depositai la mia valigia nel bagagliaio e attesi che passasse il treno che mi avrebbe ricondotto a Firenze, perchè da qui dovevo ripartire per Prato ove nella giornata avrebbe dovuto aver luogo una riunione di una certa importanza. Ritornai la sera verso le 18 a Livorno ed andai ad alloggiare, dopo aver distrutto la vecchia carta di identità e tiratane fuori un'altra nuova intestata a Paolo Blasi, in un modesto alberghetto di un fascistone nei pressi del porto ove vi restai circa una settimana, fino a che il compagno funzionario del Partito mi consigliò di togliere le tende da Livorno in quanto stavano procedendo a degli arresti. Ritornai così a Firenze, e andai molto lontano dal posto di prima.
Verso la fine di settembre il Partito mi ordinò di uscire dall'Italia. Al passaggio di frontiera a Bardonecchia, faceva un freddo cane e nevicava. Io, sempre così soggetto ai raffreddori me ne buscai uno con i fiocchi ed ebbi una riacutizzazione della bronchite. Andai avanti ancora un mesetto a Parigi e, la valigia già pronta, aspettavo le istruzioni per andare a lavorare in alcune organizzazioni della Lombardia, quando un compagno toccandomi per caso esclamò: "Ma tu hai la febbre!" "Ma va, che ti sbagli" risposi io "Beh, ora la misuriamo e vediamo subito chi si sbaglia".

Il termometro segnava 38; mi si condusse da un medico, mi visitò, mi fece le radiografie e sentenziò: catarro ai polmoni. Dovetti rinunciare alla partenza, si parlò di mandarmi in una clinica nei dintorni di Parigi, ma dopo un mese ci fu chi pensò che sarebbe stato meglio mandarmi a curare in Unione Sovietica. Partii nei primi di dicembre. Dopo una permanenza di due o tre giorni a Berlino, ripresi il treno per Mosca ove giunsi verso il 10 dicembre con destinazione sede del Mopre - Soccorso Rosso Internazionale - dove restai nei suoi locali. Qui vi era gente di tutte le nazionalità e vi conobbi un certo Tamberi di Livorno, un uomo già avanti con gli anni. Egli mi fece conoscere il compagno giornalista Edoardo Peluso di Napoli che fu condannato in contumacia dal Tribunale Speciale a 12 anni con la sentenza n. 10 del 1927. Egli insegnava in una scuola sovietica, tutto orgoglioso mi mostrò una giacca che era appartenuta a LeninLenin. Rimasi nei locali del Soccorso Rosso Internazionale siti a Voronsov Pole una quindicina di giorni, dopo di che, secondo le prescrizioni e consigli dei medici, fui mandato per un mese di cure in Crimea. Poi quel mese diventarono tre.
Fu in Crimea che mi raggiunse la notizia degli arresti che avvennero nei Castelli Romani nel gennaio-febbraio 1932. Nella lettera che mi giungeva da Mosca e nella quale mi si dava notizia degli arresti, mi si chiedeva se fossi stato in grado di dare qualche consiglio per il ristabilimento dei rapporti con i Castelli Romani. Ero in grado, a prescindere della mancata conoscenza della estensione degli arresti, di dare una indicazione che qualcuno dei compagni poteva essere stato risparmiato? E che potessi indirizzare verso questo qualcuno un messaggero del Partito con un mio scritto per farsi riconoscere e ricostituire così il legame? Certo qualcuno dei compagni poteva essere stato risparmiato, ma chi? Non poteva essere stato risparmiato dalla denuncia Vincenzo Bonamici che in quel periodo doveva essere ancora soldato per finire i suoi diciotto mesi di naia? Così, io feci piò di un biglietto di presentazione: per Vincenzo Bonamici e per qualche altro compagno che non ricordo, ma gli arresti erano stati troppi, di conseguenza, furono pochissimi quelli che si salvarono. Chi si salvò dagli arresti non fu Vincenzo Bonamici, che a quel tempo era già tornato dal servizio di leva, ma fu Mariano Vilmercati e con lui si salvarono tutti i membri della sua cellula, dato che lui ne era il dirigente. Chi fossero i membri della sua cellula non siamo in grado di riferirlo, non solo perchè Mariano è morto da tempo, ma perchè ormai sono trascorsi circa quaranta anni e gli altri compagni non hanno saputo dire nulla in proposito. Un'altra cellula che sfuggì agli arresti, fu quella diretta da Dionisio Candi (Pacchera). Con lui vi erano anche Alfredo Fioretti, Gino Bonifaci, Domenico Ferri (Menghino) e Luigi Bocciarelli. Queste due cellule, come abbiamo detto, non furono toccate dagli arresti. Però non furono solo i compagni di queste due cellule che sfuggirono agli arresti. Neanche Domenico Catani fu arrestato ed era un capocellula, ma chi prese la responsabilità della cellula di fronte alla polizia fu Armando Fabbri (Armandone) e potè sfuggire così agli arresti oltre che Domenico Catani, anche Zenone Giobbi, Carlo Giancola e Salvatore Terriaca; così di questa cellula, la polizia riuscì ad individuare oltre che Armando Fabbri solo Alfonso Liberati e Orlando Dionisi (Porco Mondo). Altri compagni che sfuggirono agli arresti furono Edmondo Angelini, Augusto Monderna, Tacchetto: della cellula di Francesco Borelli. Non fu arrestato Luigi Di Baldo della cellula di Salvatore Ghezzi nè Alessandro De Dominicis della cellula di Innocenzo Brugnoli nè Mario Tanchella della cellula di Luigi Benedetti; nè furono arrestati Ercole China e Fernando Bocci della cellula di Luigi Monti. Considerando che anche la cellula di Mariano Vilmercati avesse un minimo di cinque compagni, coloro che sfuggirono agli arresti del gennaio-febbraio 1932 furono ventidue.
  Chi furono gli arrestati?
Pietro Avenale (Pitrella); Angelo Bellardinelli, capocellula giovani; Giovanni Bellardinelli, capocellula adulti; Pio Bellardinelli; Pietro Bellucci; Luigi Benedetti, capocellula; Amedeo Bianchi; Armando Bizzoni; Enrico Bongirolami; Mario Bongirolami, capocellula; Filippo Borelli; Francesco Borelli, capocellula; Innocenzo Brugnoli, capocellula; Oberdan Bruschi, capocellula; Pietro Cardosello; Angelo Conti; Benedetto De Cesaris; Aurelio Del Gobbo; Gustavo Di Baldo; Orlando Dionisi (Porco Mondo); Vittorio Donna; Armando Fabbri; Cesare Fabbri; Pietro Fortini; Telemaco Foschi; Moretto Gasbarri; Vincenzo Gasbarri; Gaetano Gasperini (Lucrezia), capocellula; Salvatore Ghezzi; Ezio Giorgi; Cesare Lestini; Clodoveo Lestini; Alfonso Liberati; Filippo Liberati; Guerrino Litardi; Mario Manzetti; Alessandro Matteucci; Angelo Monti; Luigi Monti, capocellula; Luigi Moriggi; Ercole Moroni; Bruno Muzzi; Giovanni Nardi; Fernando Pasquali; Luigi Passa; Elvezio Pennazza; Umberto Pezzi, capocellula; Vittorio Raffaelli; Guido Sabatini; Domenico Salustri; Pietro Sannibale; Vincenzo Sannibale; Augusto Secchi, capocellula; Carlo Silvestri; Ferruccio Spaccatrosi; Giovanni Spaccatrosi, capocelluIa; Andrea Torregiani; Antonio Vanni; Salvatore Vanni; Giovanni Velletrani.
 
Possiamo così concludere che 17 cellule, di cui 14 giovanili e tre di Partito:
Di Partito: Domenico Catani; Giovanni Bellardinelli; Augusto Secchi;
Giovanili: Innocenzo Brugnoli; Gaetano Gasperini; Luigi Monti; Umberto Pezzi; Francesco Borelli; Giovanni Nardi; Dionisio Candi; Luigi Benedetti; Mario Bongirolami; Angelo Bellardinelli; Oberdan Bruschi; Salvatore Ghezzi; Giovanni Spaccatrosi; Mariano Vilmercati; inquadrassero dai 90 ai 110 compagni contando in una cellula un minimo di cinque ad un massimo di sette compagni.
Rimasi in Crimea fino ai primi di aprile 1932, poi dovetti ritornarvi ancora due volte nel mese di novembre dello stesso anno e nel giugno del 1933 entrambe le volte per un mese.
Frequentai a Mosca, come tanti altri compagni, la scuola leninista internazionale, il circolo "KIM - Internazionale giovanile comunista" e credo, averne tratto tutto il profitto che ne potevo trarre, limitato sin dall'inizio dalle condizioni di salute già intaccato e dal basso livello culturale iniziale. Ho già detto che avevo frequentato fino alla quinta elementare e il primo anno delle scuole tecniche e, malgrado avessi cercato sempre d'innalzare il mio livello culturale e politico sia da quando avevo sedici-diciassette anni, pure ho avuto sempre la consapevolezza riflessa che per quanto facessi, non avrei potuto piò recuperare quello che avrei dovuto apprendere nella fanciullezza ed ho già detto il perchè. Certo, i brevi corsi frequentati a Parigi, tenuti dai compagni dirigenti del nostro Partito, la scuola di Mosca, il collettivo del Kim mi ha dato qualcosa, anzi molto, particolarmente ciò che ho visto nell'Unione Sovietica, ma lo studio in quanto tale, è stato quello che è stato e non mi ha permesso mai di adagiarmi sugli allori. Nel febbraio 1934, ripartivo da Mosca. Ricordo che prima di partire il compagno Amadesi, mi portò dal medico e gli pose la seguente questione: se io avrei potuto, date le mie condizioni di salute, andare a lavorare in Italia, al che il medico rispose: "Si, se non è un lavoro molto pesante". Amadesi un pò urtato rispose: "Certo, in Italia non dovrò mica andare portando le valigie". Durante il viaggio di ritorno dall'Unione Sovietica, all'aeroporto di Koenigsberg ora Koliningrad, l'ufficiale tedesco alla dogana, prendendo il mio passaporto mi disse in portoghese: "Oh, voi siete portoghese, io conosco molto bene la vostra lingua essendo stato circa otto anni a Lisbona e ho fatto parecchie gite nella città ove siete nato (sul passaporto si diceva che ero nato a Loul’) è veramente una bella cittadina". E' stato per me come un lampo! Ho compreso, o almeno ho afferrato bene quello che lui voleva dire sia perchè il portoghese, essendo una lingua latina ero molto aiutato dalla conoscenza che ho del francese, sia perchè nei 16-18 mesi che sono stato a Mosca, ero vicinissimo a spagnoli e portoghesi e molte volte parlavamo tra noi e non ci occorreva certo l'interprete. Ma io, purtroppo non parlavo portoghese e allora senza pensarci troppo, risposi come sapevo rispondere: in italiano.  Non è che parlo bene l'italiano, tutt'altro, mi mangio vocali e consonanti e alle volte sillabe e parole intere a seconda dello stato di tensione in cui mi trovo. "Oh, si voi parlate portoghese" risposi "mi fa molto piacere, così posso sbrigare le questioni inerenti alla dogana in modo piò celere". Mi guardò fisso, imbarazzato quasi, e disse "Non ho capito nulla, neanche una parola di quello che avete detto". Ed io sostenendo il suo sguardo, ribattei sorridendo: "Ma è evidente, allorchè non si esercita piò una lingua, succede sempre così, la si dimentica!" Lo vidi diventare rosso fino alle orecchie! Allora, pensai, se è diventato rosso ha compreso quello che ho detto o  lo ha intuito. Ma evidentemente, non ha saputo distinguere che io non parlavo portoghese ma bensì italiano, perchè riconsegnandomi il passaportopassaporto ha detto una frase in portoghese che io ho compreso: "Sarà come dite voi!". Così, egli non era diventato rosso per la mia sfacciataggine, ma perchè pensava o aveva creduto di essere in errore e perciò era divenuto rosso: si era vergognato. Se si fosse accorto dell'inganno, me l'avrebbe fatta pagare cara. A me interessava, soprattutto che mi riconsegnasse il passaporto e la mia valigetta che avevo l'incarico di far giungere a destinazione, questa la prese in mano macchinalmente e me la riconsegnò senza aprirla nè osservarla.
Ma prima dovevo assolvere ad un altro incarico. Un compagno era partito prima di me, il quale contrariamente agli accordi presi, non aveva dato piò notizia di s’ e per giunta aveva anche il compito di attendere in un determinato giorno a Bruxelles altri tre compagni che sarebbero arrivati nello stesso luogo ad una ora determinata. Temevamo che i tre giungessero al luogo prescritto e non trovassero nessuno che dicesse loro cosa avrebbero dovuto fare. Così mi fecero partire per Bruxelles in aereo affinchè arrivassi in tempo. Arrivai in anticipo e prima di recarmi all'appuntamento andai a mangiare in una piccola trattoria. Ordinai il pranzo e mentre attendevo che portassero in tavola, un presentimento mi fece alzare ed andare a vedere fuori. E chi ti vedo? Adelmo Mercandino, il compagno che era partito e che non aveva dato piò segni di vita e per il quale mi avevano fatto partire. Lo criticai aspramente per il fatto che non aveva dato piò notizie a chi doveva darne, ma mi rispose con un'alzata di spalle, dicendo: "Eh, già! Per quelli è tutto facile". "Senti, io non voglio sapere nulla delle tue questioni" ribattei e proseguii "però so che tu, ora, vieni con me; prima mangi se vuoi mangiare, dopo ce ne andremo alla posta e faremo un telegramma per far sapere a chi di dovere che ci siamo incontrati e lo firmeremo entrambi". Così facemmo, dopo andammo ad attePianosandere Giuseppe Chiarugi di Empoli, morto poi, nella guerra civile spagnola, Romolo Giovanniantonio, di Teramo morto poi nel carcere fascista di Pianosa il 14 novembre 1942, e la Laghi. Erano già ad attenderci i primi due, con i quali, mi sono avviato alla volta di Parigi. Mercandino attese la Laghi e siccome era la sua donna, avrebbe pensato lui a condurla dove doveva.