Archivio Web Noam Chomsky
Anno 501 la conquista continua (indice)


PARTE QUARTA.
AMNESIE OCCIDENTALI.


Capitolo 10.
QUANDO SI UCCIDE LA STORIA.

4. UN VILLAGGIO DI NOME MY LAI.

Il 50esimo anniversario di Pearl Harbor fu commemorato dalle copertine dei principali settimanali, articoli di stampa e documentari televisivi. Alcuni furono elogiati dal critico del "Wall Street Journal", Dorothy Rabinowitz, per la loro "visione storica inflessibile e severa sull'assalto a Pearl Harbor", senza far confusione tra la giustizia pura ed il male assoluto (2 dicembre). Il critico riserva invece i suoi strali per i "giornalisti della sinistra alla moda e della destra irriducibile" i quali "invariabilmente" ritraggono i giapponesi "come vittime" degli ignobili americani. Il tutto però senza portare alcun elemento convincente, né entrare nel merito dei fatti storici.

Girata pagina, sempre sul "Wall Street Journal", troviamo un articolo di Robert Greenberger intitolato "Le relazioni tra Usa e Vietnam ostacolate dal problema dei "Mia" ["Missing in action", soldati dispersi]", in cui si parla di un piano vietnamita "per risolvere il problema principale che ostacola il ripristino dei rapporti con gli Usa: rendere conto degli americani dispersi durante la guerra del Vietnam". Questa cronaca è talmente convenzionale da non meritare particolari commenti, a parte l'interessante impaginazione. Assai comune tra i media e gli intellettuali sembra essere la convinzione che saremmo stati noi a subire dei torti in Vietnam. Noi eravamo le vittime innocenti di ciò che Kennedy chiamò "l'attacco dall'interno" (12 novembre, 1963), cioè 'l'aggressione' da parte dei contadini del Vietnam del Sud sia contro il loro governo legittimo, sia contro i redentori che lo avevano imposto e che volevano difendere il Vietnam dai vietnamiti (21). In seguito saremmo stati attaccati a tradimento dai vietnamiti del Nord che, non contenti, incarcerarono anche gli americani caduti misteriosamente dal cielo nelle loro mani. Dopo la fine della guerra, implacabili, gli aggressori vietnamiti ci hanno profondamente offeso rifiutandosi di cooperare senza risparmio di uomini e mezzi alla ricerca dei piloti Usa dispersi che avevano malvagiamente tirato giù dai cieli.

La nostra sofferenza per mano di questi barbari è l'unica questione morale che resta aperta dopo un quarto di secolo di violenze, durante il quale abbiamo: sostenuto con forza il tentativo di Parigi di riconquistare le sue ex-colonie; silurato l'accordo diplomatico del 1954; installato un regime di banditi, torturatori corrotti e sanguinari nel Vietnam del Sud sotto il nostro dominio; attaccato queste zone anche direttamente dopo che il terrore e la repressione dei nostri alleati avevano provocato reazioni da essi non più controllabili; esteso la nostra aggressione a tutta l'Indocina e, con duri bombardamenti, raso al suolo vaste zone abitate; distrutto con armi chimiche, pericolose anche per la popolazione, raccolti e vegetazione; demolito dighe; compiuto omicidi di massa e sparso il terrore, quando non riuscivamo altrimenti per deportare la popolazione e svuotare i villaggi. Alla fine, quando ce ne siamo andati, abbiamo lasciato tre paesi completamente distrutti, forse senza speranza di ripresa, con le loro terre devastate, disseminate di milioni di cadaveri e di ordigni inesplosi, con un numero incalcolabile di poveri e di mutilati, di bambini malformati negli ospedali del Sud che non toccano i cuori degli anti-abortisti, ed altri inenarrabili orrori. Tutto ciò in una regione "che rischia di scomparire... come entità storica e culturale... mentre la campagna muore letteralmente sotto i colpi della più grossa macchina militare mai lanciata contro una zona di queste dimensioni", secondo la descrizione fatta nel 1967 dallo storico di destra Bernard Fall, uno dei maggiori esperti sul Vietnam - "prima" quindi che fossero compiute le peggiori atrocità Usa (22).

Di tutto questo rimane oggi un solo ricordo: quello delle terribili angherie che ci hanno fatto i nostri persecutori vietnamiti.
Le reazioni di fronte al nostro avverso destino in Vietnam sono state comunque molteplici. All'estremo pacifista dell'establishment troviamo il senatore John Kerry, il quale ci ammonisce a non combattere mai più una guerra "senza impiegare sufficienti risorse per poter vincere"; sarebbe stato questo l'unico problema del nostro intervento. C'è poi il presidente Carter, il noto maestro morale ed apostolo dei diritti umani, il quale ha più volte rassicurato l'opinione pubblica sul fatto che noi non abbiamo alcun debito verso il Vietnam e nessun obbligo di aiutarlo perché "la distruzione è stata reciproca"; un'osservazione così generalmente accettata da non suscitare reazioni. Altri, meno disposti ad offrire l'altra guancia, danno ogni colpa ai comunisti vietnamiti e denunciano gli estremisti anti-americani che tanto si adoperano per trovare qualche persistente ambiguità nelle nostre azioni (23).

Sul "New York Times" possiamo leggere articoli dal titolo "Il Vietnam cerca di essere più disponibile, ma ci vuole ben altro", nel quale la corrispondente Barbara Crossette ci informa che malgrado i vietnamiti stiano compiendo progressi rispetto alla questione "degli americani dispersi", sono ancora ben lontani dai nostri elevati principi morali. Toni e tesi che possiamo ritrovare in centinaia di altri articoli pubblicati sulla stampa americana. Da vero statista, l'ex presidente Bush ha sostenuto: "Si è trattato di un conflitto aspro, ma Hanoi oggi sa che siamo in attesa solo di risposte, senza alcuna minaccia di vendetta per il passato". I loro delitti contro di noi non potranno mai essere dimenticati ma, se si dedicheranno con zelo sufficiente a risolvere il problema dei nostri soldati dispersi, "potremmo incominciare a scrivere l'ultimo capitolo della guerra in Vietnam". In tal caso, scrive Crossette, potremmo persino "aiutare i vietnamiti a trovare ed identificare i loro dispersi". Un vicino articolo di prima pagina, ancora una volta, riporta il rifiuto giapponese ad accettare "senza ambiguità" la colpa "per l'aggressione bellica di Pearl Harbor" (24).

Nel corso della recente campagna per le presidenziali del 1992, il problema dei maltrattamenti subiti in Vietnam dalla povera America assunse di nuovo un forte rilievo: il dubbio era se Washington avesse fatto abbastanza per mettere fine a questi abusi, oppure se avesse cercato di occultarli. Un articolo di Patrick Tyler sulla prima pagina del "New York Times" esprime bene l'essenza della questione. Tyler rileva che nel 1987 la Casa Bianca respinse un suggerimento di Ross Perot secondo il quale gli Stati Uniti, allentando le pressioni su Hanoi, forse avrebbero potuto "ottenere il rimpatrio di molti soldati Usa ancora trattenuti nel Sud-Est asiatico". "A quell'epoca - scrive Tyler - Washington, per raggiungere lo stesso obiettivo, aveva invece assunto una linea diplomatica ancor più dura nei confronti di Hanoi". "La storia dimostra che le concessioni prima di aver ottenuto dei risultati non portano a nulla", disse spiegando la posizione dell'Amministrazione Richard Childress, funzionario del "National Security State" (Consiglio per la Sicurezza Nazionale) incaricato di supervisionare le politiche sui prigionieri ed i dispersi in guerra. I vietnamiti "chiedono sempre di più senza dar nulla", aggiunse. "L'ho imparato in 25 anni". "I negoziatori Usa avrebbero invece mantenuto la loro posizione dura finché Hanoi non avesse preso, passo dopo passo, la strada che portava ad un miglioramento dei rapporti attraverso una fattiva cooperazione sulle ricerche dei prigionieri e dei dispersi", aggiunge Tyler, senza porsi alcuna domanda sulle politiche dell'Amministrazione o fare alcun cenno, pur vago, al fatto che qualcuno avrebbe potuto non approvare la strategia adottata in questa vicenda (25).

Così, mentre il paese studiava attentamente la 'mentalità giapponese', disapprovando sia la sua vergognosa tendenza ad 'autocommiserarsi' che il rifiuto di Tokyo ad offrire riparazioni alle sue vittime ed a 'fare una dichiarazione definitiva sulle proprie responsabilità nella guerra', il governo Usa e la stampa intensificarono le accuse ai 'criminali' di Hanoi. Questi non solo rifiutavano di confessare le loro colpe, ma insistevano nel maltrattare l'innocente America. In un lungo articolo dedicato alla crescente indignazione dell'opinione pubblica per la malsana insistenza del Vietnam a punirci ancora, pur essendo passati diciassette anni dalla fine delle ostilità, Crossette scrive che una possibile ripresa dei rapporti diplomatici tra Usa e Vietnam "potrebbe essere ostacolata da questioni ancora aperte e che non accennano a risolversi, come la sorte degli americani dispersi". Giustamente esasperato dall'iniquità del Vietnam, George Bush iniziò l'Anno 500 della Conquista, nell'ottobre del 1991, con un ennesimo intervento per ostacolare gli sforzi europei e giapponesi tendenti a porre fine all'embargo imposto dagli Usa al Vietnam nel 1975, mentre il segretario alla Difesa, Dick Cheney, riferì al Congresso che "nonostante una più proficua collaborazione", i vietnamiti devono fare molto di più per poter essere da noi ammessi nel mondo civilizzato. "Progressi concreti" sulla questione dei prigionieri e dei dispersi di guerra sono la condizione per la normalizzazione dei rapporti con gli Usa, disse il segretario di Stato James Baker, un processo che potrebbe durare vari anni. Intanto, scrisse il "Times", i funzionari di uno dei paesi più poveri del mondo come il Vietnam si sono mostrati molto irritati, quando "la settimana scorsa gli Stati Uniti hanno bloccato una proposta francese per un prestito al Vietnam da parte del F.M.I." (26)

All'inizio, l'embargo Usa fu imposto anche per punire il Vietnam di un altro crimine: l'intervento dell'esercito vietnamita in Cambogia contro il regime di Pol Pot in risposta ai sanguinosi attacchi dei Khmer Rossi nelle zone di confine. Gli Usa avevano tentato di normalizzare i rapporti con il Vietnam malgrado la sua crudeltà nei nostri confronti, scrive Barbara Crossette in un articolo dal titolo "I dispersi dell'Indocina: un problema sempre aperto". Ma, continua la giornalista: "Gli sforzi del presidente Carter di aprire un dialogo con Hanoi furono frustrati dall'invasione della Cambogia nel 1978". Naturalmente Carter, santo e moralista, non poteva perdonare una aggressione gratuita; se vi fosse stato George Bush, senza dubbio avrebbe spedito Stormin' Norman (Norman Schwarzkopf) a schiacciare l'attaccante (naturalmente, se ci fosse stata la garanzia che nessuno avrebbe risposto al fuoco) (27).

La sincera condanna di ogni aggressione da parte di Carter emerse chiaramente dalla sua reazione all'invasione di Timor-Est perpetrata dall'Indonesia - un intervento che, a differenza di quello vietnamita in Cambogia, non pose fine al massacro della popolazione locale, ma anzi vi dette inizio. Inoltre quando la repressione indonesiana, nel 1978, raggiunse livelli da genocidio e gli arsenali di Giakarta erano quasi vuoti, l'amministrazione Carter aumentò notevolmente il flusso dei rifornimenti di armi ed inviò all'Indonesia anche alcuni aviogetti aggirando, con l'aiuto di Israele, le restrizioni del Congresso. Gli Usa fornivano all'Indonesia, con la durissima condizione che fossero usate solo per la difesa, il 90% di tutte le armi impiegate dall'esercito. Dall'alto della sua statura morale, Carter poté quindi giudicare l'aggressione vietnamita e così, ci è dato da intendere, a malincuore pose fine ai suoi sforzi per far rientrare quel paese nella comunità delle nazioni civilizzate. Del resto gli anni '80 furono pieni di esempi come questo dai quali emerge la ferma posizione di principio degli Usa contraria all'uso della forza negli affari internazionali; basti ricordare, ad esempio, il decisivo appoggio di Washington all'invasione israeliana del Libano nel 1982 ed al massacro che ne seguì; la reazione del governo e dei media all'ingiunzione del 1986 con la quale la Corte Internazionale di Giustizia intimò agli Usa di cessare "l'uso illegale della violenza" contro il Nicaragua, l'invasione di Panama con cui Bush celebrò la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, e via dicendo (28).

Secondo quanto sostengono le fonti ufficiali ed il "Times", Washington "decise di non normalizzare i rapporti con il Vietnam fintanto che il governo da questi sostenuto in Cambogia non avesse accettato un accordo per porre fine alla guerra civile" (Steven Greenhouse); così veniva definito il conflitto con i Khmer Rossi, sostenuti da Cina e Tailandia (e indirettamente dagli Usa e dai loro alleati), i quali assalivano le zone rurali cambogiane dai loro sicuri rifugi tailandesi (29).

La realtà era un po' diversa. L'amministrazione Carter "[ha scelto] di non accettare l'offerta vietnamita di ristabilire relazioni diplomatiche", osserva Raymond Garthoff, soprattutto in seguito alla "svolta filocinese" e quindi, a favore degli alleati di Pechino, i Khmer Rossi, verificatasi nella politica dell'Amministrazione agli inizi del 1978, molto prima che il Vietnam invadesse la Cambogia. Pol Pot poté così perpetrare le sue peggiori atrocità, occultate dalla Cia in un successivo rapporto demografico, presumibilmente proprio grazie ai suoi legami con gli Usa. Diversamente da molti paesi europei, Washington non si astenne nella votazione al Palazzo di Vetro per decidere a chi spettasse il seggio cambogiano alle Nazioni Unite dopo che Pol Pot ed i suoi erano stati cacciati dai vietnamiti, ma al contrario "si unì alla Cina nel sostenere i Khmer Rossi" (Garthoff). Gli Usa sostennero sia l'invasione "punitiva" cinese in Vietnam, sia la coalizione con base in Tailandia nella quale i Khmer Rossi erano la componente militare più importante. Non solo, secondo il consigliere per la Sicurezza Nazionale di Carter, Zbigniew Brzezinski, gli Usa avrebbero "incoraggiato i cinesi a sostenere Pol Pot". Den Xiaoping, beniamino delle amministrazioni Reagan e Bush, sostenne da parte sua: "E' saggio costringere i vietnamiti a rimanere in Kampuchea [Cambogia] perché lì pagheranno un alto prezzo e non potranno estendere la loro influenza alla Tailandia, la Malesia e Singapore", paesi che a suo parere avrebbero sicuramente conquistato se non fossero stati fermati in tempo. Così dopo aver collaborato al riarmo ed alla riorganizzazione delle malconce forze dei Khmer Rossi, la coalizione Usa-Cina-Tailandia (e l'Occidente in generale) dette tutto il suo sostegno diplomatico a Pol Pot ed impose uno strettissimo embargo alla Cambogia bloccando ogni tipo di aiuto, anche solo umanitario, da qualunque parte venisse; inoltre la coalizione cino-occidentale bloccò ogni proposta negoziale che non offrisse ai Khmer Rossi un ruolo centrale nel nuovo governo. La rivista "Far Eastern Economic Review" scrisse nel 1989 che gli Usa arrivarono a minacciare la Tailandia di farle perdere alcuni privilegi commerciali nel caso si fosse rifiutata di appoggiare i Khmer Rossi.

A questo proposito lo stesso principe Sihanouk, nel primo discorso dopo il suo ritorno trionfale in Cambogia, nel novembre del 1991, sostenne che erano state le pressioni dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu "a costringere i cambogiani... ad accettare il ritorno dei Khmer Rossi". Un anno prima, Sihanouk aveva detto al giornalista americano T. D. Allman che "per salvare la Cambogia... l'unica cosa che avreste dovuto fare [nel 1979] era quella di lasciar morire Pol Pot. Era finito e voi lo avete risuscitato" (30).

Ad una lettura più approfondita del linguaggio del "Times" si capisce, quindi, che gli sforzi del Vietnam di riallacciare le relazioni con gli Usa vennero frustrati dal cambiamento di posizione a favore della Cina e dei Khmer Rossi dell'amministrazione Carter; che gli Usa sfruttarono l'intervento in Cambogia come pretesto per punire le popolazioni del Vietnam e della Cambogia nel modo più duro possibile; che Washington si rifiutò di permettere qualsiasi soluzione diplomatica che non garantisse un ruolo dominante dei Khmer Rossi.

Con l'estromissione di questo tacito alleato degli Usa dalla Cambogia, e la fine delle atrocità che avevano raggiunto il loro apice proprio all'indomani della nuova 'svolta filocinese' (e quindi a favore di Pol Pot) dell'amministrazione Carter, il Vietnam, secondo il giornalista del "Globe" H. D. S. Greenway, "forse si è guadagnato la riconoscenza della maggior parte dei cambogiani", ma "l'ostilità della maggior parte del resto del mondo" - cioè, di quelle aree del globo che seguono i capricci degli Usa. Comunque il ritiro dalla Cambogia ha eliminato ogni pretesto per l'embargo, lasciando aperta solo la questione dei maltrattamenti vietnamiti nei nostri confronti sul problema dei soldati dispersi. Ma questo crimine, spiegano i moralisti americani della stampa e del governo, è tale da richiedere la continuazione di un embargo che priva il Vietnam di prestiti ed investimenti degli istituti finanziari internazionali controllati dagli Usa, oltre che dagli europei e dai giapponesi riluttanti a pestare i piedi del potente alleato (31).

L'anniversario di Pearl Harbor fu segnato da un editoriale del "Washington Post" secondo il quale, malgrado il Vietnam avesse compiuto progressi, vi sarebbero però "alcuni esponenti del comitato per i dispersi di guerra" che lo accusano di "trattenere i resti di alcuni soldati". "Ci vorrà molta chiarezza da parte di Hanoi ed accurate indagini di Washington per risolvere la questione", concludono severamente i redattori. Se i vietnamiti sono disposti a cooperare pienamente, forse permetteremo loro di entrare nella comunità mondiale, anche se non li perdoneremo mai per i torti ed il dolore che ci hanno inflitto per più di 40 anni, come non possiamo perdonare l'infamia giapponese di alcuni anni prima (32).

Calandoci di nuovo nella realtà vediamo come oggi siano proprio gli ambienti economici Usa a lamentarsi per il nostro impegno quasi fanatico a 'dissanguare il Vietnam'; essi temono di lasciarsi sfuggire ottime occasioni di guadagno a favore della concorrenza straniera e di perdere, come sostiene un uomo d'affari Usa, la loro "giusta fetta del mercato vietnamita". Queste considerazioni potrebbero essere materia per un ripensamento della nostra politica. Secondo la stampa, il governo americano potrebbe anche addolcire la sua posizione se il Vietnam accettasse di dare il via libera ad una campagna di ricerche di due anni, di aprirci la via al Laos ed alla Cambogia, di restituire tutti i cadaveri che saranno trovati, di darci 'accesso immediato alle campagne vietnamite' ed agli archivi militari; tutto ciò mentre noi, come parte lesa, poniamo stretti limiti alle possibilità di movimento dei diplomatici vietnamiti all'Onu, confinandoli nelle vicinanze del Palazzo di Vetro, e in quanto agli archivi militari... (33).

"Vi sono vietnamiti - scrive Greenway - come il Ministro degli Esteri Le Mai, che dichiarano di capire la necessità del governo americano di convincere l'opinione pubblica sul problema dei dispersi". E ancora: "I vietnamiti capiscono che la questione dei dispersi è l'unico grande ostacolo ad una revoca dell'embargo imposto dagli Usa, alla ripresa di relazioni diplomatiche con Washington ed al loro rientro nella comunità internazionale". Ma, aggiunge Greenway, "ci sono anche vietnamiti che parlano con grande amarezza del fatto che l'America stia facendo dei propri caduti un caso politico con un paese che ha avuto da 200 mila a 300 mila soldati dispersi dei quali non si è saputo più nulla". A questo proposito un veterano vietnamita avrebbe suggerito di chiedere agli americani di "venire qui e dirci dove sono sepolti i nostri morti". "Quale impresa sarebbe", scrive Greenway basandosi sulla sua ampia esperienza come corrispondente di guerra, "far tornare alla luce ricordi, da tanto tempo rimossi, di bulldozer che spingono cadaveri vietnamiti nelle fosse comuni o di elicotteri che trasportano mucchi di corpi, con braccia e gambe sporgenti dalla rete, in qualche tomba senza nome" (34).

Greenway merita un elogio per questa rara deviazione dall'ortodossia ufficiale anche se potremmo, a questo punto, ricordare qualche altro 'problema' del quale fu responsabile quel governo americano che qui non viene neppure nominato.
Nulla di tutto ciò, e non sono certo dei segreti, impedisce però agli Usa di 'riunirsi alla comunità internazionale', o di lanciare appelli per l'"hansei" - sia che si intenda come 'rimorso' o come 'autocritica' - per non parlare dei risarcimenti per delitti così orrendi.

Altre voci sono troppo deboli per scalfire l'orgia di autocommiserazione sui torti che avremmo patito; ad esempio, quella del chirurgo che in una delicata operazione, nel febbraio del 1990, rimosse un proiettile di fabbricazione Usa dal braccio di una delle tante persone uccise o mutilate dagli ordigni inesplosi dopo la fine della guerra. I poveri comunisti furono derisi e disprezzati quando alla loro partenza dall'Afghanistan, per proteggere i civili dall'eredità mortale della loro aggressione, consegnarono le mappe dei campi minati in Afghanistan ad apposite squadre civili specializzate. Nessuno invece criticò gli Stati Uniti, semplicemente perché Washington si rifiutò di fornire le mappe dei campi minati in Indocina. Come spiegò un portavoce del Pentagono: "La gente non dovrebbe abitare in quelle zone. Sanno quale è il problema". Inoltre, secondo una logica elementare, non possiamo certo essere condannati per aver disseminato la campagna di mine e bombe in quanto lo abbiamo fatto in un "eccesso di giustizia e benevolenza disinteressata" (35).

Sulla stampa straniera è possibile leggere le parole dell'undicenne Tran Viet Cuong di Vinh - la città che aveva avuto la sfortuna di essere "maledetta per la sua posizione", come il "Times" premurosamente ci ha spiegato. I suoi genitori vogliono disperatamente che il figlio abbia un'educazione, e visto che la città non ha i fondi per comprare libri scolastici, Tran salta del tutto la prima colazione per permettere ai suoi genitori di comprarglieli (se è fortunato, il suo maestro potrà acquistare il gesso con la paga di due o tre impieghi). Il governo locale "non può permettersi di riparare strade, ospedali e fogne distrutti vent'anni fa dai bombardieri Usa", scrive John Stackhouse dalla città distrutta. Nel 1991, l'ospedale infantile fu costretto ad eliminare 50 dei 250 posti letto e a chiedere ai pazienti di comprarsi le medicine. I medici operano su un tavolo chirurgico regalato dalla Polonia, in gran parte senza idonee attrezzature. Al Centro Medico di Vinh, dove la farmacia dell'ospedale è ancora "un cumulo di macerie", un medico dichiara: "I nostri problemi qui sono conseguenza della guerra americana, e l'embargo li ha peggiorati".

L'embargo, nota Stackhouse, ha "isolato internazionalmente il Vietnam dai flussi di commercio e di assistenza", bloccando gli aiuti economici provenienti da organizzazioni per lo sviluppo in cui gli Usa hanno un "effettivo diritto di veto", inclusa la Banca per lo Sviluppo Asiatico ("Asian Development Bank") con base a Manila, che pure sarebbe stata disposta ad erogare un prestito di 300 milioni di dollari, destinati in parte ad un progetto d'irrigazione che potrebbe aumentare di un terzo la produzione agricola. Malgrado il Vietnam abbia effettuato molto prima dell'Europa dell'Est gli aggiustamenti strutturali richiesti dai creditori istituzionali, non può comunque ricevere i prestiti a basso interesse della Banca Mondiale con i quali alleviare il pesante impatto sulla popolazione di quelle misure, a causa del rigido veto degli Usa. Ne deriva che la mortalità infantile è oggi in Vietnam dalle due alle tre volte più alta di quella del Bangladesh e che il sistema scolastico, "grazie al quale una volta vi era una popolazione altamente istruita", è ora crollato. Le banche commerciali e altri donatori ed investitori non si muoveranno finché non avranno il permesso Usa, i mercati stranieri sono in gran parte chiusi e così non vi sono possibilità di lavoro nel settore privato. Neppure un appello dell'Unicef è riuscito ad avere un qualche risultato perché "nessuno vuole offendere gli Usa", ha osservato il direttore dell'ufficio Unicef ad Ho Chi Minh City (36).

I lettori della stampa straniera forse sono venuti a conoscenza della vicenda di alcune tribù della montagna che, nell'ottobre 1991, "chiesero il permesso delle autorità di abbattere un elicottero Usa che, secondo quanto avevano sentito dire, era diretto verso di loro per indagare sulla sorte dei soldati americani dispersi". "Non è difficile scoprire la ragione di quella rabbia repressa", riferisce il corrispondente canadese Philip Smucker. "Si tratta solo di capire quale villaggio abbia appena subito la morte o la mutilazione recente di uno dei suoi bambini per una 'bomblet', una piccola bomba rimasta nascosta nel suolo per 18 anni" in una regione in cui "i bombardamenti a tappeto e l'irrorazione con la diossina da parte di aerei Usa... hanno distrutto le foreste, trasformando gran parte delle campagne in un montagnoso paesaggio lunare segnato da crateri grossi come Cadillac", con il suolo "intriso da più di 200 litri [di veleni chimici] per ettaro quadrato", tanto che "i bambini deformati sono molto più numerosi qui che nel Nord dove non ci sono state irrorazioni di questo tipo". Solo in questa regione isolata, "più di 5000 persone sono state ferite o uccise" da bombe inesplose a partire dal 1975. "Odio l'uomo che ha lanciato questa bomba", dice un contadino "davanti ad un cratere 10 volte più grosso di lui a pochi metri dalla porta di casa sua", un ricordo dei bombardamenti a tappeto dei B-52 sotto i quali, nel 1969, morì sua moglie. Un altro parla di suo figlio di otto anni, dilaniato poche settimane prima nel raccogliere un oggetto tondo di metallo trovato nel fango; un'altra morte infantile che "non sarà registrata negli annali della guerra in Vietnam" (37).

Sicuramente niente di tutto ciò può comunque turbare le nostre coscienze immacolate mentre studiamo la mentalità deformata dei perfidi giapponesi e la loro disordinata psicologia che ci lascia così perplessi ed affascinati. Coloro che hanno chiara la dottrina ufficiale che ha accompagnato i primi 500 anni della Conquista non avranno difficoltà ad individuare l'abisso morale che ci separa dai giapponesi: la morale deriva dalle canne dei fucili - e noi ora ne abbiamo di più.

Quasi a sottolineare questa tesi, la sezione scientifica del "New York Times" ha pubblicato un articolo così titolato: "Le ricerche sugli effetti della diossina in Vietnam sono ostacolate dal blocco diplomatico". Il 'blocco diplomatico' viene descritto con la neutralità richiesta dall'obiettività giornalistica ("Funzionari vietnamiti e americani si muovono a ritmo glaciale nei negoziati sul miglioramento dei rapporti tra i due paesi", eccetera), ma l'articolo è insolito perché sottolinea alcune sfortunate conseguenze di questo strano comportamento delle due parti. Il problema sta nel fatto che "il blocco dei rapporti tra il Vietnam e gli Stati Uniti, in vigore da 17 anni, ostacola importantissime ricerche sugli effetti a lunga scadenza dell'Agent Orange e di altre fonti di diossina sulla popolazione sia militare che civile". Si tratta di una disgrazia, visto che si potrebbe imparare molto "sui pericoli potenziali della diossina industriale nell'Occidente, studiando la gente che abita nelle zone irrorate durante la guerra del Vietnam da dosi ingenti di defoglianti americani contenenti la diossina".

"Il Vietnam è il luogo ideale per ulteriori ricerche sui rapporti potenziali tra la diossina ed il cancro, le disfunzioni riproduttive, i problemi ormonali, le carenze immunologiche, i disordini del sistema nervoso centrale, i danni al fegato, il diabete e l'alterazione del metabolismo lipidico", continua l'articolo, e potrebbe contribuire a risolvere il problema "fondamentale" di determinare "a quale concentrazione può diventare pericolosa per gli esseri umani". L'idea che gli oggetti della ricerca possano avere dei problemi drammatici, magari proprio per colpa nostra, è troppo originale per essere discussa o persino accennata.

Due sono le ragioni per cui "il Vietnam potrebbe fornire eccellenti opportunità di ricerca", sostiene l'articolo del "New York Times". "La prima è che un gran numero di vietnamiti di ogni età ed ambo i sessi sono stati esposti alla diossina", incluse "molte donne e bambini", mentre nell'Occidente, gli incidenti industriali o le "contaminazioni urbane" come a Seveso, in Italia, e Love Canal "hanno coinvolto piccoli gruppi in zone circoscritte", per la maggior parte uomini. La seconda ragione è costituita dal fatto che il Vietnam "fornisce un altro numeroso gruppo di paragone", dal momento che le popolazioni settentrionali "non sono state irrorate". Un'altra caratteristica molto importante è "la massiccia esposizione alla diossina subita da molti vietnamiti". Ciò anche perché, come ricorda un ricercatore americano, "l'80% della popolazione viveva in zone rurali ed i vietnamiti andavano spesso a piedi nudi o con i sandali". "La cooperazione dei vietnamiti non potrebbe essere migliore", ma "ci stiamo lasciando sfuggire un'opportunità unica" per via del continuo blocco diplomatico; "il tempo per poter eseguire delle ricerche su persone esposte all'irroramento ormai si va riducendo sempre più" (38).

Forse questo interessante progetto di ricerca potrebbe riguardare anche i bambini che stanno morendo di cancro, quelli che hanno malformazioni congenite o le donne con rari tumori maligni che si trovano negli ospedali del Sud (non nel Nord, sfuggito a queste particolari atrocità), i contenitori sigillati di neonati orrendamente deformati, ed altre visioni 'terrificanti' riportate saltuariamente nella stampa estera oppure qui, negli Stati Uniti, lontano dagli occhi dell'opinione pubblica. Anche questa indagine potrebbe esserci utile (39).

La critica allo 'strano comportamento' delle due parti, comparsa sulla sezione scientifica del "New York Times", è insolita perché suggerisce indirettamente che ci potrebbe essere qualche altro problema. Ad esempio potrebbe risvegliare in alcune menti la domanda se i discorsi di tanti intellettuali siano seri, o se invece si tratti di copioni scritti da Jonathan Swift. La critica del "Times" richiama alla mente le occasionali proteste contro la pesante censura imposta ufficiosamente in Giappone durante l'occupazione americana, proprio nel momento in cui gli Usa stavano dando al paese una nuova Costituzione nella quale si proclamava che "ogni censura sarà abolita, né si potrà violare la segretezza di alcun mezzo di comunicazione", ed il generale MacArthur "dichiarava risoluto al popolo ed ai giornalisti giapponesi che la libertà di stampa e di parola gli stavano molto a cuore ed erano ideali per i quali gli Alleati avevano combattuto la guerra" (Monica Braw). La censura fu imposta immediatamente con l'arrivo degli Usa e rimase in vigore per quattro anni, il tempo necessario per eliminare ogni dissidenza. Una delle motivazioni fu quella di impedire qualsiasi discussione sulla bomba atomica e sui suoi effetti. Questi furono mantenuti il più possibile segreti all'interno del Giappone perché la verità poteva "disturbare l'ordine pubblico" ed insinuare nella popolazione l'idea che "il bombardamento era stato un crimine contro l'umanità", come dichiarò un censore mentre eliminava il racconto di un testimone oculare delle atrocità di Nagasaki. Furono vietate persino le riviste scientifiche giapponesi. La qual cosa suscitò delle proteste non perché venivano così ostacolate le cure ai sopravvissuti (un problema largamente ignorato), ma piuttosto perché si stava perdendo un'opportunità unica di imparare di più sui danni delle radiazioni (40).

Mentre l'America si soffermava sui crimini del Giappone nel 50esimo anniversario di Pearl Harbor, venne pubblicato un nuovo libro su una strage per la quale gli Usa hanno riconosciuto le loro responsabilità: il massacro di My Lai (Vietnam) nel marzo 1968. I critici americani furono colpiti dall'apprendere che "l'infame tenente Calley", comandante degli assassini, "ha scontato una pena inferiore ai tre anni di consegna nei suoi alloggi di ufficiale prima di essere rimesso in libertà" e che adesso si gode la vita dell'uomo d'affari in Georgia, alla guida di una Mercedes, usata per spostarsi dalla bella casa alla sua gioielleria. Concludendo le sue riflessioni sul massacro, l'autore della recensione comparsa sul "Washington Post" osserva: "Qualunque libro su questo argomento si sottrae in definitiva alle sue responsabilità, a meno che non ricerchi la colpa indagando nei più oscuri meandri dell'animo umano".
Sul "Financial Times" di Londra, Justin Wintle ebbe una reazione diversa:

"Come gran parte dei libri sul Vietnam pubblicati in Occidente, "Quattro Ore a My Lai" si concentra sull'America e sui danni subiti dall'orgoglio americano. L'altra componente della vicenda, i vietnamiti, viene lasciata ai margini. Malgrado [gli autori] doverosamente registrino le testimonianze oculari dei pochi sopravvissuti di My Lai, il dolore ancora onnipresente a Quang Ngai, frutto dell'occupazione delle forze Usa e sudcoreane durata otto anni, non trova alcuna espressione. Invece il lettore è sommerso di dettagli biografici, spesso irrilevanti, sulle vite di quasi ogni americano menzionato nel testo".

Lo schema sul quale si basava il libro in realtà risaliva a molti anni prima. Pochi trasalirono quando, nel marzo 1973, per il quinto anniversario del massacro il "New York Times" pubblicò un pezzo di riflessione da My Lai nel quale si sosteneva che il villaggio e la regione circostante erano ancora "silenziosi e pericolosi", malgrado gli americani stessero sempre "tentando di renderli sicuri" con bombardamenti implacabili da terra e dal cielo. Il giornalista, citando alcuni abitanti del luogo che accusavano gli americani di aver ucciso molta gente, aggiunse filosoficamente: "Essi non sono in grado di capire cosa rappresenti il nome My Lai per gli americani" (41).

La recensione del "Washington Post" secondo le leggi della 'correttezza politica' ci spinge a sondare le profondità 'dell'animo umano', con le sue oscure complessità, per cercare la colpa di My Lai in qualche universale difetto della specie, non nella politica e nelle istituzioni Usa. Per definizione gli Stati Uniti reagiscono soltanto ai delitti altrui, e non hanno altra politica all'infuori di quella ispirata da una generale benevolenza; nella provincia di Quang Ngai, ad esempio, l'unico obiettivo sarebbe stato quello di 'renderla sicura' per i vietnamiti sofferenti che stiamo 'proteggendo'. E' vero, ci sono state molte distruzioni in Indocina ma, come al solito, senza un colpevole. "Grossi tratti di terreno diventarono incolti per colpa della guerra", ha sostenuto l'esperto asiatico del "Times", Fox Butterfield, con una frase che avrebbe lasciato senza fiato George Orwell. Il suo collega Craig Whitney così riassume 'l'eredità della guerra': "La dura punizione inflitta [ai vietnamiti] ed alla loro terra dove era stato permesso ai comunisti di operare" e gli abitanti dei villaggi "cacciati dalle loro antiche dimore dai combattimenti". Si trattò forse di qualche disastro naturale, inspiegabile, a meno che non si indaghi sull'oscurità dell'animo umano (42).

Il recensore inglese del libro raccomandava un ulteriore passo: un esame degli 'obiettivi dei dirigenti di Washington' e non solo dell'animo del tenente Calley e dei soldati impazziti che perpetrarono il brutale massacro, con in mente soltanto il fatto che ogni vietnamita nelle rovine di un villaggio di Quang Ngai - uomo, donna o bambino - era una potenziale minaccia alle loro vite. Come primo passo nell'esame di questi obiettivi, potremmo indagare sulla 'Operation Wheeler Wallawa', nella quale il numero ufficiale di morti fu di 10 mila nemici, incluse le vittime di My Lai. Nella sua dettagliata ricerca su questa ed altre operazioni di omicidio di massa dell'epoca, il capo redattore di "Newsweek" Kevin Buckley scrive che My Lai fu "un'applicazione particolarmente macabra di una politica più generale che molte volte, ed in molti posti, ha avuto i medesimi effetti"; per esempio, in una zona con quattro villaggi in cui la popolazione fu ridotta da 16 mila a 1600 abitanti, oppure un'altra in cui i documenti militari Usa rivelano che i bombardieri B-52 presero accuratamente di mira i villaggi, e dove gli elicotteri inseguirono ed uccisero la gente che lavorava nei campi. "Naturalmente, la colpa di questo non si poteva riversare su qualche goffo tenente", commenta Buckley: "Calley era un'aberrazione, ma non le operazioni come 'Wheeler Wallawa'". E neppure molti altri attacchi dello stesso tipo, un fatto che ci dovrebbe far riflettere (43).

Le squadre di soccorso nordamericane a Quang Ngai furono immediatamente informate del massacro di My Lai ma, come la popolazione locale, non se ne stupirono perché non lo considerarono un evento inusuale. L'ufficiale dell'esercito in pensione Edward King scrisse che "My Lai per il soldato professionista medio rappresentò niente di più dell'essere incastrati in un'operazione di copertura di qualcosa che, si sapeva benissimo, avveniva tutti i giorni su scala minore". Per caso, la commissione militare che indagava sul massacro di My Lai ne scoprì un altro del tutto simile a poche miglia di distanza nel villaggio di My Khe, ma rifiutò l'autorizzazione a procedere contro il comandante perché si trattava di una normale operazione nel corso della quale era stato distrutto un piccolo centro abitato, con l'uccisione di circa 100 persone e la deportazione dei superstiti - questi, come quelli di My Lai, vennero mandati in un campo senza acqua nella Penisola di Batangan sul quale si ergeva uno striscione con la scritta: "Vi ringraziamo di averci liberati dal terrore comunista". Qui vennero poi coinvolti nella 'Operation Bold Mariner', che "cercò di pacificare quella zona" probabilmente con ulteriori stragi e devastazioni dell'ambiente (44).

Potrebbe forse esserci qualche altro candidato ai processi per i crimini di guerra, oltre al generale giapponese Yamashita e ai 1000 altri giustiziati per i loro delitti nella guerra del Pacifico?


Note:

N. 21. Adlai Stevenson, in difesa della guerra Usa all'Onu. Vedi "For Reasons of State", p. 114n.
N. 22. Fall, "Last Reflections".
N. 23. Elizabeth Neuffer, "Boston Globe", 27 febbraio. Pamela Constable, "Boston Globe", 21 febbraio 1991. Su Carter e la conferenza stampa del 24 marzo 1977; vedi Chomsky, "Manifacturing Consent", p. 240.
N. 24. Ibid, 240n.n. e "Necessary Illusions", 33n.n., per esempi dalla stampa. "New York Times", 24 ottobre 1992.
N. 25. Tyler, "New York Times", 5 luglio 1992.
N. 26. Crossette, "New York Times", 6 gennaio 1992. Mary Kay Magistad, "Boston Globe", 20 ottobre. Eric Schmitt, "New York Times", 6 novembre. Steven Greenhouse, "New York Times", 24 ottobre 1991.
N. 27. Barbara Crossette, "New York Times", 14 agosto 1992.
N. 28. Vedi cap. 5, nota 18. Su come i media hanno trattato le atrocità di Pol Pot e quelle indonesiane a Timor-Est, vedi Chomsky, "Political Economy and Human Rights". Sull'illuminante reazione a queste denunce, vedi Chomsky, "Manifacturing Consent", 6.2.8; "Necessary Illusions", app. 1, sez. 1.
N. 29. Greenhouse, "New York Times", 24 ottobre 1991.
N. 30. Vedi "Manifacturing Consent", 6.2.7, e fonti citate. Garthoff, "Détente", p. 701, 751. Sihanouk citato in Ben Kiernan, "Broadside", Australia, Sydney, 3 giugno 1992. Allman, "Vanity Fair", aprile 1990, citato in Michael Vickery, "Cambodia After the 'Peace'", cap. 7, nota 24. Per analisi e aggiornamenti, vedi Kiernan, 'Cambodia's Missed Chance: Superpower obstruction of a viable path to peace', "Indochina Newsletter", nov.-dicembre 1991, citando "Far Eastern Economic Review". Vedi anche Kiernan, "Bulletin of Concerned Asian Scholars", vol. 21, p. 2-4, 1989; vol. 24, p. 2, 1992. Per approfondimenti, vedi Vickery, "Cambodia", e Chandler, "Cambodia".
N. 31. Greenway, "Boston Globe", 13 dicembre. Uli Schmetzer, "Chicago Tribune", 2 settembre 1991. Susumu Awanohara, "Far Eastern Economic Review", 30 aprile 1992.
N. 32 Articolo di fondo, "Washington Post weekly", 2-8 dicembre 1991.
N. 33. Barbara Crossette, "New York Times", 31 marzo 1992.
N. 34. Greenway, "Boston Globe", 20 dicembre 1991.
N. 35. "Associated Press", 14 marzo 1990. Chomsky, "Necessary Illusions", p. 35.
N. 36. John Stockhouse, "Toronto Globe & Mail", 12 giugno 1991.
N. 37. Smucker, "Toronto Globe & Mail", 7 ottobre 1991.
N. 38.. Barbara Crossette, "New York Times", 18 agosto 1992.
N. 39. Vedi Chomsky, "Necessary Illusions", p. 38-9, citando il giornalista israeliano Amnon Kapeliouk e la ricercatrice Usa Dott.essa Grace Ziem.
N. 40. Braw, "Atomic Bomb".
N. 41. Robert Olen Butler, "Washington Post-M.G.", 5 aprile. Wintle, "Financial Times", 16-17 maggio 1992; recensioni di Michael Bilton e Kevin Sim, "Four Hours in My Lai". "Associated Press", 'Five years later, My Lai is a no man's town, silent and unsafe', "New York Times", 16 marzo 1973.
N. 42. Butterfield, "New York Times", 1ø maggio 1977. Whitney, "New York Times", 1ø aprile 1973.
N. 43. Appunti non pubblicati di Buckley. Vedi Chomsky, "Political Economy and Human Rights", 1ø, sez. 5.1.3.
N. 44. Ibid.; "For Reasons of State", p. 222. King, "The Death of the Army" (1972), citato in Kinnard, "War Managers".


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