PER UNA PACE GIUSTA IN PALESTINA
SOSTENIAMO L’INTIFADA


Dopo un anno e mezzo di Intifada, durante il quale i palestinesi hanno subito un isolamento internazionale senza precedenti, la gravità di quanto sta avvenendo in Palestina sta finalmente cominciando a suscitare l’attenzione anche del movimento contro la globalizzazione liberista.
Questa attenzione finora era stata molto carente e abbiamo più volte cercato di capirne i motivi e di fornire stimoli, cercando di definire la lotta di resistenza del popolo palestinese all’interno delle lotte globali che in tutto il mondo conducono i popoli, espropriati della loro terra e delle risorse basilari per poter vivere dignitosamente.
Questo legame, che noi vediamo così naturale, quasi scontato, ha fatto molta fatica ad esprimersi, nel momento in cui non si riusciva a ristabilire il rapporto fisico, a rompere l’isolamento anche geografico che ci separa da quell’area e da quella gente che, da sola, è riuscita in questo ultimo anno a tenere in vita e proseguire una resistenza contro un’occupazione militare feroce.
Ora che diverse centinaia di persone sono andate in Palestina e hanno visto di persona ciò che ci viene nascosto dai media ufficiali, ci sembra utile rilanciare un dibattito su quello che probabilmente è uno dei motivi di confusione che ha rallentato se non impedito la costruzione di iniziative e la mobilitazione di quelle centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato contro il G8 e la guerra. Secondo noi ciò ha molto a che fare con la mancata consapevolezza e la mancanza di analisi sul significato, le implicazioni e le conseguenze del processo negoziale iniziato ad Oslo nel 1993.
Questa iniziativa infatti, ben lungi da essere un processo di pace, consisteva in un’operazione di pacificazione che, fermando la prima Intifada, avrebbe spianato la strada al riconoscimento e alla normalizzazione dei rapporti economici e diplomatici di Israele con i paesi "moderati" della regione. In questo senso il processo è avvenuto a scapito dei palestinesi, non certo a loro vantaggio, riprendendo molto da vicino il tipo di trattati firmati tra i colonizzatori occidentali e le tribù indigene del nordamerica, carta straccia che però portò praticamente alla totale estinzione di quelle popolazioni.
Le negoziazioni di Oslo tra l’altro iniziarono con il concludersi della Guerra del Golfo, in un momento di estrema debolezza per i palestinesi e di estrema forza invece per Israele e soprattutto per gli Stati Uniti che pur scegliendo di non eliminare Saddam Hussein erano entrati con tutta la loro potenza militare in quell’area, rafforzandovi così la loro egemonia.
Che non si trattasse di una volontà di portare l’autodeterminazione per i palestinesi si poteva facilmente capire guardando a ciò che avveniva intanto nei territori palestinesi occupati.
I governi che si sono succeduti in Israele, falchi e colombe, hanno perseguito la medesima politica di proseguimento della colonizzazione, con un aumento senza precedenti del numero di insediamenti, di confisca di terra e acqua palestinese, di pulizia etnica soprattutto dell’area di Gerusalemme con la cacciata degli abitanti arabi, per stabilire una maggioranza ebraica nella città. Non dimentichiamo infatti che la strategia israeliana, dai suoi albori ad oggi, è caratterizzata da una forte politica demografica, condotta a colpi di massacri, deportazioni, distruzione di case, per appropriarsi di quanta maggiore terra possibile con il minor numero possibile di abitanti palestinesi.
Questo si evidenzia con la creazione di bantustan, piccoli territori isolati e circondati da un numero crescente di colonie ebraiche collegate tra loro da una rete stradale autonoma, inaccessibile ai palestinesi, gabbie a cielo aperto in cui i palestinesi sopravvissuti al processo di deportazione erano destinati a sopravvivere in miseria come serbatoio di manodopera a basso costo per l’economia israeliana.
Lo scoppio della seconda Intifada è emerso come risposta a tutto questo ma da allora non c’è stato un dibattito che abbia saputo denunciare come il fallimento del processo negoziale non sia dovuto a vari "incidenti di percorso" come l’uccisione di Rabin (che nella prima Intifada era stato il promotore della campagna "spezziamo le ossa ai palestinesi") ma invece al fatto che quell’iniziativa aveva avuto chiaramente lo scopo di normalizzare e anzi far avanzare l’occupazione, erodendo giorno per giorno terra e identità palestinese. E’ stato questo equivoco di fondo, non considerare Oslo per quello che realmente era, a provocare, con l’inizio della seconda Intifada, il collasso del movimento pacifista israeliano e l’afasia della sinistra occidentale.
Un altro elemento che poi è stato evidenziato durante la Conferenza di Durban contro il razzismo, è la natura dello Stato israeliano, elemento non a caso compreso e fatto proprio dalle delegazioni non occidentali, soprattutto quella sudafricana: la natura di Israele come Stato di apartheid.
Se non ci sono dubbi sul fatto che quello che sta facendo Israele nei territori occupati faccia parte di una strategia, che come abbiamo ricordato prima, ricorda molto da vicino quella utilizzata dal regime bianco sudafricano, con la creazione di bantustan, con sistemi di documenti di identità, leggi, e permessi diversificati secondo l’appartenenza "etnica" o piuttosto religiosa della popolazione, emerge con meno evidenza quello che avviene dentro Israele.
La suddivisione dei cittadini in base alla religione è qui altrettanto chiara in base alle leggi fondamentali sulla cittadinanza, sulla "proprietà degli assenti", sullo status del Congresso sionista mondiale e dell’Agenzia ebraica e quella sul servizio militare che prevedono i benefici di welfare (cioè la possibilità di vivere e svilupparsi) solo per i cittadini ebrei. Sottolineando anche in questo caso la rigida politica demografica, sempre tesa a contenere l’aumento del numero di cittadini arabi (con la negazione al diritto dei profughi al ritorno e con la proposizione da parte di settori della destra estrema di politiche che arrivano alla sterilizzazione forzata) e lo sviluppo dei loro centri urbani (con la confisca di terre e la negazione dei permessi di costruzione di case e servizi).
Ora che si intensificano l’interesse e anche l’iniziativa per il dramma che sta vivendo il popolo palestinese, ci sembra fondamentale che questi nodi vengano affrontati, affinchè non si ricada in errori e fraintendimenti che possono costituire perfino una fonte di pericolo per il popolo palestinese.
Uno dei punti fermi dell’analisi di ciò che sta avvenendo è che quella in corso tra israeliani e palestinesi non è una guerra ma un’occupazione militare e coloniale da parte di uno Stato sostenuto e finanziato dall’Occidente, in modo totale dagli Stati Uniti e in modo sostanziale dall’Europa, mentre quella che conducono i palestinesi è la resistenza a questa occupazione che per loro significa annientamento.
L’Intifada ha subito una repressione militare inaudita da parte di Israele, prima da parte del governo laburista e poi da parte di Sharon, criminale di guerra eletto dagli israeliani grazie alle sue promesse di sicurezza interna.
I palestinesi sono stati descritti dai mass media occidentali come fanatici assetati di sangue, come estremisti islamici e infine, dopo l’11 settembre si è alla fine arrivati ad equiparare l’Intifada nel suo complesso al terrorismo e questo ha permesso a Sharon e Bush di portare avanti un’offensiva mirante a dividere e magari anche a scatenare una guerra civile nella società palestinese.
L’Intifada però è proseguita, riuscendo finora a scongiurare questo pericolo, segno che il popolo palestinese nel suo complesso la considera lo strumento che potrà portare alla fine dell’occupazione e all’indipendenza.
L’Intifada ha avuto come risultato non solo il rallentamento della colonizzazione, tanto che molte delle nuove abitazioni per coloni fatte costruire in questi anni sono attualmente vuote, ma ha portato anche all’esplosione di diverse contraddizioni interne israeliane tra cui il rifiuto di centinaia di riservisti di combattere nei territori occupati e l’acuirsi della recessione economica, con il risultato che in Israele molti si rendono ormai conto che l’occupazione non può continuare, che l’unica garanzia di sicurezza è il ritiro unilaterale dai territori occupati.
Proprio per questo pensiamo che i passi che potranno portare ad una giusta pace siano frutto dell’Intifada e se potranno aver luogo sarà grazie e non "nonostante" l’Intifada.
Nei processi negoziali che sono ripresi in quest’ultimo periodo, con incontri più o meno segreti tra esponenti palestinesi ed israeliani, con l’elaborazione del piano Peres - Abu Ala, con le proposte europee di conferenze di vario tipo, ancora una volta la voce del popolo palestinese, soprattutto di coloro che vivono e muoiono nei villaggi assediati o negli immensi campi profughi in Palestina e fuori, non entra.
L’Intifada, dopo il fallimento di Oslo, rimette al centro la differenza sostanziale tra "processo di pace" (che intercorre tra due Stati in conflitto) e processo di decolonizzazione che, come sottolinea Hazmi Bishara, parlamentare arabo israeliano, è il termine più adatto per definire quello che dovrebbe avvenire in Palestina e quello per cui sta lottando il popolo palestinese.

Invitiamo quindi tutti/e al CORTEO che si terra' il 9 MARZO 2002 a Roma Piazza Esedra ore 15

e alla MOBILITAZIONE INTERNAZIONALE IN PALESTINA in occasione della "Giornata della terra" il 30 marzo 2002

(per l'organizzazione dei gruppi che vogliono partire, rivolgersi a:
cocoordintifada@yahoo.it

COORDINAMENTO NAZIONALE DI SOLIDARIETA’ CON L’INTIFADA



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