Capitolo 13
Di nuovo arrestato a Roma e tradotto
in Via Tasso
Dal compagno Pompilio Molinani, alla fine di febbraio o ai primi
di marzo, venni messo a contatto con un colonnello e un maggiore del fronte
militare, badogliani. Il primo si faceva chiamare da me Tomassini, il secondo
Iannarone. Il vero nome del primo l'ho saputo soltanto dopo, era Bernabì,
perchè lui, si interessò per farmi prendere presto la paga come
"maggiore" della formazione partigiana "Castelli Romani"
- qualche anno fa, Antonio Cicalini mi domandava se avevo mantenuto i contatti
col Bernabì il quale era divenuto maresciallo, cioè aveva raggiunto
il massimo della carriera - il nome del secondo non l'ho mai saputo, ma
so che egli fu arrestato e fucilato dai tedeschi dopo tre o quattro volte che
ci eravamo incontrati. Lo scopo per cui il partito mi aveva messo a contatto
con questi due ufficiali, era quello di vedere se era possibile con essi e le
loro forze, concertare qualche azione militare in qualche zona della regione
ed in ogni caso chiedere il loro concorso, particolarmente finanziario, che
forse era il solo ed unico che fossero in grado di dare. Sin dai primi colloqui
il colonnello Tomassini si felicitè con noi, per ciè che eravamo
riusciti a fare e stimava le nostre forze al sommo grado. Parlè con me
molto chiaramente, cioè uomini di azione come erano nelle nostre file,
essi non ne avevano, finora a lui non avevano fatto altro che spillare quattrini,
uomini che promettevano di fare e poi non facevano nulla. "Voi, invece,
quello che dite di fare, fate, di conseguenza chiedete e noi siamo qui per aiutarvi,
in danaro, si intende". Mi incontrai cinque o sei volte con lui,
da Piazza della Croce Rossa a Piazza di Porta Pia. Ci lasciammo con l'intento
che la prossima volta che ci saremmo incontrati, mi avrebbe fornito l'importo
per l'acquisto di un calesse e di un cavallo, che io naturalmente non avrei
mai acquistato, ma avrei speso quella somma per altre cose ben piò utili
di quella. Ma a tanti anni di distanza non riesco proprio a ricordare perchè
decidemmo quello, forse per utilizzarlo per muovermi piò celermente?
Il giorno dopo l'ultimo incontro col colonnello e precisamente il 17 aprile;
i tedeschi con la pistola puntata forte dietro le mie scapole, affinchè
io la potessi sentire, mi arrestarono e condussero a via Tasso. Avevo fatto
un tentativo di fuggire, ma incespicai allo scalino proprio davanti alla statua
di S. Francesco, a San Giovanni. Non sarei mai riuscito a fuggire, anche se
non avessi intoppato nello scalino; primo perchè il tedesco mi avrebbe
sparato, secondo anche se non mi avesse preso c'erano troppi tedeschi scaglionati
in borghese per tutta la piazza pronti ad arrestarci. Credevo di essere il solo
arrestato, ma su di un taxi su cui il tedesco, sempre con la pistola puntata
mi fece salire e sul quale feci sparire in pochi attimi taccuino e matita che
avevo in tasca, vidi venire innanzi altri tedeschi che con la pistola puntata
facevano salire sullo stesso taxi dove ero io, Guglielmo Linari e Luigi Passa.
Su un'altra macchina i tedeschi facevano salire i due compagni di Genzano che
insieme ad Alfredo Michelagnoli e facenti parte delle due pattuglie che avevano
passato le linee per andare a conferire col comando alleato, erano ritornati
dopo due mesi e mezzo. Erano stati paracadutati una settimana prima nella zona
di Saracinesco. Una mezz'ora prima del nostro arresto i due compagni di Genzano,
Luigi Passa, Guglielmo Linari e il sottoscritto, eravamo nei locali della scuola
"Giosuè Carducci" di via La Spezia. Da poco scesi nel cortile
di tale scuola ero chino a spiegare ai compagni, che erano stati paracadutati,
come si dovesse fare per prendere le "coordinate" di un punto, quando
improvvisamente alle nostre spalle: "Chi di
voi è Severino Spaccatosi?". Ci voltammo, riconobbi la signora
sui trent'anni che due giorni prima, accompagnata da uno di Albano, un certo
Bruno De Rossi, detto "Barile", mi si era venuta a raccomandare affinchè
io le salvassi i suoi due fratelli ufficiali italiani, fuggiti dai tedeschi.
Questa donna recitava molto bene la sua parte, ma tuttavia io le avevo risposto
che io non potevo fare assolutamente niente per i suoi fratelli, che io ero
una piccola persona, che non avevo nessun potere, ma essa insisteva che io,
volendo, potevo fare qualcosa, e per poco non mi si era messa a baciare le mani
in mezzo alla strada. Alla fine per togliermela dai piedi le chiesi chi fossero
i suoi fratelli. Ella mi diede il nome di un maggiore e di un capitano. Le ripetei
ancora che io non potevo far nulla per lei, ma aggiunsi di aver fiducia perchè
non si può mai sapere quello che ci riserva la vita. Dopo due giorni,
improvvisamente, me la ritrovavo alle spalle, in quel momento ebbi quasi la
certezza di trovarmi di fronte ad una spia. Lei ricominciò la solita
pantomima dei suoi fratelli e io allora, per tagliar corto, le dissi che non
sapevo che cosa farci e che alle stesse condizioni dei suoi fratelli chissà
quanti altri ce ne erano. Mentre ella se ne andava raccomandai ai compagni di
osservarla bene, perchè a me quella donna non piaceva affatto ed uscii
dalla scuola e cominciai a seguirla tenendomi ad una distanza di una cinquantina
di passi; mentre lei stava voltando in direzione di S. Giovanni e mi affrettavo
per evitare di perderla di vista, mi si affiancè un uomo molto alto che
mi disse di far parte della polizia germanica e mi ordinè di seguirlo.
"Cosa dice?". Replicai io. Ma non
gli diedi il tempo di ripetere la frase che mi misi a fuggire, ma dopo neanche
cinquanta metri incespicai e come ho giò detto, mi avrebbe ripreso anche
se non mi fosse accaduto quell'incidente. Uno dei compagni di Genzano, Nello
Lommi, si era fatto venire "il male", una sorta di convulsioni e c'erano
una decina di tedeschi per farlo rinvenire. Alfredo Silvestri cercè di
fuggire come avevo giò tentato io, ma i tedeschi gli spararono e lo presero
ad un fianco di striscio. La piazza di S. Giovanni e il piazzale fuori della
porta pullulava di poliziotti della gendarmeria germanica. Quale era stata la
causa di tutto quell'approntamento di polizia e del nostro arresto? Quella donna?
Ma quella donna cosa poteva dire di noi? Nulla! Ma perchè tutto quell'apparato
poliziesco? Non poteva essere per nulla. Una idea mi si fissè subito
nel cervello. Suicidarmi! Conoscevo per sentito dire i sistemi della polizia
germanica, poco più di nove anni prima con la polizia italiana ero molto
baldanzoso, qui c'era poco da esserlo, qui ti avrebbero levato di mezzo subito!
Ma non era per me che avevo paura, temevo che nella tortura potessi nuocere
a qualcuno, ecco perchè volevo suicidarmi. Continuamente vedevo tante
figure di povera gente che non avrebbe esitato un momento ad uccidere -
avevamo davanti l'esempio delle Ardeatine - se avessero saputo solo qualcosa
di ciè che avevamo fatto!
Ci misero in una stanza con le mani alzate e con la faccia al muro, tutti e
tre in fila ad una parete, i due genzanesi stavano alla parete opposta alla
nostra. "I genzanesi se la sbroglieranno come meglio credono" pensai.
Ebbi la possibilità di dire a Linari e a Passa: "Attenzione! Qui
non si scherza! Ne va della vita di un sacco di persone. Ci conosciamo solo
come cittadini di Albano. Venivo a trovarti, Linari, per avere sigarette. Tu,
Passa, eri da me per chiedermi consiglio sui macchinari che volevi acquistare".
Non feci in tempo a ricevere la loro risposta, riuscii a captarla piò
con il cervello che a sentirla, che mi giunse un formidabile pugno sul fianco
destro che mi fece piegare in due. Mi afferrarono per i capelli e mi trascinarono
in un'altra stanza. Riuscii ad afferrare ciè che diceva il gendarme tedesco
additandomi agli altri colleghi, che bisognava che mi sorvegliassero attentamente
perchè avevo cercato di parlare con gli altri. Dunque, quale poteva esser
la causale dell'arresto? Se l'arresto non proveniva dalla donna, da cosa poteva
provenire o da chi? La mattina dello stesso giorno, alle ore otto, il Prof.
Edoardo Volterra mi mandè per uno studente circa 25 Kg. di esplosivo
contenuti in un valigione. Lo studente li aveva posati ai miei piedi a Viale
Carlo Felice, dalla parte sinistra, andando da S. Giovanni a Santa Croce. Nel
punto ove c'era una scala con la quale si scende a viale Castrense. Lo studente
pose la valigia dieci metri prima di scendere la scala. "Avranno
arrestato lui?". L'esplosivo doveva servire a ripetere l'operazione
sulla linea Roma-Napoli, via Cassino. Dopo neanche due minuti che lo studente
se ne era andato, era venuto dalla parte opposta un compagno di Frascati che
aveva preso l'esplosivo e l'aveva portato via. "Che
abbiano preso lui?".
Quello conosceva bene chi io fossi. Mi ritornava in mente che già una
volta un compagno, Guerrino Perrucca di Ariccia, portava anch'egli una valigia
di esplosivo e mentre era fermo ad attendere il tram, gli si era avvicinato
un poliziotto che aveva intimato di aprire la valigia. Il Perrucca aveva risposto
che se aveva voglia, poteva pure aprirla da solo e gettando la valigia tra i
piedi del poliziotto se lera data a gambe. Mi avevano riferito i compagni di
Genzano che i tedeschi erano riusciti a prendere il ragazzo che tenevano presso
i Russi e che serviva da collegamento tra loro e i sovietici. Questi, il ragazzo,
aveva detto ai tedeschi che un "secchetto", che poi sarei stato io,
si recava spesso con un altro, Pino Levi, a dare istruzioni ai russi. Però,
non aveva saputo dire chi fosse il "secchetto", così i tedeschi
avevano caricato questo ragazzo su una camionetta e lo portaÔvano continuamente
in giro per i Castelli, per cercare di rintracciarmi. Che stessi quindi in guardia!
"Che mi abbia visto questo ragazzo, mi abbia
indicato ai tedeschi?". Ad ogni modo, poteva essere un'ipotesi,
ma se veniva di là non c'era alcuna possibilità di salvezza. Poi
c'era l'ipotesi che avesse cantato Enzo D'Amico. Questi, di cui io non ho piò
sentito parlare, partecipò all'attentato riuscito sulla Roma-Napoli,
via Formia. Era anche un bravo meccanico che sapeva mantenere in efficienza
e sempre pulite le armi.
Un giorno, nella sua squadra, lo incaricarono di fare un trasporto. Ritornò
in squadra senza carro, nè mulo, giustificando la perdita di tutto con
un bombardamento che lo aveva sorpreso nei pressi di Ciampino, diceva di aver
abbandonato ogni cosa ed era fuggito. I compagni della sua squadra non gli credettero,
lo accusarono di esserseli venduti e perciè gli diedero tante botte,
da rompergli le ossa. Sembra, che per reazione, se ne sia andato nei battaglioni
emme. Ma se lui avesse denunciato quello che noi avevamo fatto, si sarebbe dato
la zappa sui piedi. Ad ogni modo, se l'arresto proveniva di là, non c'era
possibilità di salvezza. La salvezza vi sarebbe stata solo se l'arresto
veniva da quella donna. Dopo avermi tenuto un'ora in una stanza da solo, mi
gettarono in un'altra con una lampada che accecava. "Qui
non vi resisterò una settimana", pensavo, ma poi ci si abitua
a tutto. Nella stanza vi erano Pio Rubesco (42),
Marco Turco (43) che mi fecero
subito cenno che l'altro giovane che era nella stanza, sui 25 anni, era una
spia, non ricordo come si chiamasse, e un polacco che si stava spidocchiando
in continuazione.
Per dormire davano un'unica coperta e il nudo pavimento. Sono ancora sotto lo
shock provocato dall'arresto e dal continuo assillo di quale possa essere la
sua causale. Passè un giorno, ne passarono due, la vita sembrava un inferno!
Ma intanto se non mi venivano a prendere per interrogarmi, ciè voleva
dire che non era gravissimo, in caso contrario mi avrebbero chiamato! Da mangiare
era schifoso, ma dopo ventiquattro ore si ingoia tutto e siccome oltre che schifoso
era pochissimo, eravamo sempre affamati. Al gabinetto si poteva andare solo
due volte al giorno, alle 13° e alle 19° Chi sa mai che ora era! Il
gabinetto era sempre affollato da ebrei: gli ebrei denunciati dai bravi italiani
per cinquemila lire ciascuno! Ad una determinata ora li portavano a Regina Coeli
e da lì poi, sarebbero stati mandati nei campi per la soluzione finale.
Se si aveva la necessità di andare al gabinetto e si aveva, dal momento
che questa è una necessità naturale, bisognava abituare l'organismo
a quelle determinate ore in quelle ore, si sarebbero trovati sempre ebrei dai
sette anni ai settanta e quello che dovevi fare era da farlo davanti a loro.
Se disgraziatamente si era pressati da una necessità naturale al di fuori
di quelle ore, senza fare tante storie, tornava conto prendere il recipiente
che si aveva per la ministra e la si faceva lì. Passarono ancora un paio
di giorni e ancora non venivano a prendermi per interrogarmi, ma allora era
proprio vero che non era grave! La sera di tanto in tanto si sentiva degli urli
di dolore, invocazioni di aiuto, pianti che ti strappavano il cuore dal petto:
mi ha sempre fatto tanto male sentire un uomo piangere.
Mi vennero a prendere dopo circa una settimana che mi avevano arrestato: ora
me ne avrebbero dovuto dire la ragione. Il traduttore Scarpato, una lurida spia
di Frascati, passato al servizio dei tedeschi (in seguito sarà preso,
arrestato, giudicato da un tribunale italiano e fucilato), mi disse chiaro e
tondo che mi avrebbero torturato, poteva impedirlo solo se avessi confessato
tutto. "Vedi quello", mi disse indicandomi
il "letto di contenzione" che era
alle mie spalle, "Se non parli ti stenderanno
lì sopra, ti legheranno ben bene e puoi stare sicuro che ti faranno dire
tutto". "Ma non occorre che mi stendano qui sopra, perchè dirè
tutto quello che so, se quello che mi si domanderà sono cose di mia conoscenza.
Non ho nessuna intenzione di marcire qui dentro!".
Altro segno che la mia situazione non era grave, era che colui che faceva l'interrogatorio
era un maresciallo della gendarmeria. Egli interrogava e metteva a verbale.
Comprendevo un buon settanta per cento di ciè che il maresciallo diceva
di domandarmi a Scarpato, ma io me ne guardavo bene di farglielo sapere. Le
accuse mi fecero strabiliare! Ecco perchè erano stati tanti giorni prima
di venirmi a prendere: non avevano nulla in mano! Le accuse che mi si facevano
non stavano nè in cielo nè in terra. Qual'era questa accusa? Che
io stavo organizzando partigiani per tagliare la ritirata alle truppe tedesche,
che avevo falsificato una grande quantità di tessere, e qualche altra
accusa del genere. "Ebbene, quali prove avete? Io ho intenzione di dirvi
tutto, ma non volete che io vi dica la verità!" Continuarono con
l'accusarmi di essere un partigiano, ed io lì a negare. Mentre continuavo
a negare, ad un tratto mi arrivò un ceffone che istintivamente cercai
di parare. Al secondo non mi mossi; chi dava questi ceffoni era un uomo alto
un metro e ottanta circa, sui trentacinque anni, una mano abbastanza pesante.
Riuscii a sentire fino ai quinto, al sesto al massimo, poi non sentii piò
nulla, solo che sulle spalle non mi sembrava piò di averci una testa
ma un pallone e le orecchie che mi fischiavano. Ad un certo punto il maresciallo
si fermò. Avevo compreso che cosa voleva egli da me. Doveva aver saputo
che ero un comunista.
Bruno De Rossi aveva incappato in una spia, egli invece credeva di aver fatto
una conquista. Lei gli aveva raccontato la favola dei fratelli ufficiali e che
cercava appunto un riferimento per mettersi in contatto con i partigiani, per
metterli a loro volta a contatto con i suoi fratelli. De Rossi sapeva di sicuro
che ero comunista e anche che ero partigiano e della prima cosa aveva dato anche
una prova, cioè che avevo fatto tanti anni di carcere. Ma della seconda,
si guardò bene di dare una prova. Altrimenti me l'avrebbero buttata in
faccia! Essere un comunista significava essere partigiano anche per i tedeschi.
Perè a me non potevano neanche contestare questo, se avevo fatto già
nove anni di carcere non bastava? Allora dissi a Scarpato che traducesse all'ufficiale
che io ero comunista e per questo, avevo giò fatto nove anni di carcere;
li ero diventato tubercolotico. Da quando ero uscito, e non erano passati neanche
sei mesi, dovevo pensare a curarmi e non potevo fare più politica.
Molte persone, siccome sapevano chi fossi, credevano che svolgessi attualmente
la stessa funzione che svolgevo tanti anni fa, ma evidentemente non mi credevano:
anche pochi giorni prima di essere arrestato una donna era venuta a supplicare
il mio aiuto per due fratelli ufficiali fuggiti ai tedeschi. E gli raccontai
tutta la storia. Per mia cattiva interpretazione e traduzione del traduttore,
il Maresciallo nel corso dell'interrogatorio si innervosì e incominciè
a battermi sulle gambe. E io niente, come se battesse un altro! Ormai ero io
il più forte!
Nel frattempo avevano arrestato anche Luigi Benedetti e credo che lo sia stato
anche il capo stazione di Albano dell'epoca. L'autore se pure involontario di
questi arresti, è stato Bruno De Rossi. Ora, arrestato, voleva fare il
furbo, cioè affermava che non mi conosceva quando sapevano bene che la
donna da me l'aveva accompagnata lui. Mano a mano che io raccontavo vedevo bene
che ciè che dicevo faceva presa. Fecero il confronto tra me e Bruno
De Rossi. Egli sosteneva di non conoscermi, ma appena lo ebbi di fronte, gli
dissi: "Ma tu, come cittadino di Albano, non
mi conosci? Non sei nato ad Albano tu?". "Sì". "E
allora, perchè lo neghi?".
Tutti i compagni che furono arrestati durante il periodo dell'occupazione tedesca,
compreso il povero Salvatore Fagiolo che si era comportato da vero eroe, si
comportarono degnamente. da veri combattenti:
Cesare Passa, Ildebrando Giannini, Luigi Benedetti, Luigi Passa, Guglielmo Linari.
Guai se uno di loro si fosse lasciato sfuggire quello che era stato fatto nei
Castelli Romani! Lo stesso Bruno De Rossi, che inconsapevolmente incappè
in una spia, quando si accorse dell'errore, pur non potendo fare nulla, perchè
ormai gli arresti erano stati operati, fece di tutto per non aggravare la situazione.
Dopo 19 giorni che ero a via Tasso, riconquistai lo "stato di piena
tranquillità". Il verbale stilato dal maresciallo diceva che non
erano vere le accuse mosse nei miei confronti, che non si poteva accusarmi neanche
di essere un partigiano, benchè abbia scontato nove anni di carcere,
perchè comunista. Quello che piò di tutti mi importava era che
non era stato scoperto nulla e i miei compagni, coloro che furono presi con
me il 17 aprile, Guglielmo Linari e Luigi Passa e anche Luigi Benedetti, furono
scarcerati verso il 20 maggio. Quando lo seppi, dallo scopino, fui immensamente
felice.
La composizione della mia stanza non era più quella di prima.
Vi erano ora due alti ufficiali, un colonnello e un generale, il compagno Carlo
Molinari, l'avv. Lino Eramo, l'avv. Bonflglio, un giovane universitario del
partito d'azione e lo stesso polacco sempre piò pieno di pidocchi. Come
vorrei poter saper scrivere per dire quello che avveniva a via Tasso! Io ho
fatto nove anni di carcere e neanche due mesi a via Tasso, trentanove giorni,
per precisione, ma credo che abbiano influito negativamente piò i trentanove
giorni sul mio fisico che non i 9 anni. Quello che ti annichiliva, ti annientava
a via Tasso era la totale mancanza di rispetto della personalità umana.
Un essere umano era considerato meno di un insetto, un pidocchio da schiacciare
e basta. Mi viene in mente quel povero uomo che per un certo numero di sere
ad un'ora determinata, cominciavano a rincorrerlo dal primo piano all'ultimo
e dall'ultimo al primo e tre o quattro volte il circuito si ripeteva battendolo
fortemente con una cinghia e tutto questo perchè, dicevano, il poveretto
aveva chiesto un'attività perchè non poteva stare senza far niente.
Ripenso a quei poveri bambini ebrei denunciati per cinquemila lire, in attesa
portati a Regina Coeli e da qui ai campi della morte, assiepati nelle latrine
di via Tasso e costretti ad assistere ai bisogni corporali di noi carcerati.
Ripenso a quel povero vecchio ebreo, aveva circa una settantina d'anni, tratto
dalla latrina e chiamato nel vestibolo, costretto per il loro divertimento,
a fare esercizi di ginnastica di molto superiori alle sue forze raccomandarsi:
"Ma io potrei essere vostro padre, abbiate
pietà" chiedeva ai suoi aguzzini, ma questi sordi alle sue
invocazioni facevano delle sguaiate risate, ogni qual volta il vecchio cadeva
perchè le forze gli mancavano per reggersi in equilibrio e alla fine,
a quel povero vecchio che grondava sudore, da tutte le parti, visibile a noi
tramite un piccolo foro fatto con un ago al compensato della porta dall'autotrasportatore
romano, Rubesco, gli mettevano un secchio colmo d'acqua per cappello.
Sono cose indescrivibili, eppure sono cose che sono accadute sotto i nostri
occhi.