Alcune riflessioni sul senso di una rassegna documentaristica e cinematografica palestinese

La questione palestinese è tornata di nuovo al centro dell’attenzione dopo l’inizio della nuova Intifada.

L’informazione di massa ha raccontato il più delle volte la spirale di violenza e repressione che ne è derivata con un misto di moralismo e di superficialità.

Naturalmente questo approccio non è ingenuo, non lo è se si pensa a quali sono stati gli atteggiamenti che i governi occidentali hanno tenuto dopo il G8 di Genova e dopo l’11 Settembre.

Sotto la bandiera della difesa dalla sovversione e dal terrorismo internazionale, si è giustificata una radicale sospensione di diritti all’interno dei singoli stati e una impressionante accelerazione delle politiche belliciste e neocoloniali al livello internazionale, a questo si è accompagnata una politica dell’informazione strettamente legata agli interessi di chi ha attivato tali politiche.

Naturalmente, dato il grande successo d’opinione riscosso dal concetto di "guerra umanitaria", ovvero dall’idea che la guerra moderna venga fatta in difesa dei diritti umani e della "sicurezza" dei cittadini (occidentali), è diventato tollerabile bombardare popolazioni civili e inermi per difendere il mondo libero dal terrorismo e dall’immoralità: ci si difende insomma di chi "per propria matrice culturale" è propenso a calpestare la democrazia, la libertà e la prosperità dei paesi ricchi: a tal scopo ogni mezzo è valido, anche il calpestamento della democrazia, della libertà e, più raramente, della prosperità altrui.

Perché una politica così impresentabile possa essere accettata è necessario un complesso lavoro di informazione-formazione dell’opinione pubblica: è necessario far passare l’idea che l’occidente che oggi "si difende" sia portatore di una superiorità morale oltre che militare e politica. Deve passare l’idea che la guerra è indispensabile per mantenere la pace e che la repressione si esercita per garantire la libertà. Il corollario a questo teorema è che si deve giustificare la violenza se ci si vuole davvero opporre ad essa.

Ecco che la crisi in Palestina ci vede spettatori inebetiti di un conflitto tra "due opposte violenze": veniamo spinti proprio dall’attuale clima culturale a decifrare la lotta di liberazione palestinese come lo scontro tra il terrorista ed uno stato di diritto che, sebbene particolarmente violento, è pur sempre depositario del legittimo monopolio della violenza.

Il massimo della concessione al dubbio che l’attuale senso comune ci porterebbe a dare è di dire "io condanno Palestinesi e Israeliani perché usano entrambi la violenza per risolvere le loro controversie".

Pensare in questi termini significa essere schiacciati dal pensiero unico e oppressivo che Bush e colleghi hanno affinato recentemente per portare avanti la loro politica neocoloniale e fascista, significa cioè non concedere a chi si ribella all’oppressore la legittimità della sua lotta.

Scambiare una lotta di liberazione per una strategia terroristica o per un cieco abbandono alla violenza significa dire che l’invasore ha diritti pari all’invaso, ovvero che chi ha oppresso con la forza delle armi subisce un torto nel momento in cui viene respinto.

Noi non vogliamo che si dimentichi che la Palestina è stata invasa da Israele, che la conseguente occupazione militare viene esercitata nel modo più barbaro e spietato, che in Palestina l’esercito occupante spara impunemente su donne uomini e bambini e contestualmente manda propri coloni ad espropriare una terra non loro.

Il popolo palestinese viene privato non solo del diritto alla pace, all’autodeterminazione, al benessere ma anche di quello alla legittima difesa. Così chi subisce quotidiani bombardamenti, distruzione metodica delle proprie case, azzeramento dell’economia finisce per essere anche uno "sporco terrorista" o, nella migliore delle ipotesi, un violento.

Attraverso una rassegna di documentari e film, vogliamo organizzare un momento in cui una visione meno "ipnotizzata" della questione palestinese possa filtrare tra le maglie dell’informazione ufficiale, generalmente appiattita sulla generica condanna delle opposte violenze.

Vorremmo, nella differenza delle idee, essere un punto di confronto tra letture coscienti della situazione mediorientale e contribuire alla diffusione di informazioni se non altro oneste.

Intendiamo organizzare una rassegna divisa in due parti. La prima destinata agli esempi più recenti e significativi di documentario sulla Palestina realizzati da registi occidentali. La seconda, quella che a nostro parere meglio condensa lo spirito profondo di questa iniziativa, dedicata ai documentari dalla Palestina. Ovvero, si tratta di dare visibilità e la massima diffusione possibile a quelle esperienze documentarie nate in Palestina e realizzate da palestinesi che intendono così comunicare la propria condizione individuale e collettiva ed esprimere il proprio punto di vista su questa drammatica vicenda storica.

Riteniamo che il fatto di elaborare autonomamente la propria esperienza di popolo oppresso e codici propri attraverso i quali darle una forma e condividerla con altri costituisca un significativo momento nel processo di autodeterminazione dei Palestinesi. Per questo pensiamo che, soprattutto in un momento grave e delicato come l’attuale, una rassegna come questa possa essere importante, in quanto spazio che consenta alla cosiddetta "opinione pubblica" italiana di conoscere e riflettere su questa realtà a partire dalle rappresentazioni che ne danno gli stessi soggetti coinvolti. Una rappresentazione senza dubbio parziale, ma proprio per questo importante­ perché esprime la vicenda soggettiva di un popolo in lotta, le sue istanze e le sue aspirazioni, senza le strumentalizzazioni esterne e le varie forme di spettacolarizzazione che sempre più caratterizzano "visioni" massmediatiche.

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