23 Agosto 1997

Marcos, un pensiero "anfibio"

Guillermo Almeyra

CONDIVIDO in generale le critiche di Rossana Rossanda (il manifesto del 15 agosto) all'articolo del subcomandante Marcos pubblicato da Le Monde diplomatique. Ma quelle critiche omettono di considerare che il pensiero di Marcos è "anfibio", dato che il subcomandante si è formato nel "brodo primordiale" della cultura europea (più precisamente, nell'ambito del marxismo-leninismo althusseriano), dopo di che però egli ha calcato la terra ferma del mondo indio, che ha un'altra cultura, un'altra logica e che in parte lo ha trasformato. Lo stesso Marcos dice di essere arrivato "quadrato" nella Selva e che gli indios gli "arrotondarono" il modo di pensare: anche se questo meticciato non sempre è totale e a volte sembra una sovrapposizione di culture che si ripresentano come tali. Per esempio, ciò che sembra poesia, in Marcos, è il pensiero tzeltzal (una delle etnìe indigene del Chiapas, ndt.) tradotto in spagnolo, mentre a volte il subcomandante fa della letteratura castigliana nella sua variante barocca messicana. Il risultato, diseguale e sconcertante, è l'importante e fertile figura del Vecchio Antonio (l'indio che iniziò Marcos alla cultura indigena, ndt.), nel primo caso, o il superficiale Durito (lo scarabeo personaggio di molti testi del subcomandante, ndt.), una certa retorica, qualche fanfaronata e le facezie, nell'altro.

Equivoci socialisti

Non è possibile vedere, perciò, solo gli errori, reali a mio giudizio, del Marcos che teorizza "all'europea" e a beneficio degli europei e dei settori urbani di altri paesi (o per gli stessi meticci urbani messicani europeizzati). E' certo, come dice Rossana Rossanda, che Marcos equivoca quando crede che il capitalismo si oppose al "socialismo" (ossia al Patto di Varsavia); che si inganna quando parla del "campo socialista come sistema mondiale... e alternativa sociale". Se c'era, nei fatti, una forza controrivoluzionaria e antisocialista per eccellenza, patrocinatrice della coesistenza con il capitalismo e dello statu quo era la dittatura stalinista nell'Urss e nei paesi satelliti, e ancora lo è la Cina. I valori, le tecniche, il modo di produzione erano capitalisti, nei paesi cosiddetti "socialisti", e la dittatura burocratica vi ha preparato, distruggendo la società civile, imponendo il partito unico, spoliticizzando e demoralizzando la popolazione, il ritorno al capitalismo "normale" (che ha riciclato come capitalisti d'assalto quasi tutti i membri importanti della nomenclatura, a partire da Boris Eltsin).

E' certo, in effetti, che le sette tesi di Marcos si basano su fatti e tendenze reali, ma, anche grazie a una certa retorica e a qualche schematismo, costruiscono e assolutizzano un quadro che esclude la dialettica, le controtendenze. La mondializzazione, in realtà, è molto più che i disastri che Marcos giustamente denuncia. Non è una guerra - gli europei sanno bene cosa sia una guerra mondiale - bensì il funzionamento "normale" del capitalismo che, fin dalla nascita, ha cercato una espansione mondiale e si è caratterizzato con i genocidi (come la conquista dell'America o dell'India, o la tratta di schiavi dall'Africa, distruggendo e spopolando quel continente).

L'unificazione del mercato mondiale è in primo luogo irreversibile, ed ha anche aspetti positivi, come la distruzione degli Stati-nazione (che, per altra parte, è tutt'altro che totale, perché il capitalismo si realizza nel quadro degli Stati, non al livello del Fondo monetario internazionale). La distruzione del "socialismo reale" e la mondializzazione selvaggia hanno soppresso un ostacolo e facilitato la ripresa delle lotte di classe in un mondo prima congelato dalla guerra fredda o anestetizzato dal keynesismo e dal riformismo dei partiti socialisti e comunisti.

Nuovi orizzonti

Le migrazioni provocano razzismo, però rompono anche i nazionalismi, i provincialismi, creano proletariati multietnici, multiculturali, generano nuove visioni solidali, nuovi internazionalismi. La liquidazione del Welfare sottrae consenso all'apparato dello Stato, indebolendolo, ciò che porta verso una ricostruzione autonoma del movimento operaio, a una nuova conflittualità, all'opposizione all'apparato statale da parte delle basi, appena nascenti, di un nuovo Stato fondato sull'autogestione, sull'estensione delle autonomie. La sfiducia in partiti burocraticamente centralizzati e impantanati nel parlamentarismo politicizza la vita quotidiana e crea migliaia di movimenti autonomi che è possibile arrivino a evolvere, a formare partiti-movimenti democratici che non abbiano come loro compito la lotta nelle istituzioni ma il cambiamento dal basso, quotidiano, della società, e la costruzione di un doppio potere che permetta di puntare a un futuro cambio del potere.

Lo zapatismo, in questo senso, ha portato in dote molto, ha scosso il pensiero anchilosato della sinistra classica ed è riuscito a raggiungere i giovani che chiedono una rifondazione del marxismo, benché poi Marcos equivochi nel confondere governo e parlamento con il potere, e nel dire che non vuole, perciò, lottare per il potere; e sbaglia anche nel parlare di mandar obedeciendo ("comandare obbedendo", una delle formule zapatiste più note, ndt.), mentre in una democrazia nessuno comanda e nessuno obbedisce, ma tutti codirigono.

Ha ancora ragione Rossana Rossanda quando alla critica alla teoria del "campo socialista" aggiunge l'opposizione al "dipendentismo", perché il nemico dei lavoratori latinoamericani non è l'imperialismo, ma il capitalismo, essendo il primo una espressione del secondo, e che funziona, in ciscun paese, attraverso classi e forze nazionali. Pinochet non è statunitense, né lo è Videla, né tutti i dittatori del passato, e non lo sono Menem o Salinas de Gortari, che fanno parte del capitale finanziario internazionale tanto quanto Agnelli. Lenin sbagliava, quando credeva che l'imperialismo consistesse fondamentalmente nel fatto che nazioni sfruttano altre nazioni. L'imperialismo è una relazione mutante di forze tra le classi. L'idea dell'unità nazionale antimperialista, propugnata sempre da Fidel Castro, ha evidentemente la pelle dura, mentre la mondializzazione sta insegnando nuovamente a pensare in un modo che differenzia profondamente "loro" da "noi", localmente e a livello globale (si veda quel che sta succedendo negli Usa).

Passi in avanti

Ha ragione Rossana Rossanda, infine, quando critica la visione "alla Marcuse" di Marcos - che pone sullo stesso piano tutti i possibili soggetti della trsformazione sociale, senza vedere che i lavoratori (che in Messico sono assenti da decenni e che però cominciano a riapparire) - e la visione delle cose più vicina a Lenin che al Marx dei "Grundrisse".

Con tutto questo, però, il Marcos "teorico europeo" rappresenta un progresso e, in più, non è l'unico né il principale Marcos. La comprensione che è necessario uscire dalla Selva, cercare alleati nelle città e a scala internazionale rappresenta un cambiamento importante, che si esprime nel desiderio di discutere in Europa (e quindi, inevitabilmente, di confrontarsi e di essere criticato, benché anche in Europa vi siano quelli che sono più papisti del papa). Questa svolta è parziale - per esempio, Marcos non ha affrontato il problema del lavoro né in Messico né nel mondo, e non ha scritto una riga su una possibile alleanza con il movimento operaio americano (che è più che i sindacati) attualmente rinascente - però c'è in lui una comprensione maggiore della necessità di far politica, abbandonando il primitivismo contenuto nell'idea per cui "tutti i partiti sono uguali" o quella per cui le elezioni sono pièges à cons, trappole per idioti.

La vittoria di Cárdenas nella capitale messicana e del Prd (Partido revolucionario democratico, di centro-sinistra, ndt.) in tutto il Messico ha diminuito la pressione sugli zapatisti e aperto la possibilità che facciano politica, escano dalla Selva, sfuggano alla falsa alternativa di morire con le armi in mano o continuare con una "guerra di lunga durata" mentre le guerriglie hanno concluso il loro ciclo chissà fino a quando e ciò che bisogna cercare oggi è creare le condizioni politiche di massa per l'unificazione di tutti i movimenti che si oppongono alla dittatura del capitale finanziario e, nello stesso tempo, per la rifondazione teorica e la riorganizzazione politica di una sinistra nella quale confluiscano e si integrino, nel Canal Grande del marxismo di Marx - e non dei suoi epigoni - molti altri canali culturali.

*Storico, analista di politica internazionale e professore alla Universidad autónoma metropolitana-Xochimilco di Città del Messico, collabora al quotidiano "La Jornada". Un suo articolo di commento alle tesi di Marcos, molto più ampio, sarà pubblicato nel prossimo numero dell'edizione messicana di "Le Monde diplomatique".


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