INTERVISTA A
NICOLA VALENTINO

Radiondarossa 4 Febbraio 2000

Nicola Valentino, nato ad Avellino il 4 aprile 1954, è in carcere dal 1979 con una condanna all'ergastolo per fatti legati alla lotta armata degli anni '70. Ha pubblicato insieme a Renato Curcio e Stefaano Petrelli, Nel Bosco di Bistorco, Sensibili alle Foglie, Roma, 1990, una riflessione a più voci sulle forme della reclusione e sui modi di sopravvivervi. A Rebibbia, dove tuttora si trova in regime di semilibertà, nel 1991, insieme a Marianella Sclavi, Renato Curcio, Stefano Petrelli e Maurizio Jannelli, ha organizzato il seminario "Umorismo in carcere" da cui prende spunto il libro Ridere dentro, Anabasi, Milano, 1992.
Nel 1994 Nicola Valentino pubblica per Sensibili alle Foglie il libro Ergastolo in cui l'autore, attraverso testimonianze dirette e scritti di ergastolani d'ogni tempo, si interroga sulla esperienza umana di chi è costrett@ in questa condizione.
"Pena di schiavitù", così Cesare Beccaria definì l'ergastolo quando lo propose come alternativa alla pena di morte, aggiungendo che "non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di liertà, che divenuto bestia da servigio, ricompensa con le sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti".
Partendo dalle considerazioni sulla pena di schiavitù, fino a giungere al particolare stato cui sono costrette a vivere le persone in semireclusione abbiamo intervistato Nicola Valentino durante la puntata della trasmissione Liberiamoci del carcere in onda il 4 febbraio del 2000 dalle frequenze di Radiondarossa.

L'intervista

pena di schiavitù

semireclusione

pena eterna


Ror
Nicola Valentino, in carcere dal 1979 con una condanna all'ergastolo. Lo abbiamo sentito perché abbiamo trovato interessanti le considerazioni sull'ergastolo che recentemente Nicola ha pubblicato sulla rivista Liberarsi dalla necessità del carcere. Nicola Valentino collabora attivamente con la casa editrice Sensibili alle foglie con cui ha pubblicato nel 1994 un libro intitolato "Ergastolo". Insieme a Renato Curcio e Stefano Petrelli nel 1990 ha scritto il libro "Nel Bosco di Bistorco". Nei tuoi libri riprendi la definizione, adottata anche da Cesare Beccaria alla fine del XVIII secolo, di ergastolo come "pena di schiavitù". Tu che vivi sulla pelle la condanna all'ergastolo e sei una persona per cui lo stato ha decretato il fine pena: MAI puoi spiegarci cosa intendi con l'espressione "pena di schiavitù"?

Nicola
L'ergastolo nella sua forma moderna nasce come pena di schiavitù. Questo fu il termine ed il senso usato da Cesare Beccaria quando propose l'ergastolo ai governanti dell'epoca. Perché "pena di schiavitù"? Nel dibattito attuale tra alcuni giuristi così come nel senso comune diffuso tra la gente vi è l'idea che l'ergastolo di fatto non esista perché c'è la possibilità per un ergastolan@ di accedere al beneficio della liberazione condizionale dopo 26 anni di carcere. In realtà anche la possibilità che è stata introdotta di accedere alla liberazione condizionale è totalmente discrezionale. Un magistrato, l'equipe penitenziaria valutano se dopo aver scontato 26, 30, 35, … anni la persona può accedere al beneficio della liberazione condizionale. Qual è l'esperienza della persona condannata all'ergastolo? Il suo destino, la sua vita sono completamente nelle mani dell'istituzione. E' l'istituzione a decidere se un giorno questa persona potrà andare in liberazione condizionale oppure dovrà farsi l'ergastolo. Spesso capita la seconda eventualità e molte sono le persone costrette a farsi l'ergastolo. Il beneficio della liberazione condizionale è applicato in maniera ridottissima. Ci fu poco tempo fa una denuncia fatta da un direttore di un carcere, anzi del manicomio giudiziario di Napoli, di una persona condannata all'ergastolo e poi finita nel manicomio giudiziario con sulle spalle 47 anni di reclusione. L'ergastolo dunque esiste e assume questa forma di "pena di schiavitù" nel senso che la vita della persona condannata è totalmente nelle mani dell'istituzione. Un persona condannata ad una pena temporale fino al giorno X, può dire: "il giorno X io uscirò dal carcere, sarò una persona libera". L'ergastolan@ non può fare questo tipo di ragionamento, non ha un giorno X nel quale possa dire di tornare in libertà. Ad una persona condannata ad una pena temporale, dopo un certo numero di anni che può essere anche 20 o 30, a seconda della condanna, viene riconosciuto il diritto alla libertà. Chi viene condannat@ all'ergastolo perde completamente questa possibilità.

Ror
Mi sembra molto importante sottolineare, come hai fatto tu, che l'ergastolo in questo paese esiste veramente, è vissuto sulla pelle di sempre più persone al di là delle finzioni dei media e del senso comune. Hai fatto bene a ricordare il caso degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dove molte sono le persone internate a vita. Recluse fino a quando l'autorità giudiziaria non stabilisce per la loro possibilità di tornare al mondo. Dunque l'ergastolo nel nostro paese esiste e viene concretamente attuato. Un'altra falsità che spesso viene fatta circolare riguarda la semireclusione che viene malignamente confusa con la libertà completa. Anche di questo ti sei occupato nella tua riflessione sul carcere. Mi è capitato poco tempo fa di leggere una pubblicazione cui hai collaborato che riporta testimonianze di persone semirecluse e analizza il loro contesto carcerari ed extra-carcerario. In particolare, come è il tuo caso, molte sono le persone condannate all'ergastolo che vivono in semireclusione: per queste la semireclusione è un regime di esecuzione della pena che può durare per anni. Falsamente viene detto che queste persone sono ormai libere, mentre la semireclusione è una modalità particolare di detenzione con caratteristiche diverse dalla carcerazione 24 ore su 24, ma che non coincide e neanche assomiglia lontanamente alla libertà. Puoi spiegarci le restrizioni della libertà e la sofferenza associate alla semireclusione nel caso in cui essa sia il periodo finale di espiazione di pene temporali o quando si applica a persone condannate all'ergastolo?

Nicola
Io sono un ergastolano in semireclusione: anche quando mi hanno concesso il beneficio della semilibertà non sono uscito dalla mia pena. Io sto scontando l'ergastolo in questa forma particolare di privazione della libertà che è la semireclusione. La semireclusione è una forma particolare di reclusione caratterizzata dall'avere particolari ripercussioni nel vissuto delle persone che vi sono sottoposte. Semilibertà, o affidamento al lavoro esterno -l'articolo 21- sono tutte forme di semireclusione che si fondano su un principio molto semplice: una parte di me che sono recluso fa da carceriere ad un'altra parte di me. Con la semireclusione io vivo una lacerante esperienza dissociativa quotidiana e, all'interno della giornata, ora per ora, minuto per minuto. Tutte le persone in semireclusione, oltre all'obbligo del rientro serale in carcere, devono seguire un "piano trattamentale" sottoscritto dalla persona che viene ammessa al regime di semilibertà. Il piano trattamentale è un foglio che ogni persona semireclusa deve portarsi dietro in cui è scritto esattamente ciò che la persona può e non può fare. Con il piano trattamentale sono normati i movimenti nello spazio, l'organizzazione del tempo della persona e le relazioni che questa persona può intrattenere con la società. Quando una persona è in semilibertà non cessa di essere reclusa. E' reclusa nel senso che in questo stato vengono normate la quantità e la qualità delle relazioni, gli spostamenti e l'organizzazione della giornata. Io ho prodotto in questo modo il mio carceriere interiorizzato. Per seguire il programma trattamentale devo prima trasferirlo dal foglio di carta su cui è scritto nella mia testa. Devo diventare un rigoroso controllore di me stesso. Ad esempio la sera verso le 21:30 una parte di me vorrebbe starsene tranquillamente a casa a conversare con gli amici, vedere la TV, cenare, … L'altra parte di me, il carceriere, quella che alle 23 deve rientrare a Rebibbia acciuffa la parte di me che vorrebbe starsene tranquillamente a casa, la mette sull'autobus e la riporta in carcere. La mattina quando esco una parte di me vorrebbe fermarsi un po' di più per strada, prendere un caffè o entrare in un negozio; l'altra parte di me, il reclusore, sa che da trattamento, appena uscito, devo recarmi in ufficio dove devo trovarmi a una certa ora stabilita nelle norme del trattamento. Questa è la condizione esistenziale della persona semireclusa: è una condizione di profonda dissociazione. La persona semireclusa deve innanzitutto prendere consapevolezza della sua condizione. Se non sei consapevole di vivere in uno stato di dissociazione, se non hai la forza di gestirlo e governarlo puoi andare incontro a processi di lacerazione della tua identità e del tuo modo di vivere. Tale consapevolezza deve coinvolgere innanzitutto la persona semireclusa, ma anche la società e tutti gli operatori con cui essa entra in contatto. Sarebbe ad esempio importante che le politiche penitenziarie stabilissero che la semireclusione non possa durare più di una certa quantità di anni. Attualmente, soprattutto per le persone condannate all'ergastolo, si profilano molti anni da passare in semireclusione.

Ror
Questo meccanismo di dissociazione che descrivi ha i suoi effetti anche sulle persone "libere" che entrano in contatto con quelle semirecluse. Spesso mi è capitato di trovarmi in situazioni in cui erano presenti persone semirecluse ed ho così partecipato dall'esterno al meccanismo che descrivevi. Con Salvatore Ricciardi, sottoposto all'affidamento lavorativo -l'articolo 21- proprio qui a Radiondarossa, abbiamo anche discusso di queste cose. Mentre tu parlavi degli effetti sulla persona semireclusa noi ci concentravamo su come la semireclusione viene recepita fuori, al di là delle falsificazioni mediatiche. Salvatore coniò un'espressione molto azzeccata dicendo che la semireclusione somiglia a "portare il carcere a spasso per la città". Quelle scene di separazione che tu descrivevi prima quando la tua parte di carceriere ti acciuffa per riportarti a Rebibbia, sono, per chi le vive dall'esterno un messaggio forte. L'istituzione ribadisce il suo potere e sembra dirci "questa persona te la facciamo vedere di giorno e poi la sera ce la riprendiamo e la portiamo in carcere". Per questo è il carcere che viene portato a spasso per la città e riesce a raggiungere con il suo messaggio coloro che entrano in relazione con le persone semirecluse.

Nicola
E' come dici tu. Le persone che ti stanno intorno vedono che a un certo punto cominci a fare cose strane. Scatta un meccanismo per cui a un certo punto ti alzi dalla sedia e vai via. Anche per le persone esterne, quelle che vivono a contatto con te, c'è questo incontro quotidiano con la reclusione. Le persone che ti sono particolarmente vicine dal punto di vista affettivo vivono questo strappo. Per loro, senza voler esagerare i termini, la persona che va via la sera muore. Il distacco serale è una morte quotidiana della relazione. Quando tu vai via, entri in un altro mondo, che è il mondo del carcere. Non sei una persona che va in un'altra città. No, tu entri e vai proprio in un altro mondo dove chi resta fuori non è in contatto con te, non sa nulla di te, fino al punto di non avere la certezza che all'indomani tu riuscirai. Questa incertezza viene spesso alimentata dallo stesso regime di semireclusione: può capitare che la mattina tu esca in ritardo oppure che la direzione ti fermi per farti delle contestazioni. In quest'altro mondo, che ha un altro cielo, può anche capitare che tu la notte ti senta male.

Ror
Non so se ti è capitato di leggere la polemica intorno al professor Vallauri che insegnava all'Università Cattolica cui non è stato rinnovato il nulla osta per l'insegnamento per via di un testo da lui pubblicato in cui vengono mosse critiche all'inferno paragonandolo all'ergastolo contenuto nel Codice Penale. E' interessante questa critica al concetto di pena eterna, sebbene lui non la utilizzi per criticare direttamente l'ergastolo, non faccia cioè percorso inverso che lo porti a criticare direttamente la pena terrena come a noi interessa. E' anche interessante da questo punto di vista cogliere quanto vi sia in termini di contenuto religioso nel nostro Codice Penale.

Nicola
Trovo interessante questo episodio perché il docente porta avanti una riflessione dal punto di vista teologico mettendo in discussione l'idea di pena meta-storica che non ha un inizio e una fine. Dal punto di vista della giustizia terrena l'ergastolo storicamente ha molto a che fare con la religione. L'ergastolo nasce con i Romani come luogo fisico dove venivano tenuti chiusi gli schiavi in catene. Come abbiamo già detto l'ergastolo è dalla sua nascita la pena associata alla condizione di schiavitù. Successivamente viene adottato dalla Chiesa che dapprima lo utilizza come forma di penitenza/pena eterna e poi, in maniera molto simile alla sua accezione moderna, come strumento per ottenere la schiavitù della coscienza: la persona veniva condannata ad una pena indefinita che poteva essere resa reversibile solo con l'abiura, il ravvedimento, l'adeguamento ai dettami della Chiesa. L'ergastolo, dunque, ha nella sua stessa evoluzione storica un forte intreccio con la Chiesa che discende dalla caratteristica di essere una pena meta-storica. Ancora oggi l'ergastolo rimane una pena diversa da tutte le altre. La parola ergastolo in carcere è una parola tabù che viene evitata per non aprire ferite nella persona che vi è condannata. Se una persona ti chiede: "a cosa sei stato condannato?" e tu rispondi: "all'ergastolo", quella ti chiede scusa di averti posto la domanda. Tornando alla parola nella sua dimensione di eternità della pena voglio portare l'esempio di un'esperienza che mi è capitata da ergastolano in relazione ai benefici previsti dalla legge penitenziaria. La questione è molto tecnica, ma la illustro brevemente perché è interessante per capire meglio alcune conseguenze della condanna all'ergastolo. Ho chiesto da detenuto la possibilità di accedere alla liberazione condizionale. Avrei avuto la possibilità di ottenerla se mi fossero stati conteggiati i due anni di indulto che furono concessi nel 1990 a tutti i detenuti. Per una persona condannata a 30 anni, i due anni di indulto portano ad una pena di 28 anni. Nel caso dell'ergastolo c'è in merito un contenzioso giuridico: alcuni settori della magistratura, una parte della Cassazione ritengono che gli anni di indulto non possono essere applicati all'ergastolan@ perché non esiste un fine pena da cui scalare questi anni. Nella sentenza con cui il tribunale rigettava la mia richiesta di poter usufruire della condizionale cui avevo diritto se mi fossero stati applicati i due anni di indulto era scritto: "essendo l'ergastolo fino a morte del reo e non essendo la morte del reo calcolabile, non è possibile sottrarre i due anni di indulto". E' una sentenza che, pur riferendosi ad un caso specifico, è significativa per quanto riguarda l'ergastolo. Si ribadisce che la pena dura "fino a morte del reo".

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