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< Migrazioni di Genere >

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La Venere economica e le prostitute parlanti.
di Beatrice Busi (in occasione della May Day 2004)

Se è vero che il mestiere più antico del mondo è la prostituzione, allora il 1° maggio dovrebbe essere anche la festa dei lavoratori e delle lavoratrici sessuali. Ma, a guardar bene, purtroppo c’è poco da festeggiare e per rendersene conto sono sufficienti poche considerazioni.

Secondo i dati del progetto TAMPEP - network europeo che si occupa dei diritti delle prostitute migranti e di prevenzione dell’Aids - la maggioranza dei sex workers in Europa sono donne migranti, con percentuali che in alcuni paesi superano l’80%.

Negli ultimi anni la Fortezza Europa ha irrigidito i propri confini interni ed esterni attraverso leggi sull’immigrazione sempre più restrittive: i fatti dimostrano come la condanna della clandestinità non sia un ostacolo sufficiente a impedire la circolazione delle persone e come, con la complicità di questo tipo di governo dell’Europa, il desiderio di miglioramento della qualità della vita che sta dietro ai progetti migratori sia stato trasformato in merce a profitto delle organizzazioni criminali. E’ dagli anni '70 che assistiamo alla crescita progressiva e inarrestabile del protagonismo delle donne nei movimenti migratori e potremmo quasi dire che l’industria del sesso si sia costruita attorno a questo fenomeno: la prostituzione è un pedaggio che le donne migranti pagano per migliorare la condizione economica propria e delle famiglie lasciate nel paese di provenienza e molto spesso rappresenta anche la via più veloce per estinguere il debito contratto con le organizzazioni che di fatto controllano i confini degli stati.

Nei discorsi pubblici l’equazione prostituzione-schiavitù ha evidentemente una funzione mimetica: alla faccia della retorica pari-opportunista ed emancipazionista, le migranti scontano il fatto che la divisione sessuale del lavoro non si è per nulla estinta ed anzi, a dispetto delle lotte e delle conquiste dei movimenti femministi, si rafforzata internazionalizzandosi e che il patriarcato, lungi dall’essere morto o finito, si è invece “diffuso”.

Rappresentare le prostitute migranti solo come vittime inconsapevoli della tratta e del traffico, come se fosse impensabile che una donna possa fare davvero la scelta di prostituirsi, non è solo il frutto di un’ipocrita morale cattolica ma anche della volontà politica di nascondere una realtà che riguarda tutte le donne, anche nelle cosiddette democrazie avanzate: una realtà fatta di diseguaglianze nell’accesso al mercato del lavoro, di disparità di diritti e di salari.

La presenza delle donne nel mercato del lavoro è da sempre precaria, mobile e intermittente ma il progressivo smantellamento del Welfare State, che garantiva la compatibilità tra lavoro di riproduzione gratuito nella sfera privata e il lavoro riconosciuto come produttivo nella sfera pubblica, sta determinando periodi di permanenza nella disoccupazione sempre più lunghi.

Le migranti in cerca di lavoro sanno di non avere di fronte a sé prospettive rosee e moltissime sanno anche che dovranno lavorare nell’industria del sesso, ma questo non significa che si possano immaginare in quali condizioni. Certamente non è la natura del lavoro sessuale in sé a metterle in condizioni di sfruttamento e dipendenza, bensì sono le legislazioni repressive in materia d’immigrazione e di prostituzione che le costringono alla clandestinità. E’ la clandestinità ad esporle alle violenze da parte delle organizzazioni criminali, dei clienti e della polizia stessa e a rendere praticamente inaccessibili i servizi sanitari, cui si aggiunge l’esclusione sociale dovuta alla generale stigmatizzazione della prostituzione.

Uno stigma che riflette una doppia morale: si calcola che solo in Italia siano 9 milioni coloro che hanno usufruito almeno una volta di servizi sessuali a pagamento, tra i quali probabilmente i nostri padri, mariti, fratelli, amici e compagni. Eppure quando si parla di prostituzione, in qualunque contesto, pare che si tratti di un fenomeno marginale, che coinvolga un numero esiguo di donne e transessuali e che dunque non ci riguardi direttamente. Il lavoro sessuale invece ci riguarda tutti molto da vicino, e riguarda in particolare le donne.

Il proliferare del mercato del sesso soggiace alle stesse leggi di qualunque altro settore economico, pur se informale, ovvero quelle della domanda e dell’offerta, e l’esistenza di una vera e propria industria globalizzata è una lente d’ingrandimento sulla conflittualità delle relazioni tra i generi. Già la stessa possibilità dell’associazione linguistica tra “industria” e “sesso” ci segnala la messa a valore dell’immaginario sessuale, del desiderio e della sessualità nell’attuale modo di produzione e rappresenta l’angosciante sgretolamento di un nocciolo duro imprendibile, dell’erosione della vita stessa da parte del mercato.

Se pensiamo che sono sempre di piu’ le migranti a svolgere lavori di cura e lavori domestici, che si tratta per il 76% di lavoro nero, privo dunque di qualunque diritto, che questi lavori spesso assumono i caratteri del lavoro servile e che il lavoro sessuale ha le medesime caratteristiche, ci rendiamo conto di quali siano i ruoli sociali delle donne nel civilissimo e democratico Occidente. A questo punto la classica distinzione tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo viene completamente a cadere, ed anzi le attuali trasformazioni dei modi dell’accumulazione capitalistica, fanno assomigliare sempre di più la produzione in generale al lavoro di riproduzione.

Oppure potremmo dire con Walter Benjamin, che “più il lavoro si avvicina alla prostituzione, più si è tentati di descrivere la prostituzione come lavoro”. Forse, proprio in questo senso, si può parlare di femminilizzazione del lavoro e della produzione.

Resta l’urgenza di migliorare le condizioni di vita delle e dei sex workers: partendo dal presupposto che il principale nemico per le migranti e i migranti sono le leggi come la Bossi-Fini e che vanno distinte le politiche d’intervento contro la tratta da quelle che riguardano la prostituzione, è necessario opporsi alla criminalizzazione del lavoro sessuale, come fa il disegno di legge che tra breve verrà discusso dal Parlamento italiano o le norme, recentemente approvate in Francia, che riguardano i “comportamenti anti-sociali”.

In particolare è necessario costruire uno spazio pubblico di discussione in cui le lavoratrici e i lavoratori sessuali siano riconosciuti a pieno titolo come soggetti politici. Eh sì, perché le prostitute sanno anche scrivere e parlare, quasi mai vogliono essere “salvate” e soprattutto sanno meglio di chiunque altro cosa sia davvero il lavoro sessuale e quali possano essere le politiche d’intervento più efficaci.

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