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Noam Chomsky
La colonizzazione del Medio Oriente:
le sue origini e il suo profilo




"La pace del vincitore": gli accordi di Oslo


La Dichiarazione dei principi e i successivi accordi incorporano la versione estrema del negazionismo statunitense-israeliano. L'accordo finale si fonda unicamente sulla risoluzione 242, senza alcun riconoscimento dei diritti nazionali dei palestinesi. Fuori della porta rimane la posizione della maggior parte del resto del mondo: ossia, che accanto alla risoluzione 242, la quale riconosce solo i diritti degli Stati esistenti, andrebbero considerate anche le risoluzioni delle Nazioni Unite che si sono espresse a favore dei diritti palestinesi. Per quanto concerne la seconda questione principale, quella del ritiro, Stati Uniti e Israele sono stati chiari ed espliciti nell'affermare che il ritiro sarà parziale, nella misura che unilateralmente determineranno.

L'esito è completamente in accordo con l'immutata posizione statunitense sul negazionismo e sul ritiro (su quest'ultimo salda sin dal 1971). Ricade anche all'interno della gamma delle varie proposte israeliane che si sono succedute negli anni, dal piano Allon del 1968 che rappresenta la proposta estrema delle colombe, al piano Shamir-Peres-Baker del 1989, e ai piani proposti dal rappresentante dell'estrema destra Ariel Sharon e dal partito laburista nel 1992, che a malapena differiscono. Anche tutto ciò e ben documentato e regolarmente riportato in modo corretto in Israele e in pubblicazioni alternative dissidenti negli Stati Uniti, ma pochi americani hanno potuto avere anche il minimo sentore dei fatti. Ormai, con l'Europa che ha sgombrato il campo, sembra di poter dire lo stesso dei cittadini europei, anche se, non avendo compiuto un'indagine accurata, lo dico con cautela. In questo contesto, non deve sorprendere granché che la Norvegia si sia prestata a fare da intermediario per l'accordo Israele-Arafat, che si è attenuto rigidamente al tradizionale negazionismo statunitense-israeliano.

Per quanto concerne la ragione per la quale Israele ha deciso di rivolgersi al canale di negoziato di Oslo, escludendo gli Stati Uniti finché non è giunto il momento della fanfara (e dei soldi), può darsi che si temesse che un accordo con Clinton nei panni del mediatore non avrebbe avuto alcuna credibilità nel mondo arabo, alla luce dell'avvicinamento della sua amministrazione verso le posizioni dei falchi. Questo allontanamento da una lunga storia di sostegno alla meno estrema forma di negazionismo dei laburisti ha stupito i commentatori israeliani. Sembra che tale condotta sia da attribuire al falco australiano del Medio Oriente Martin Indyk e al Washington Institute for Near East Policy che egli ha fondato dopo aver lasciato l'Aipac, la lobby di Israele a Washington; l'istituto ha avuto un ruolo interessante nella stampa statunitense consentendo ai giornalisti di presentare la propaganda israeliana come un "mero resoconto dei fatti" formulato con le parole di "esperti" forniti dall'istituto.

Un accordo, ovviamente, avviene tra due parti e, perciò, ci si deve anche chiedere perché Arafat ha accettato ciò che rappresentava una completa capitolazione di fronte alle richieste di Stati Uniti e Israele. La risposta più verosimile è che egli deve avervi intravisto l'ultima chance di mantenere la sua posizione di potere all'interno del movimento palestinese. L'Olp si è attirata il disprezzo di buona parte della popolazione dei territori per la sua corruzione e il suo assurdo atteggiamento, e dal 1993, l'opposizione ad Arafat e le istanze di democratizzazione dell'organizzazione avevano raggiunto livelli drammatici, riportati nella stampa israeliana e sicuramente noti alle autorità israeliane, che hanno intravisto la possibilità di siglare un tipo di accordo che avevano sempre desiderato. Come virtuale agente di Israele, Arafat ha potuto conservare il suo feudo, ottenendo anche in tal modo accesso a sostanziosi fondi. Da quanto è dato sapere, sembra che sia stato questo a condurlo a Oslo.

I piani di Sharon e dei laburisti del 1992, ora effettivamente fissati nella Dichiarazione dei principi, si basano sul principio al quale Israele ha aderito fermamente sin dal suo piano Allon del 1968: Israele deve essere in grado di controllare i territori nella misura che reputa utile, comprese le terre e le risorse utilizzabili (in particolare le riserve d'acqua della sponda occidentale, alle quali Israele attinge abbondantemente). I modi il cui il controllo andrebbe esercitato sono stati oggetto di un dibattito strategico che si e sviluppato nel corso degli anni, così come i confini che si desidera va dare alla "Grande Israele". Per quanto concerne la questione dei modi di controllo, la questione più dibattuta e stata quella di determinare se l'autorità vada divisa in termini territoriali o "funzionali", ove quest'ultimo aggettivo sta praticamente a prefigurare una situazione in cui Israele continuerebbe a controllare il territorio e l'autorità palestinese sarebbe responsabile dei palestinesi che si trovano all'interno di tale territorio. Dalla metà del 1995, Israele continua a rimanere attestata sulla posizione secondo cui può esservi tutt'al più una divisione "funzionale" dell'autorità almeno nel 1999: non vi sarà alcun fondamentale "trasferimento di sovranità" ai palestinesi, ha annunciato il ministro degli esteri Shimon Peres alla radio israeliana, e la maggior parte della terra della sponda occidentale rimarrà sotto il controllo dell'esercito israeliano durante tale periodo. Quanto ai confini, i programmi attuali indicano l'intenzione di includere all'interno della "Grande Israele" la Valle del Giordano, circa un terzo della striscia di Gaza, area circostante l'entità nebulosa e in rapida espansione della "Grande Gerusalemme", che si estende ormai a est fino a Gerico; e qualsiasi altra zona Israele scelga di annettersi con la benedizione (e il finanziamento) della superpotenza che la protegge. L'espansione della "Grande Gerusalemme" in effetti spacca la sponda occidentale in "cantoni" in accordo con il piano Sharon; un altro corridoio di accesso alla Giordania colonizzato da israeliani frammenta ulteriormente la regione.

Quando la Dichiarazione dei principi venne annunciata, gli osservatori bene informati riconobbero che non offriva "nemmeno l'accenno di una soluzione al problema di fondo che esiste tra Israele e i palestinesi", né nel breve periodo né strada facendo (il giornalista israeliano Danny Rubinstein). Il suo significato operativo divenne ancora più chiaro dopo l'Accordo del Cairo del maggio 1994, col quale si assicurò che i territori amministrati da Arafat sarebbero rimasti "completamente nell'ovile economico di Israele", come osservò il Wall Street Journal, e che l'amministrazione militare sarebbe rimasta intatta in tutto fuorché nel nome. L'importanza dell'accordo venne immediatamente compresa in Israele. Meron Benvenisti, ex vice sindaco di Gerusalemme e capo del Data Base Project per la sponda occidentale, oltre a essere da molti anni uno dei più scaltri osservatori dell'informazione ufficiale israeliana, commentò che l'Accordo del Cairo, "a tal punto che è difficile credere ai propri occhi nel leggerlo, [...] garantisce all'amministrazione militare l'autorità esclusiva nella "legislazione, aggiudicazione, esecuzione politica"" e "responsabilità per l'esercizio di questi poteri in conformità col diritto internazionale" che gli Stati Uniti e Israele interpretano a proprio piacimento. "L'intero intricato sistema di ordinanze militari [...] conserverà la sua forza, a parte la facoltà di regolamentazione legislativa e quanti altri poteri Israele potrà espressamente garantire" ai palestinesi. I giudici israeliani conservano "poteri di veto su qualsiasi legislazione palestinese "che potrebbe mettere a repentaglio i principali interessi israeliani”", che hanno "la precedenza", e vengono interpretati come Stati Uniti e Israele preferiscono. Pur essendo subordinate alle decisioni di Israele su tutte le questioni di una certa importanza, alle autorità palestinesi viene garantito un dominio di loro esclusiva competenza: esse hanno "responsabilità esecutiva per qualsiasi cosa venga fatta o non fatta", il che significa che acconsentono a caricarsi i gravosi costi dei 28 anni di occupazione, dalla quale Israele ha tratto enorme profitto, e ad assumere una perdurante responsabilità per la sicurezza di Israele. Questo "accordo di resa", osserva Benvenisti, pone in atto le estremistiche proposte di Sharon del 1981 che a suo tempo erano state respinte dall'Egitto.

Dopo un altro accordo Israele-Arafat, un anno dopo, Benvenisti ha commentato che "Arafat ancora una volta ha chinato il capo di fronte all'avversario infinitamente più forte". Egli ha rivisto i termini dell'accordo, che ha lasciato oltre metà della sponda occidentale "all'assoluto controllo israeliano" e ha rimandato la discussione dello status di un altro 40 per cento per diversi anni, durante i quali Israele potrà continuare a servirsi dell'aiuto statunitense per "fabbricare fatti" come di consueto. L'accordo, nota Benvenisti, rescinde la disposizione della Dichiarazione dei principi "secondo cui la sponda occidentale verrà considerata "un'unità territoriale, la cui integrità verrà preservata durante il periodo di interim"". Egli predice che poco cambierà rispetto al periodo dell'occupazione, se non che "il controllo israeliano diverrà meno diretto: invece di gestire gli affari in prima persona, gli "ufficiali di collegamento" israeliani li seguiranno tramite gli impiegati dell'Autorità palestinese". Come la Gran Bretagna durante il suo periodo d'oro, Israele continuerà a governare al riparo di "finzioni costituzionali". Di certo non c'è nessuna innovazione; si tratta dello schema tradizionale di conquista attuato dagli europei nella maggior parte del mondo.

La situazione è ancora peggiore a Gaza, dove i servizi di sicurezza israeliani (Shabak) rimangono "una forza invisibile ma violenta, la cui oscura presenza si avverte costantemente, ed esercita un potere letale sulle vite degli abitanti di Gaza", riporta il corrispondente di Ha'aretz Amira Hass, aggiungendo che le autorità israeliane continuano a controllare anche l'economia. Dal 1991, osserva Graham Usher, Israele ha riconvertito la tradizionale produzione di frutta e verdura di Gaza alla produzione di piante ornamentali e fiori tramite varie misure coercitive, tra le quali le confische che hanno ridotto di quasi un terzo la terra da agrumi coltivabile. Lo scopo è solo in parte quello di sottrarre territorio di un certo valore al controllo arabo. Israele intende anche "assorbire l'urto del commercio di Gaza con altre economie, o meglio, custodirlo all'interno del commercio israeliano". L'esportazione di questi settori a monocoltura è nelle mani di imprenditori israeliani, e il bassissimo costo del lavoro nella demoralizzata striscia di Gaza permette agli imprenditori israeliani di mantenere i propri mercati europei in sostanziale attivo.

Nell'estate del 1995, il 95 per cento della popolazione di Gaza era "imprigionata nella regione" dalla forza israeliana, riporta il gruppo israeliano per i diritti umani Tsevet'aza, con l'"economia strangolata" e le forze di sicurezza preposte a controllare il commercio, l'esportazione e le comunicazioni, spesso impegnate a "peggiorare le condizioni di vita dei palestinesi". In condizioni simili, pochi sono disposti a fronteggiare i rischi dell'investimento, almeno al di fuori dei parchi industriali messi su dai produttori israeliani per "sfruttare la poco costosa manodopera palestinese". Tsevet'aza riporta inoltre che Israele continua a negare agli investitori palestinesi la licenza di aprire piccoli impianti produttivi, e che i pescatori vengono tenuti a sei chilometri dalla costa, dove non vi è affatto pesce durante i mesi estivi. Le limitate risorse d acqua in questa regione molto arida vengono impiegate per l'intensiva agricoltura israeliana, persino i laghi artificiali di eleganti luoghi di villeggiatura, stando a quanto riportano i visitatori. Nel frattempo, le risorse di acqua erogate ai palestinesi di Gaza sono state ridotte della metà dopo gli accordi di Oslo, come ha scritto l'ispettore delle Nazioni Unite per i diritti umani Rene Felber in un rapporto aspramente critico sulle condizioni carcerarie e sulla politica idrica. Egli ha rassegnato le dimissioni poco tempo dopo, commentando che non ha senso redigere rapporti che vanno a finire in un cestino.

Un anno dopo la Dichiarazione dei principi, il controllo di Israele sulla terra della sponda occidentale ha raggiunto il 75 per cento, in aumento rispetto al 65 per cento del periodo in cui sono stati firmati gli accordi. Anche l'insediamento e il "consolidamento" di colonie è proceduto a passo spedito, accanto alla costruzione di "strade di circonvallazione" che collegano le colonie ebraiche con Israele vera e propria, tagliando fuori i villaggi arabi che sono rimasti isolati l'uno dagli altri e dai centri urbani che Israele preferisce cedere all'amministrazione palestinese. I progetti autostradali sono immensi, con costi stimati intorno ai 400 milioni di dollari, secondo il segretario generale del partito laburista attualmente al governo. Lo scopo è di fornire ai coloni quella che si potrebbe chiamare "una strada dove non si è obbligati a vedere gli arabi attorno". I dettagli sono segreti, ma "le linee generali emergono dalle mappe dei coloni", riporta il corrispondente Barton Gellman, compreso il solito metodo di mettere "la forza della legge israeliana" al servizio di progetti "iniziati illegalmente dai coloni". Benvenisti descrive le strade come "fatti politici dotati di conseguenze a lungo termine" che rientrano nel piano di "suddividere le aree arabe in settori, di tramutare la sponda occidentale in un lager", nel quadro di "una pace del vincitore, di un diktat".

I fondi governativi per le colonie dei territori occupati sono aumentati del 70 per cento nell'anno successivo alla Dichiarazione dei principi (1994), nonostante si partisse da un livello che era già elevato rispetto agli standard precedenti. Il sostegno ai coloni e così generoso che i loro standard di vita sono tra i più alti del paese. Gli annunci pubblicitari sui giornali "invitano gli ebrei di Tel Aviv e delle sue vicinanze a stabilirsi a Ma'aleh Ephraim" con vista sulla valle del Giordano e collegata a Gerusalemme da strade di circonvallazione, nell'ambito dello sviluppo che taglia praticamente in due la sponda occidentale. Gli annunci promettono piscine, enormi prati, e una genuina atmosfera agreste che vi assicurerà un'alta qualità di vita", con concessioni governative di 20.000 dollari per famiglia oltre a bassi tassi di interesse, sgravi fiscali e altri incentivi. Nel giugno del 1995 il sindaco della vicina Ma'aleh Adumin ha annunciato la costruzione di 6.000 nuove unità residenziali destinate ad accrescere più del doppio la popolazione della città portandola a cinquantamila anime negli anni a venire, accanto alla costruzione di viali, di negozi, di un nuovo municipio e di altri edifici. La rivista del partito laburista Daoar riporta che il governo Rabin ha conservato le priorità del governo di estrema destra Shamir che ha rimpiazzato; mentre fingeva di congelare le colonie, il partito laburista "le ha aiutate finanziariamente ancor più di quanto il governo Shamir abbia mai fatto", estendendo le colonie "ovunque nella sponda Occidentale, anche nei punti più provocatori", compresi gli insediamenti dei sostenitori (spesso americani) del rabbino (americano) Kahane, che è stato bandito dal sistema politico israeliano per aver invocato le leggi di Norimberga di Hitler e per altre scimmiottature dei nazisti.

In seguito a tali misure, nell'anno successivo alla Dichiarazione dei principi la popolazione ebraica della sponda occidentale è cresciuta del 10 per cento, a Gaza del 20 per cento, secondo quanto riporta la stampa israeliana, un processo che prosegue e potrebbe accelerare. Il generale (in pensione) Shlomo Gazit, ex capo dello spionaggio militare e Amministratore della sponda occidentale, osserva che i programmi annunciati dal partito laburista sono mirati a raddoppiare la popolazione ebraica della sponda occidentale entro il "periodo di interim" di cinque anni a decorrere dagli accordi di Oslo. La Foundation for Middle East Peace a Washington, che pubblica regolari aggiornamenti, giunge alla conclusione che "i piani di costruzione del governo Rabin per le colonie della sponda occidentale e di Gerusalemme rivaleggiano con, e sotto alcuni aspetti sorpassano gli sforzi di costruzione coloniale del governo Shamir durante il 1989-92", con "una decisa intensificazione" prevista per gli anni a venire; il governo Shamir era stato in precedenza il più estremista nell'opporsi ai diritti palestinesi e nell'incoraggiare la presa dei territori da parte di Israele.

Un piano recentemente annunciato "polverizza qualsiasi residua [illusione] palestinese che l'Accordo di Oslo possa portare ad un ritiro israeliano da importanti territori della sponda occidentale o che Gerusalemme est possa mai divenire una capitale palestinese", ha commentato nel gennaio del 1995 Danny Rubinstein, il veterano dei corrispondenti della sponda occidentale. Gli eventi successivi non fanno che rafforzare tale conclusione. A giugno, è stata fondata Ma'ale Yisrael, la 145' colonia nella sponda occidentale, contro gli ordini del governo ma con la sua acquiescenza. I coloni usano mezzi pesanti e esplosivi per costruire strade di accesso nei pressi di settori della sponda occidentale densamente popolati e attentamente pattugliati, ma il governo non ne sa nulla, come dicono i suoi portavoce alla stampa. Gli arabi vengono trattati in maniera alquanto differente se commettono reati simili, come quello di cercare di espandere il centro abitato sulla terra di loro proprietà (i permessi vengono raramente accordati).

Da tutto ciò è escluso quello che sta avvenendo a Gerusalemme est e nei suoi dintorni, conquistati durante la guerra del 1967. "Dall'annessione di Gerusalemme est nel 1967", riporta il gruppo israeliano per i diritti umani B'Tselem, "il governo israeliano ha adottato una politica di sistematica e deliberata discriminazione nei confronti della popolazione palestinese della città in tutte le questioni attinenti all'esproprio di terre, alla pianificazione e alla costruzione", e in questo quadro rientra "il deliberato insediamento di ebrei in Gerusalemme est [che] è illegale secondo il diritto internazionale", ma accettabile per gli Stati Uniti, autorità suprema in virtù del loro potere. "L'estesa edificazione e gli enormi investimenti" da parte del governo "incoraggiano gli ebrei a insediarsi" nella zona est di Gerusalemme in precedenza araba, mentre le autorità "soffocano lo sviluppo e l'edificazione per la popolazione palestinese", come altrove nei territori e in Israele stessa. La maggior parte delle terre espropriate era di proprietà privata di arabi, riporta B'Tselem: secondo il ministro dell'integrazione israeliano Yair Tzaban: "Circa 38500 unita residenziali sono state costruite su questa terra per la popolazione ebraica ma nessuna per i palestinesi". Inoltre, "l'edificazione è stata ostacolata sulla maggior parte dell'area che rimane nelle mani dei palestinesi". "Solo il 14 per cento di tutto il territorio di Gerusalemme est è destinato allo sviluppo di centri residenziali palestinesi". "Zone verdi" vengono fissate come "un cinico mezzo nel quadro del tentativo di privare i palestinesi del diritto di costruire sulla loro terra e di preservare tali zone come luoghi per la futura costruzione a beneficio della popolazione ebraica"; dell'attuazione di tali piani si ha regolarmente notizia.

La linea di condotta è stata ideata dal sindaco Teddy Kollek, oggetto di grande ammirazione ad occidente come personaggio di spicco per le sue doti democratiche e umanitarie. Il loro proposito, commenta Amir Cheshin, consigliere di Kollek sulle questioni arabe, era di "porre ostacoli nel processo di pianificazione nel settore arabo". "Non voglio dare [agli arabi] un senso di uguaglianza" ha spiegato Kollek, anche se sarebbe utile farlo "qui e li, dove non ci costa molto"; altrimenti "soffriremo". La commissione pianificatrice di Kollek ha anche consigliato di favorire lo sviluppo per gli arabi laddove abbia "un "effetto vetrina"", che "verrà visto da un gran numero di persone (residenti, turisti, ecc.)". Kollek ha spiegato ai mezzi di informazione israeliani nel 1990 che per gli arabi egli "non aveva coltivato nulla né costruito nulla", se non un sistema fognario che – egli si affrettò a rassicurare i suoi ascoltatori – non era mirato "al loro benessere, al loro agio>>, dove per "loro" si intendevano gli arabi di Gerusalemme. Piuttosto, "si erano verificati alcuni casi di colera [nei settori arabi], e gli ebrei avevano il timore di venire contagiati, perciò installammo le fogne e un sistema idrico per prevenire il colera". Sotto il successore di Kollek, il sindaco del Likud Ehud Olmert, il trattamento riservato agli arabi si è fatto considerevolmente più duro, stando alla stampa locale.

Oltre a Gerusalemme est, alle colonie ebraiche, agli impianti militari e alla rete autostradale di circonvallazione, Israele continuerà a controllare le risorse idriche della sponda occidentale e "le terre pubbliche disabitate della sponda occidentale che ammontano a circa la metà del territorio della sponda occidentale", riporta Aluf Ben; il totale dei terreni pubblici ammonta a circa il 70 per cento dell'intero territorio della sponda occidentale, secondo quanto riporta la stampa israeliana. I terreni pubblici sono riservati all'uso da parte di ebrei; gli arabi della sponda occidentale sono confinati nei cantoni separati che sono stati loro assegnati. Queste restrizioni valgono anche per il 92 per cento dei terreni all'interno di Israele, attuate in vari modi per precludere ai cittadini israeliani arabi non solo quasi tutta la terra della loro nazione, ma anche i fondi per lo sviluppo. I contributi da parte degli americani destinati a realizzare tali obiettivi sono deducibili dalle tasse come donazioni in beneficenza, e perciò i costi vengono divisi tra i contribuenti in generale; è facile prevedere che programmi del governo per precludere agli ebrei il 92 per cento di New York e i normali servizi cittadini potrebbero ricevere un'accoglienza un po' differente. Come al solito, i fatti sono nelle mani di chi paga i conti.

Israele ha sempre preferito trattare con la Giordania – lo "Stato palestinese" del piano Shamir-Peres-Baker – piuttosto che con i palestinesi; i due Stati hanno sempre avuto un comune interesse nel sopprimere il nazionalismo palestinese, e hanno cooperato a questo fine durante la guerra del 1948. In particolare, i piani statunitensi e israeliani favoriscono accordi per Gerusalemme e la valle del Giordano con la Giordania piuttosto che con l'amministrazione palestinese. In vista di tali obiettivi, una piccola parte del territorio della valle del Giordano è stata restituita alla Giordania con grande fanfara. Dobbiamo consultare la stampa israeliana per scoprire che il Fondo nazionale ebraico (Fne) aveva impiegato mezzi pesanti e qualche settimana di lavoro per "radere" il fertile manto superficiale della terra e trasferirlo nelle colonie ebraiche.

L'esproprio della proprietà araba per gli insediamenti ebraici "pone problemi in relazione al processo di pace", ha comunicato al Consiglio di sicurezza Madeleine Albright, ambasciatore di Clinton presso le Nazioni Unite; ma "non crediamo che il Consiglio di sicurezza sia la sede appropriata dove discutere di questa azione" – che è stata completamente finanziata dal contribuente americano (compresa la costituzione del Fne, ufficialmente a scopi benefici), e non è stata discussa in nessun'altra sede. "Nel linguaggio di Washington, questo vuol dire che gli Stati Uniti porranno il veto a qualsiasi risoluzione su Gerusalemme che sia "ostile" a Israele", osserva il corrispondente Graham Usher. Si tratta della prassi tradizionale; come la Corte mondiale e altre istituzioni internazionali, le Nazioni Unite fanno quello che vogliono gli Stati Uniti o vengono sciolte; e l'espansione israeliana a spese dei palestinesi è una tradizionale politica statunitense che sta raggiungendo nuovi apici sotto Clinton.


La colonizzazione del Medio Oriente: le sue origini ed il suo profilo


tratto da Noam Chomsky - "Il potere; Natura umana e ordine sociale" - Editori Riuniti 1997


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