"Nell'inferno
di Sabra e Chatila"
di Bruno Marolo*
1986 SUGARCO ed.
Cominciamo dunque da Sabra e Chatila: La prima strage poteva essere evitata? La forza multinazionale intervenuta nell¹Agosto 1982 per sovrintendere all¹esodo dei combattenti palestinesi lasciò il Libano tra il 10 e il 13 settembre. Il massacro nei campi palestinesi cominciò tre giorni dopo.
Chi fece partire i soldati, quando si sapeva benissimo che sarebbe stato il diluvio? Chi impedì loro, quando tornarono per far fronte alla nuova emergenza, di fare in modo che a Sabra e Chatila non dovesse scorrere tanto altro sangue? La richiesta ufficiale di intervento di una forza multinazionale di interposizione fu consegnata il 19 Agosto 1982 dal ministro degli Esteri libanese Fuwad Butros agli ambasciatori di Stati Uniti, Italia e Francia.
Il piano fatto accettare dal mediatore americano Philip Habib a libanesi, palestinesi e israeliani prevedeva l¹intervento di 800 soldati americani, 800 francesi e 400 italiani per garantire l¹ordine durante il ritiro delle forze dell¹OLP da Beirut. Il mandato della forza multinazionale era di un mese, dal 21 Agosto al 21 Settembre, e avrebbe potuto essere rinnovato su richiesta dei libanesi in caso di necessità.
Tutti i combattenti palestinesi avrebbero dovuto essere partiti entro il 4 Settembre e in seguito la forza multinazionale avrebbe ³collaborato con l¹esercito libanese per portare una sicurezza durevole in tutta la zona di operazioni². Una sicurezza durevole. Era questa la principale condizione su cui aveva insistito il capo dell¹OLP Yasser Arafat, che rinfacciò poi ai paesi garanti di aver mancato ai patti. Nel Luglio 1983, in un¹intervista televisiva che gli feci a Tunisi, mi disse di aver avuto "precise garanzie" per l¹incolumità dei civili palestinesi da Philip Habib.
Il 17 Settembre dello stesso anno, a Tripoli nel Libano dove era tornato in cerca di fortuna che non ebbe, mi parlò di ³impegni scritti². Ma non aveva documenti da esibire. Vergata nero su bianco c¹era soltanto quella generica promessa di ³sicurezza durevole² che non fu mantenuta. Il primo scaglione della forza multinazionale (347 paracadutisti della legione straniera francese) sbarcò a Beirut il 21 Agosto rispettando il calendario stabilito, e il giorno stesso una nave greca portò qualche centinaio di fedayin verso l¹esilio. Arafat lasciò il Libano a fine Agosto e, dopo un breve scalo in Grecia, arrivò il 3 Settembre a Tunisi, dove il direttore del ministero degli esteri francese Francis Gutman lo aspettava per consultarlo sulle prospettive che si schiudevano in medioriente.
Il primo Settembre il presidente americano Ronald Reagan aveva annunciato il suo piano di pace: ritiro di Israele dai territori occupati e costituzione in Cisgiordania di una regione autonoma palestinese in "qualche modo associata" con la Giordania. Ero andato anch¹io a Tunisi per raccogliere la prima reazione di Arafat. Ma non era del piano Reagan che egli voleva discutere con Gutman.
Era preoccupatissimo per la sorte di Sabra e Shatila e supplicò il diplomatico francese di adoperarsi perché la forza multinazionale rimanesse in libano anche dopo il 21 Settembre. "Altrimenti", avvertì, "sarà una carneficina".
Un fatto nuovo aveva reso più acuto il pericolo.
Il 23 Agosto il Parlamento libanese, riunito nel settore Est di Beirut controllato dagli israeliani e dai loro alleati falangisti, aveva eletto Beshir Gemayel presidente della repubblica. La scelta era avvenuta prima che la forza multinazionale fosse al completo: i marines americani sarebbero sbarcati soltanto il 25 Agosto e il battaglione dei bersaglieri italiani "Governolo", comandato dal colonnello Bruno Tosetti, li avrebbe raggiunti il 26. In una Beirut ancora preda al caos Israele aveva spinto al potere l¹uomo che per anni aveva armato e sostenuto nella crociata contro l¹OLP.
Trentaquattro anni, corporatura tozza, una predilezione per le tute mimetiche e un¹abilità notoria nel maneggiare mitra e coltello, Beshir era il figlio più giovane del capo storico falangista Pierre Gemayel e si era affermato come uomo forte del partito. Aveva poche idee ma chiarissime. Una soprattutto: non un solo palestinese armato doveva rimanere nei 10452 chilometri quadrati del Libano. "I palestinesi devono capire", mi diceva in quei giorni uno dei suoi portavoce, che in Libano per loro non c¹è più posto e se partiranno sarà meglio per tutti. Prenderemo in mano la situazione a Sabra e Chatila, questi focolai di sovversione sfuggiti per troppo tempo a ogni controllo². Replicai che stringendo il tizzone ardente anche la mano del potere rischiava di bruciarsi. Risposta: "No, perché sarà una mano di ferro".
Questo programma spaventava non soltanto i palestinesi, ma gli stessi libanesi musulmani che avevano combattuto contro Beshir. Non mancavano naturalmente i notabili che correvano a giurare fedeltà al nuovo padrone ma neppure i gruppi armati che si preparavano a vendere cara la pelle. Anche dopo la partenza dei fedayin nel settore ovest di Beirut rimanevano milizie potenti: i "Morabitun", nasseriani, gli sciiti del movimento "Amal", i comunisti, i drusi del partito socialprogressista di Walid Jumblat avevano blindati e mortai. Prima di andarsene i palestinesi avevano consegnato loro le armi pesanti. Non era poi detto che le "Forze libanesi" le milizie cristiane di Beshir, avrebbero avuto facilmente partita vinta. Per imporre la sua autorità su Beirut ovest il presidente eletto aveva ancora bisogno dell¹aiuto di Israele: La forza di interposizione gli era d¹intralcio.
Del resto, neppure i paesi che avevano mandato le truppe erano entisiasti all¹idea di lasciarle ancora a lungo nella gola del lupo. L¹evacuazione delle forze dell¹OLP fu conclusa il primo settembre, in anticipo sul programma stabilito da Philip Habib, e nei giorni successivi i tre contingenti della forza multinazionale preparavano i piani per andarsene tra il 10 e il 16 settembre, una settimana prima cioè della scadenza (rinnovabile) del 21 prevista in origine.
Mentre la polizia di Beshir Gemayel affilava le armi, anche i più moderati tra i musulmani mostravano di aver paura. Nei quartieri in cui probabilmente ci sarebbe stata battaglia si trovavano le loro famiglie. Il 6 Settembre il primo ministro Shafiq Wazzan e una delegazione di notabili sunniti chiesero ai comandanti della forza multinazionale che rimanessero fino a quando le truppe israeliane non avessero tolto l¹assedio a Beirut. Il 10 Settembre, cedendo alle insistenze dei musulmani, il ministro degli esteri cristiano conservatore Fuwad Butros dichiarò ³Il governo libanese desidera la presenza a Beirut della forza multinazionale almeno fino al 21 Settembre². Era una richiesta ufficiale? ³No², si schermì il ministro, "questo è soltanto il nostro desiderio". Wazzan e Butros erano allora le massime autorità in Libano. Secondo la costituzione, Beshir Gemayel non avrebbe assunto la presidenza fino al 23 settembre, un mese dopo l¹elezione.
Ma l¹uomo del momento era lui e prevalse la sua volontà. Il rinnovo del mandato della forza multinazionale, ³desiderato² dal governo, non venne chiesto ufficialmente. In questa fase una ferma politica degli Stati Uniti e dei loro alleati europei avrebbe forse potuto evitare il massacro, salvare il Libano e porre le premesse per un negoziato in cui il problema libanese avrebbe potuto essere affrontato insieme con quello palestinese. Bastava che le truppe israeliane si ritirassero di qualche chilometro e la forza multinazionale si assumesse il compito di pacificare Beirut ponendo come condizione il disarmo di tutte le milizie comprese quelle cristiane. Ma nessuno osò prendere l¹iniziativa. Tra il 9 e il 10 Settembre si imbarcarono i marines. Il giorno dopo se ne andarono i bersaglieri e il 13 Settembre anche i francesi presero il largo. Per l¹invasione di Beirut ovest il campo era libero. ³Nei prossimi giorni assisterete a un bello spettacolo, una cosa veramente grossa², confidò Beshir a un giornalista suo amico. Le milizie cristiane si concentrarono a Shweifat, sulla collina che domina l¹aeroporto di Beirut.
Ai loro piedi si stendevano, facile preda, i campi di Sabra e Chatila indifesi dopo la partenza dei fedayin. Anche la forza multinazionale che avrebbe potuto e dovuto difenderli se n¹era andata. Il 12 Settembre le ³Forze libanesi² cominciarono ad ammassare a Shweifat non soltanto i camion per il trasporto delle truppe ma anche i bulldozer che sarebbero serviti per demolire i campi e scavare le fosse comuni. Beshir Gemayel sapeva, allora, in quale spaventosa strage di innocenti si sarebbe risolta la conquista di Sabra e Chatila? Se anche egli aveva pianificato il massacro, non visse abbastanza per vederlo. Il 14 Settembre una carica di tritolo esplose nella roccaforte cristiana di Ashrafie ed egli fu tra i ventuno morti. Scoperto ed arrestato dalle "Forze libanesi" una settimana dopo, l¹attentatore, Habib Shartuni, confessò di appartenere al ³Partito social nazionalista siriano², un movimento libanese collegato con Damasco, e di aver agito in nome dei suoi ³ideali politici². Soltanto con il tempo sarebbero emersi i particolari della congiura. Il padre di Shartuni, un cristiano nemico dei falangisti, era stato ucciso dalle squadre di Beshir Gemayel nei primi anni della guerra civile. Nel 1979 il giovane Habib chiese udienza a Beshir. ³Mio padre è morto², gli disse, e io non so dove andare.
Sono libanese come voi, cristiano come voi. Lasciate che torni ad abitare ad Ashrafie"² Ashrafie è il quartiere cristiano di Beirut: All¹inizio della guerra civile le falangi dei Gemayel avevano cacciato dapprima i musulmani e i drusi, poi chiunque osasse manifestare un¹idea diversa dalla loro. La famiglia Shartuni possedeva qui un alloggio nello stesso edificio in cui era la direzione delle "Forze libanesi". Tra gli inquilini non avrebbe mai dovuto infiltrarsi un dissidente, per elementari ragioni di sicurezza. Ma Beshir Gemayel ebbe uno dei suoi slanci di paternalismo e prese il figlio del nemico morto sotto la sua protezione. Habib Shartuni andò ad abitare con la sorella un piano sotto l¹ufficio di Gemayel e cominciò subito a preparare l¹attentato. Aveva giurato di vendicare il padre e insieme decapitare le "Forze libanesi". Cento grammi per volta, superando i controlli delle guardie di Beshir che cominciavano a conoscerlo bene e a fidarsi di lui, portò l¹esplosivo in casa fino a metterne insieme 25 chili. Un lavoro durato tre anni. Il ³Partito social nazionalista siriano² gli aveva procurato un detonatore con radiocomando di fabbricazione giapponese, abbastanza perfezionato perché le onde della radio falangista, che trasmetteva dallo stesso quartiere, non provocassero l¹esplosione nel momento sbagliato. Quando Beshir Gemayel venne eletto presidente, Habib Shartuni decise di agire.
Bisognava liberare il Libano dal dittatore prima che fosse troppo tardi. Da un bar presso casa telefonò alla sorella, l¹attirò fuori con un pretesto per salvarle la vita e fece scoppiare la bomba. La morte del presidente eletto fece precipitare la situazione. La mattina dopo, 15 Settembre, le truppe di Israele invasero Beirut ovest. Il 16 Settembre il generale israeliano Amir Drori, comandante del fronte nord, ricevette in un ufficio del porto di Beirut il nuovo capo delle "Forze libanesi" Fadi Frem e il responsabile dei servizi speciali Elias Hobeika. Venne deciso di affidare ad Hobeika il comando dell¹operazione a Sabra e Chatila. Da Shweifat, le "Forze libanesi" scesero verso l¹aeroporto occupato dagli israeliani e da qui raggiunsero Beirut attraversando il sobborgo sciita di Uzay. Per segnalare la strada avevano tracciato ai crocevia, dove sarebbe rimasto visibile per molti mesi, il loro simbolo: un triangolo inscritto in un cerchio. Alle cinque di sera del 16 Settembre entrarono in Sabra e Chatila.
Veniva buio e gli israeliani dai bordi dei campi sparavano razzi illuminanti per facilitare l¹irruzione. Alle sette un gruppo di donne palestinesi corse achiedere aiuto ai soldati del generale Drori, uno dei quali avrebbe poi testimoniato davanti alla commissione d¹inchiesta: ³Le donne gridavano che i falangisti stavano ammazzando la gente a caso. Avvertii i miei ufficiali ma mi risposero che era tutto in regola"² Una prima ondata di civili in fuga si riversò nella "foresta dei pini", un parco che era l¹orgoglio della città prima di essere ridotto dalle bombe israeliane ad una distesa di tronchi senza vita. Fu qui che si diffusero le prime notizie del massacro. Un giovane palestinese, Zakaria Sheikh, soccorse una donna piangente e da lei seppe quello che stava avvenendo. Sull' unica grande strada, sempre piena di polvere o fango, che attraversa Chatila c¹era il negozio di bicicletta di un tale Abu Walid Harb.
La donna abitava nella baracca accanto. Il marito e il figlio più grande si erano messi in salvo qualche ora prima, quando era giunta voce che stavano arrivando le milizie cristiane. Ma lei era rimasta, con il figlio più piccolo. Gli arabi, in genere, non ammazzano donne e bambini. Sono le mogli che restano a custodire la casa quando gli uomini scappano. Una legge non scritta della guerra impone di rispettarle. Ma quella sera le ³Forze libanesi² volevano vendicare Beshir Gemayel e non avevano più legge.
Quando tre miliziani sfondarono la porta, la donna strinse più forte il bambino, come cercando di nasconderlo tra le vesti. Un uomo l¹afferrò per il collo mentre gli altri le strappavano il figlio dal petto. Ridevano. Sbatterono il bambino in un angolo e presero la mira con i fucili. ³Non uccidetelo², gridò la donna, ³per amor di Dio, no!². Si buttò avanti per ripararlo con il suo corpo, fu ricacciata con il calcio del fucile nel petto. E ridevano. Il bambino cominciò a strisciare, piano paino, tremando, verso la madre. Uno dei tre miliziani l¹afferrò per un piede, come si afferra un pollo, e lo ributto nell¹angolo. ³Uccidete me invece², gridava la donna, "in nome di Dio, pietà". "No, è lui che vogliamo. Tra pochi anni diventerebbe un terrorista". Adesso non ridevano più. Il bambini gridava "Mamma, mamma" quando una raffica gli crivellò il corpo. Nella stessa strada abitava il vecchio Abu Diab con la figlia di diciassette anni, Aida.
Pensava di non aver nulla da temere perché era cristiano. Palestinese, ma cristiano. La sua morte ebbe una testimone, Umm Wisam, una vecchia che viveva nella stanza accanto e che nascosta dietro un mobile in cucina, udì, attraverso una parete sottile, lo schianto della porta sfondata e subito dopo una raffica di mitra. Alcuni proiettili bucarono il muro. Anche qui gli intrusi ridevano. Ci fu un rumore come di lotta, ma come avrebbe mai potuto lottare il settantenne Abu Diab contro un manipolo di miliziani in armi?
Poi un grido, inconfondibile, e allora Umm Wisam capì: stavano violentando Aida, Aida che adesso gemeva debolmente mentre il padre ripeteva con voce bassa e fremente un¹unica frase: "Dio vi maledica". Un nuovo urlo, terribile, si spense tra il crepitare di altre raffiche. Un breve, profondo silenzio sullo sfondo del cannone che in lontananza continuava a tuonare, poi i passi dei miliziani che se ne andavano. Umm Wisan osò uscire soltanto il giorno dopo, quando ormai le milizie si erano spostate verso altri quartieri di Sabra e Shatila. Il corpo di Abu Diab era sull¹uscio, braccia e gambe legate, un grande squarcio sulla spalla sinistra, vicino al collo.
Lo squarcio di un¹accetta. Aida, seminuda, stava sul pavimento, il petto e il collo profondamente graffiati, due fori di pallottola vicino al cuore. La vecchia cercò di ricomporle le vesti e soltanto allora si accorse che dal ventre spuntava il manico di una baionetta. Dal tetto di un caseggiato che domina Chatila gli ufficiali israeliani seguivano l¹operazione. Per tutta la notte e per tutto il giorno seguente le ³Forze libanesi² si abbandonarono ad un macello sistematico. Mentre alcune compagnie procedevano al rastrellamento, altre bivaccavano in un edificio abbandonato presso l¹ambasciata del Kuwait pronte a dar loro il cambio.
Gli israeliani fornivano i viveri: sul posto venne poi trovato un mucchio di scatolette di carne con le etichette in caratteri ebraici. I palestinesi in età di portare un¹arma venivano concentrati in uno stadio in rovina al margine di Chatila.
Molti vennero uccisi prima di arrivarci. I morti venivano seppelliti nei crateri aperti dalle bombe dell¹aviazione durante l¹estate e coperti dalla terra smossa dai bulldozer. Molti non vennero più ritrovati. Selma, tredici anni, è scampata per caso al massacro. "Eravamo in cinque", racconta, "mio padre, mia madre, mio fratello, la nonna ed io. Rimango soltanto io.
Era la sera del 16 Settembre. Stavamo da ore nascosti in un rifugio e siamo usciti perché non potevamo più respirare. I falangisti scendevano dalle dune al bordo del campo di Chatila. La mia gente è corsa loro incontro, agitando fazzoletti bianchi e implorandoli di non sparare. Hanno cominciato a far fuoco sugli uomini. Poi, anche sulle donne e i bambini. Mi sono nascosta in un gabinetto e di lì ho visto ammazzare la mia famiglia e quasi tutti i miei vicini. "Il quartiere veniva rastrellato casa per casa. Gli uomini venivano uccisi subito, le donne e i bambini venivano portati in uno spiazzo, davanti a casa mia. A un certo punto ho messo il naso fuori dalla finestra e un falangista mi ha sparato, senza colpirmi. Poi ha detto a una vicina di venirmi a chiamare. Ero stata chiusa cinque o sei ore nel gabinetto, soffocavo. Sono uscita nel buio e il falangista ha puntato una torcia elettrica per vedere se ero una ragazza o un ragazzo. ³Sei palestinese?", ha gridato, "voi palestinesi volevate rubarci il Libano". "Sullo spiazzo c'era la famiglia di mio zio. Mio cugino di nove mesi piangeva.
Il falangista ha gridato: "Perché piange? Mi ha rotto le scatole", e gli ha sparato in una spalla. Io ho supplicato di risparmiarlo e allora lui lo ha afferrato per una gamba e con una baionetta lo ha ucciso. "In qul momento è arrivato mio zio Feisal. Un tipo picchiatello, che rideva o parlava da solo, oppure si metteva a cantare all¹improvviso. Ho implorato i falangisti che non gli sparassero: "Avete ucciso tutta la mia famiglia, mi resta soltanto lui". Siamo rimasti così tutta la notte, mentre i razzi illuminanti esplodevano alti sopra di noi. "Al mattino sono arrivati camion e furgoni per raccogliere i cadaveri. I falangisti hanno detto a mio zio Feisal di aiutarli. Tra i mucchi di corpi senza vita Feisal ha trovato sua madre. Per tutta la notte aveva canterellato senza capire cosa stava succedendo ma allora si è messo a piangere, perché sua madre era morta. ³Hanno portato i cadaveri nello stadio e li hanno messi nelle buche scavate dai bombardamenti aerei di quell¹estate. Poi hanno condotto nello stadio anche noi e ci hanno detto di aspettare.
Ci hanno tenuto lì fino alla mattina di sabato 18 Settembre. Ho visto un bambino di due anni, figlio dei miei vicini, sepolto vivo sotto il corpo di sua madre. L¹ho tirato fuori, ho trovato una coperta e gliel¹ho buttata addosso. Non so cosa ne è poi stato di lui. ³Il sabato i falangisti se ne sono andati ordinandoci di non muoverci. Dopo un po¹ sono scappata, ho chiesto aiuto ad alcuni soldati israeliani, che mi hanno portata verso il centro con un¹auto e mi hanno lasciata andare. Ho dormito nel parco dell¹Università americana. Domenica sera sono tornata a Chatila, con altri vicini, per cercare le nostre famiglie.
Le strade del campo erano coperte di cadaveri. Sono tornata a casa. Ho trovato mio zio Feisal, quello che li aveva aiutati a raccogliere i corpi dei morti. Prima di andarsene avevano ammazzato anche lui." La notizia della strage cominciò a circolare venerdì 17 Settembre e alcune ambasciate informarono i loro governi. Le "Forze libanesi" adesso dovevano fare in fretta. Spararono allora su tutto ciò che ancora si muoveva a Chatila, alla rinfusa, senza più curarsi di raccogliere i cadaveri che rimasero accatastati nella polvere dei vicoli. Intanto altri reparti rastrellavano i quartieri di Sabra e Fakhani, ammassando centinaia di prigionieri tra le macerie dello stadio bombardato presso i campi palestinesi.
Di questi ostaggi non si sarebbe saputo più nulla: soltanto una parte venne ritrovata nelle fosse comuni. La mattina di sabato 18 Settembre l¹operazione era conclusa. Un plotone di soldati israeliani entrò finalmente in Sabra e Chatila. Fece cessare la strage ma lasciò che gli assassini se ne andassero per la strada da cui erano venuti portando con loro i prigionieri. Nessuno saprà mai il numero esatto dei morti: 460 secondo l¹inchiesta ufficiale libanese, duemila secondo le valutazioni dei superstiti. Le fosse comuni scavate dalle "Forze libanesi" non vennero mai più aperte. L¹esercito libanese, che intervenne qualche giorno dopo, si limitò a sgomberare in fretta e furia i corpi rimasti insepolti a Chatila: soprattutto libanesi sciiti, uccisi a caso dalle milizie ebbre d¹odio. La preoccupazione principale dei soldati libanesi non era certamente di far luce sul massacro. L'ordine era di distruggere il maggior numero possibile delle baracche i cui abitanti erano morti o scappati, prima che fossero riparate e servissero a perpetuare l¹odiata presenza palestinese. La strage di Sabra e Chatila raggiunse lo stesso effetto che i terroristi israeliani avevano attenuto 35 anni prima a Deir Yassin, un villaggio della Palestina i cui abitanti furono fatti a pezzi dai seguaci del futuro primo ministro Menachem Begin.
I superstiti fuggirono atterriti lasciando il campo libero ai conquistatori. Soltanto donne e bambini troppo poveri per sapere dove andare rimasero accampati tra le rovine. Ed erano loro, testimoni che l¹inchiesta ufficiale non volle mai ascoltare, a raccontare che sotto le case demolite dai militari, sotto il terreno spianato dai bulldozer, erano rimasti molti cadaveri che nessuno aveva interesse a contare. I corpi recuperati venivano gettati in una buca all¹ingresso di Chatila, presso l¹unica fontana cui le donne del campo potevano allora attingere l¹acqua. Soltanto dopo l¹insurrezione dei musulmani di Beirut ovest nel Febbraio 1984 fu costruita qui una sorta di sacrario. Finchè la forza multinazionale, tornata dopo il massacro, rimase a Beirut per sostenere le autorità libanesi, queste non permisero che fosse posta una lapide sulla fossa comune, riconoscibile perché la terra ammucchiata in fretta sui morti formava una montagnola. Le delegazioni parlamentari europee che durante quel periodo venivano a spendere belle parole di circostanza sulla tragedia del popolo palestinese non mancavano mai di farsi scortare fino a questo Monte Calvario che per gli stranieri era diventato quasi un¹attrazione turistica. Ma i passanti libanesi non lo degnavano di uno sguardo e se i bambini palestinesi, che avevano madri e fratelli sottoterra, volevano ogni tanto portare un fiore, dovevano farlo prima dell'¹lba, quando ancora non circolavano le pattuglie dell¹esercito libanese sempre solerti nel reprimere questi atti sediziosi. L¹inchiesta ufficiale fu affidata al procuratore militare Asaad Germanos. Il massacro, secondo i testimoni, era stato compiuto da 1500 uomini che parlavano il dialetto di Beirut e indossavano l¹uniforme delle ³Forze libanesi². Beirut non è così grande da rendere impossibile l¹identificazione, tanto più che le indicazioni dei superstiti erano precise: tra gli assassini si erano distinti i reparti dei comandanti Elias Hobeika, Dib Anastas, Joe Edde, Pussy Ashar. Ma quando gli domandai se avrebbe interrogato questi personaggi, il magistrato rispose con altera dignità: ³Non posso lasciarmi influenzare dalle voci². No, il procuratore Germanos non andò a Sabra e Chatila, e i palestinesi superstiti che dalla "legalità" libanese avevano tutto da temere si tennero ben lontani dal suo ufficio. Dimostrarono maggior zelo gli inquirenti israeliani della commissione Kahane, che a un certo punto vennero anche a Beirut per documentarsi. Ma a loro interessava soltanto accertare le responsabilità morali del primo ministro Begin e del generale Sharon, ministro della Difesa. I nomi degli esecutori materiali dell¹eccidio non vennero mai resi pubblici nemmeno in Israele, con grande sollievo degli interessati. Il giorno in cui fu presentato il rapporto della commissione Kahane, nei quartieri cristiani di Beirut molta gente era incollata alla radio, per sapere se sarebbero stati pronunciati certi nomi. A Sabra e Chatila trovai invece l¹indifferenza più assoluta. Nessuno, letteralmente nessuno, aveva sentito le notizie. "E a noi che importa se Sharon perderà il posto?" mi disse la gente del campo. "Le sue dimissioni non faranno rivivere i nostri morti e nemmeno daranno a noi che siamo vivi una casa decente, un luogo dove stabilirci sicuri che domani non saremo noi ad essere scannati². Parole profetiche, perché alcuni tra i palestinesi che interpellai quel giorni sarebbero poi stati messi a morte dagli sciiti.
Il 21 Giugno 1983 anche il procuratore Germanos concluse la sua inchiesta con un¹affermazione meravigliosamente levantina: Israele veniva indicato come responsabile morale del massacro del quale non si trovavano gli esecutori materiali. Né il partito falangista né le ³Forze libanesi² che ne sono l¹organizzazione militare, sostenne il procuratore, avevano dato ai miliziani l¹ordine di fare una strage. Era dunque impossibile distinguere fra "azioni di guerra" e "crimini individuali" e il verdetto fu di non luogo a procedere.
Da quel momento in Libano di Sabra e Chatila non si parlò più. La stampa locale rispettò la consegna del silenzio, quella straniera venne censurata. Soltanto una volta, nel Settembre 1983, mentre già infuriava la rivolta dei musulmani e dei drusi contro il regime, il muftì sciita Abdel Amir Kabalan, una delle massime autorità religiose, sbottò durante una predica: "Se il governo avesse perseguito i colpevoli delle stragi con lo stesso impegno messo nel censurare la stampa che ne parlava, ora non ci sarebbero nuovi massacri in tutto il Libano." Nuove guerre insanguinano oggi la bolgia libanese. La strage di Sabra e Chatila è quasi dimenticata, come tante altre in questa parte del mondo: la "Quarantena" di Beirut, Tell Ez Zaatar, Damur, Hama in Siria, nomi a cui il tempo ha tolto ogni significato.
Ma forse i soldati italiani che per diciassette mesi hanno montato la guardia presso la fossa comune non dimenticheranno tanto presto. Erano tornati in Libano all¹indomani di Sabra e Chatila per difendere i superstiti, vennero coinvolti nel sostegno di un regime che arrestava e torturava le vittime, e proteggeva gli assassini.
*Bruno Marolo, giornalista italiano, è stato testimone degli eventi più drammatici prima come inviato della "Gazzetta del Popolo" di Torino e poi come corrispondente dell¹Ansa. Inviato in Libano nel 1973 ha assistito nell¹ottobre seguente alla guerra arabo-israeliana sul fronte del Golan. Nel 1980 ha assunto la direzione, a Beirut, dell¹ufficio di corrispondenza dell¹Ansa per il Libano e il Medio oriente. Nel 1985 gli è stato assegnato il premio Ischia per i servizi sulle stragi di Sabra e Chatila.